martedì 16 dicembre 2014

AGLI ALUNNI DELLA V E


Ecco per voi un elenco di testi scelti ( per lo più classici). Offriranno una buona opportunità di svago e di arricchimento,e saranno degli ottimi compagni delle vacanze natalizie.

L’OTTOCENTO
A.Cechov, Il duello
C.Boito, Senso e altre novelle
Ch.Bronte, Jane Eyre
Ch.Dickens, Oliver Twist
E. Wallace, L’enigma della candela ritorta; Il mistero delle tre querce
E.A.Poe, Racconti del terrore; Storia di Gordon Pym
E.Bronte, Cime tempestose
E.T.A. Hofmann, Racconti notturni; Gli elisir del diavolo
F.Dostoevskij, L’idiota; I demoni; Racconti; Delitto e castigo, I fratelli Karamazov
F.Tozzi, Tre croci; Con gli occhi chiusi; Giovani e altre novelle
G. de maupassant, Bel - Ami
G. Flaubert, Madame Bovary
G.D’Annunzio, Il Piacere, l’Innocente
G.Deledda, Canne al vento
G.Verga, La lupa ed altre novelle; I Malavoglia; Mastro Don Gesualdo
H. de Balzac, Un tenebroso affare; Eugenie Grandet; Papà Goriot
H.Walpole, Il castello d’Otranto
I.Turgenev, Primo amore; Nido di nobili; Lo spadaccino
J.Austen, Orgoglio e pregiudizio
l.Tolstoj, La sonata a Kreutzer; la morte di Ivan Il’ic; Anna Karenina; Guerra e pace;
M.G.Lewis, Il monaco
M.Shelley, Frankenstein
N.Hawthorne, La lettera scarlatta
O.Wilde, Il ritratto di Dorian Gray; Il delitto di Lord Arthur Savile
R.L.Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekill e del dottor Hyde
Stendal, La certosa di Parma; Il rosso e il nero

IL NOVECENTO E OLTRE
A. Camilleri, Gita a Tindari ; La forma dell’acqua; Un mese con Montalbano
A. De Carlo, Treno di panna
A.Baricco, Novecento
B. Fenoglio, Una questione privata; Primavera di bellezza
C. A. Ciampi, Da Livorno al Quirinale; A un giovane italiano
C. Levi , Cristo si è fermato a Eboli
C.E.Gadda, La cognizione del dolore
D. Buzzati , Il deserto dei Tartari; Un amore
D.Maraini, La lunga vita di Marianna Ucria
E. Morante, L'isola di Arturo
E.Biagi, Disonora il padre
E.m. forster, Camera con vista
E.Vittorini, Conversazione in Sicilia
G. Carofiglio, Testimone inconsapevole; Ad occhi chiusi; Ragionevoli dubbi;
G. Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata
G.Bufalino, Diceria dell’untore
G.Orwell, la fattoria degli animali, 1984
G.Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo
Ghassan Kanafani, Ritorno ad Haifa
I. Allende, La casa degli spiriti; Paula
I. Calvino , Il barone rampante; Il cavaliere inesistente; Il visconte dimezzato
I. Calvino , Marcovaldo
I.Montanelli, Il generale della rovere
I.Svevo, La coscienza di Zeno, Senilità; Una vita
J.Fante, Chiedi alla polvere; Un anno terribile
J.Joyce, Gente di Dublino
L.Pirandello, Il fu Mattia Pascal; Uno, nessuno e centomila; La patente e altri racconti
L.Sciascia, A ciascuno il suo; Una storia semplice
L.Sorrenti, L’uomo nero; Immagina i corrvi
M.Tobino, Per le antiche scale
M.Yourcenar, Memorie di Adriano
N.Ginzburg, Caro Michele
P. Levi , Se questo è un uomo
R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingstone
U.Eco, Il nome della rosa; L’isola del giorno prima; La misteriosa fiamma della regina Loana
V.Cerami, Un borghese piccolo, piccolo
V.Wolfe, Mrs Dalloway

REALISMO E NATURALISMO NELLA CULTURA EUROPEA - LEZIONE DEL 17.12.2014


Dare una definizione di “realismo” non è operazione semplice, a causa della molteplicità di accezioni che questo concetto implica. IN SENSO PROPRIAMENTE LETTERARIO ogni opera narrativa o poetica che dimostri la volontà dell’autore di descrivere e rappresentare elementi propri della vita reale ha in sé caratteri di realismo. In questa direzione si è mossa la ricerca del filologo e critico letterario tedesco Erich Auerbach (1892 –1957), che in una sua celebre raccolta di saggi dal titolo Mimesis – Il realismo nella letteratura occidentale ha individuato i segni di un atteggiamento “realista” in opere di genere ed epoche assai differenti. Se è vero che tali segni nella letteratura sono sempre stati presenti, prendiamo come caso emblematico il realismo dantesco nella Commedia, è però altrettanto vero che soltanto a partire dalla prima metà dell’Ottocento si è affermata in Europa una corrente narrativa coerentemente realista, impegnata in una sorta di analisi- rispecchiamento del panorama sociale. Nel corso del XIX sec., l’esigenza di realismo, favorita da particolari condizioni politiche e culturali (i sommovimenti suscitati in Europa dalla rivoluzione francese e, sul piano culturale, dalla rivoluzione romantica), si lega soprattutto alla diffusione del ROMANZO, come genere letterario di più largo consumo, che intende proporsi quale affresco della realtà contemporanea. NEL CORSO DELL’OTTOCENTO IL ROMANZO SI RIVELA COME LA FORMA PIÙ ADATTA A COGLIERE LA REALTÀ UMANA E SOCIALE IN TUTTA LA SUA PIENEZZA E VARIETÀ; IL ROMANZO, PIÙ DI OGNI ALTRO GENERE LETTERARIO, SI PRESTA A RAFFIGURARE LA MULTIFORMITÀ DEL REALE.
Nei decenni a cavallo tra Settecento e Ottocento il sovvertimento di monarchie secolari, lo sconvolgimento di un ordinamento sociale rimasto sostanzialmente immutato dal Medioevo, il mutamento repentino delle condizioni di vita di intere masse di individui impongono di riconsiderare la condizione dell’uomo alla luce di parametri culturali nuovi e più ampi. Mentre l’illuminismo aveva nutrito la convinzione che la natura e la ragione umana non fossero soggette a un perenne divenire, nel corso dell’Ottocento si fa invece strada l’idea che L’UOMO SIA IL PRODOTTO DELLA STORIA COLLETTIVA e che anche nel presente egli sia sottoposto a modificazioni continue. Sul piano letterario questa CONCEZIONE STORICISTICA ha un’importanza straordinaria. Infatti ogni personaggio non può più essere definito attraverso statiche caratterizzazioni morali o psicologiche, ma va presentato come entità che subisce i condizionamenti di una sfera sociale e un’epoca precise. La sua personalità e l’idea che egli ha di sé devono trovare giustificazione nel contesto in cui egli è costretto ad agire, e l’ambiente storico sociale che lo circonda va quindi descritto in modo ampio e ben documentato. La capacità di comprendere e di ricostruire la “realtà, in una parola il “realismo” diviene quindi un fattore indispensabile per l’elaborazione di un testo narrativo. Questa nuova forma di impostare e sviluppare il racconto, trova nel romanzo il suo esito più congeniale.
N In Francia l’esigenza di realismo in letteratura si afferma più palesemente dopo la caduta di Napoleone, e raggiunge livelli assai elevati in scrittori quali Stendhal (pseudonimo di Henry Beyle, 1783-1842), Honoré de Balzac ( 1779-1850), Gustave Flaubert (1821-1880); sulle opere di questi grandi maestri del Realismo, si innesta la tradizione del romanzo naturalista che raggiunge la sua piena maturazione in scrittori come i fratelli Edmond (1822-1896 ) e Jules Goncourt ( 1839-1870), Emile Zola (1840-1902), Guy de Maupassant (1850-1893), ritenuti i più significativi maestri del movimento letterario noto come NATURALISMO.
Il Naturalismo, sviluppatosi in Francia nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, rappresenta l’espressione letteraria della cultura del POSITIVISMO, che svolge un ruolo di primo piano nell’Europa della seconda metà del secolo.
Il Positivismo ha le sue origini nella Francia dell’età di Luigi Filippo (1830-1848), diviene nella seconda metà del secolo la filosofia egemone in Europa: sostiene la necessità di ricercare leggi oggettive in tutti i campi del sapere, utilizzando i metodi delle scienze positive, fondate su dati reali, tangibili, empiricamente osservabili, e su verifiche certe. Il Positivismo fu innanzitutto un indirizzo filosofico che giudicava la conoscenza scientifica e il metodo di ricerca analitico-sperimentale come i soli strumenti validi per giungere ad una esaustiva interpretazione della realtà. Presto il Positivismo viene esteso ad ogni ambito disciplinare, dall’arte all’economia, alla politica, comprese le scienze umane, e finisce per influenzare direttamente anche la letteratura e la critica letteraria. Sorgono e si sviluppano nuovi campi disciplinari, come la sociologia, l‘etnografia e l’etnologia, poiché anche la società viene analizzata e descritta secondo il metodo sperimentale.
Teorici del Positivismo furono il filosofo e sociologo francese Auguste Comte (1798 –1857; discepolo di Henri de Saint-Simon, è generalmente considerato l'iniziatore del Positivismo: « L'Amour pour principe et l'Ordre pour base; le Progrès pour but »: “L'Amore per principio e l'Ordine per fondamento; il Progresso per fine » Auguste Comte, Sistema di politica positiva) e il filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903). Quest’ultimo fu primo a tracciare i lineamenti di una “scienza della società”, ossia della moderna sociologia. Grazie alla scoperte scientifiche e mediche, cambia anche la visione del mondo: l’essere umano appare sempre più come una macchina “conoscibile” e “indagabile”, non soltanto nei suoi aspetti clinici, ma anche in quelli psicologici. In pieno clima positivista si colloca la teoria evoluzionistica del naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882), che nel 1859 pubblica un’opera dal titolo “L’origine della specie” (1859); in questo saggio Darwin formulò, sulla base di lunghe osservazioni scientifiche condotte sul mondo animale, una compiuta teoria dell’evoluzione degli esseri viventi, basata sul principio della selezione naturale e della lotta per la sopravvivenza. Sebbene il principio della selezione naturale poteva prestarsi, come di fatto accadde, ad una interpretazione pessimistica delle dinamiche sociali (nei rapporti tra gli individui e fra le classi) determinate e regolate dalla legge del più forte, le teorie darwiniane apparvero, allora, come la garanzia ottimistica di un progresso indefinito della specie umana. Ben presto le teorie di Darwin vengono applicate da Herbert Spencer alla società umana. Secondo Spencer anche la società è oggetto di un processo evolutivo che ne determina le trasformazioni interne(riguardanti la struttura gerarchica, l’economia, il lavoro) e che implica una lotta per la sopravvivenza e una necessaria selezione di cui sono vittima gli individui più deboli, ovvero quelli appartenenti agli starti sociali più bassi.

Il primo ad estendere le concezioni del Positivismo e dell’evoluzionismo darwiniano alla letteratura è il critico inglese Taine (1828-1893), che è anche il primo a utilizzare in un suo libro su Balzac del 1858 l’aggettivo “naturalista”. Nella prefazione alla sua Storia della letteratura inglese (1863), Taine attribuisce alla letteratura il compito di indagare scientificamente la realtà sociale, mediante l’esame dei tre fattori che, a suo giudizio, determinano il comportamento e la psicologia umana: il fattore ereditario, l’ambiente sociale, il momento storico. Il destino dell’uomo viene ad essere il risultato dell’interazione tra questi tre fattori: “il vizio e la virtù- osservava Taine – non sono che dei prodotti, come lo zucchero e il vetriolo”.
L’opera letteraria, in particolare il romanzo, diviene così un documento scientifico: un’indagine condotta con metodo distaccato e rigoroso sulla società umana. Lo scrittore naturalista deve riprodurre la realtà in modo oggetivo, senza alcun compiacimento estetico, evidenziando le componenti storiche, ambientali, sociali che, secondo la lezione del Taine, determinano le azioni umane.


SUL PIANO STORICO-POLITICO, il Positivismo fu, nella seconda meta dell’Ottocento, l’ideologia tipica della Borghesia in ascesa. Esso fu assunto come base culturale del progressismo democratico e concorse - in parte- alla formazione della ideologia socialista. In Italia furono positivisti grandi studiosi di scienze sociali, come Cesare Lombroso (1835-1909), ma anche molti filologi e storici, come Pasquale Villari ( 1826-1917). Nelle sue diverse espressioni, il P. contribuì potentemente ad alimentare la fiducia nel progresso dell’umanità e a sostenere la convinzione di poter controllare, grazie alla scienza, il corso della natura e degli stessi processi sociali. Questo diffuso ottimismo poggiava, particolarmente, su due fenomeni storico sociali: lo sviluppo economico successivo agli anni 1946-47, e le recenti conquiste della scienza.

INDUSTRIA E SCIENZA -
In tutta l’Europa più progredita l’industria promuove la ricerca scientifica e, nello stesso tempo, le scoperte scientifiche e le loro applicazioni in ambito tecnologico fanno avanzare le industrie.
I risultati più consistenti si ebbero proprio nel settore della produzione industriale che , fra il 1850 e il 1873, fece registrare un incremento rilevante che avvantaggiò, in particolare, le nuove potenze industriali: la Francia del Secondo Impero e la Germania, consentendo loro di ridurre il divario che le separava dalla Gran Bretagna. Lo sviluppo industriale si fondò essenzialmente sull’espansione dei settori siderurgico e meccanico. Per i Paesi di più recente industrializzazione furono questi settori a svolgere il ruolo trainante che in Inghilterra era stato proprio dell’industria tessile. Si trattò di uno sviluppo imponente sia dal punto di vista quantitativo (l’industria siderurgica tedesca crebbe per tutto il ventennio 1850-70 ad un tasso medio annuo del 10°/.), sia dal punto di vista qualitativo, reso possibile da alcuni fattori particolari.
Tra questi non possiamo non far riferimento in primo luogo alla diffusione di macchine tecnologicamente avanzate: la macchina a vapore che si sostituì definitivamente alla ruota idraulica, i filatoi e i telai meccanici che soppiantarono gradualmente quelli manuali, il combustibile minerale (carbon coke) che si sostituì sempre più a quello di legna; non meno importante la maggiore disponibilità di materie prime (minerali ferrosi e soprattutto il carbon coke) conseguente alla scoperta e allo sfruttamento di nuovi giacimenti minerari nell’Europa continentale ( Pas de Calais in Francia, il bacino della Ruhr in Germania); la rimozione di antichi vincoli giuridici che ostacolavano le attività economiche (ordinamenti corporativi, leggi che proibivano il prestito ad interesse, condanne per debiti o per fallimenti; si diffuse sempre più l’uso della carta moneta e degli assegni); il trionfo del libero scambio, con lo smantellamento delle numerose barriere che si frapponevano alla libera circolazione delle merci: imposte sul traffico delle vie d’acqua, dazi interni e soprattutto di entrata e di uscita ai confini fra gli Stati. Una fitta rete di trattati commerciali finalizzati ad una congrua riduzione delle tariffe doganali, fu stretta tra le principali potenze europee, Russia compresa. Il libero scambio favorì in primo luogo la Gran Bretagna che, grazie alla sua collaudata struttura industriale, poteva offrire i suoi prodotti a prezzi competitivi; ma finì col giovare anche agli altri Paesi europei, poiché provocando la scomparsa delle imprese meno attrezzate per sostenere la concorrenza, favorì, in generale, la modernizzazione dell’apparato produttivo.
I costi crescenti degli impianti industriali e l’accresciuta concorrenza diedero un forte impulso alla tendenza verso l’aumento delle dimensioni delle imprese e verso le concentrazioni aziendali. Si moltiplicarono, così, le Società per azioni, che consentivano agli imprenditori di ridurre il rischio negli investimenti e di sopperire al bisogno di capitale . L’eccesso di fiducia nelle capacità espansive del mercato fu al’origine di due crisi scoppiate nel 1857-58 e nel 1866-67, che interruppero momentaneamente il corso positivo dell’economia mondiale.
Alcune importanti invenzioni modificano la percezione dello spazio e del tempo. Tra queste, la rivoluzione dei trasporti e dei mezzi di comunicazione. Grazie all’espansione della ferrovia, il treno, realizzato agli inizi dell’Ottocento, accelera e intensifica gli spostamenti, diventando un simbolo di progresso: all’inizio del 1850 esistevano in tutto il mondo circa 40.000 ferrovie; dieci anni dopo, l’estensione della rete ferroviaria era quasi triplicata, con 110.000 Km, di cui più della metà nel Nord America; nel 1854 fu inaugurata la prima linea transalpina, la Vienna-Trieste. Rilevanti progressi si registrarono anche nell’ambito della navigazione a vapore ; infine, l’invenzione del telegrafo (1844) e, successivamente, quella del telefono (1871) consentono di comunicare in tempo reale da luoghi tra loro remoti. La scienza diventa un mito: si pensa che un destino di inarrestabile progresso attenda l’umanità.

Questi nuovi fermenti si traducono, in AMBITO LETTERARIO, nel movimento noto come NATURALISMO, che cercò di applicare in letteratura le vie “scientifiche” affermate dal Positivismo e dal darwinismo.
In Italia il Naturalismo inizia diffondersi a partire dalla metà del 1870, grazie ad una serie di articoli del critico Felice Cameroni (1844-1913) e dello scrittore Luigi Capuana (1839-1915) che nel 1877 recensisce il romanzo di Emile Zola (1840-1902), L’ammazzatoio e due anni dopo dedica allo scrittore francese il suo romanzo Giacinta. Proprio in questi anni (dopo il 1870) Luigi Capuana dà vita a Milano, insieme a Giovanni Verga (1804-1922) al movimento verista, che si prefigge di riproporre in Italia la poetica naturalista.

lunedì 8 dicembre 2014

LA LETTERATURA DELL'UNITA' : LE COORDINATE STORICHE

1. L’UNITA' IMPERFETTA
Il conseguimento dell’unità nazionale, sancito il 17 marzo 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia, costituiva certamente il coronamento di un programma risorgimentale gestito per gran parte dalla borghesia moderata dei vari Stati italiani, e tuttavia aggiungeva nuovi problemi a quelli, già di per sé assai gravi, rimasti aperti. L’alta borghesia settentrionale, presto alleatasi con un’ aristocrazia a sua volta imborghesita e rapidamente convertita alla linea unitaria e costituzionale, era l’unica forza italiana ad avere espresso un programma di sviluppo politico e sociale complessivo e coerente, e ciò le valse la leadership incontrastata all'interno del movimento moderato, cui si contrapponeva un movimento democratico diviso e spesso contraddittorio tanto negli obiettivi proposti quanto nei progetti per la loro realizzazione. Il programma dei moderati, ispirato ai principi del liberalismo di primo Ottocento, prevedeva un armonico sviluppo industriale delle singole regioni italiane, favorito da un ampia autonomia amministrativa e basato sulla libertà d’impresa. Tale progetto si scontrava con le condizioni di estrema arretratezza dell’Italia meridionale e con la fragilità dell’egemonia politica appena realizzata, insidiata dall'aperta ostilità della Chiesa e dal dissenso di una piccola borghesia che non vedeva corrispondere al proprio accresciuto peso sociale un analogo incremento della partecipazione alle sorti politiche del nuovo Stato. Fu così giocoforza, per la borghesia imprenditoriale del Nord, stringere un’alleanza con la borghesia agraria e latifondista del Meridione, che garantì il proprio sostegno al programma unitario a patto che non venisse intaccato il proprio dominio sulle plebi contadine: a patto cioè che i contadini del Sud rimanessero nelle condizioni di miseria, analfabetismo e ghettizzazione che risultavano le più idonee per il loro sistematico sfruttamento. Ciò determinò un grave scompenso nella crescita complessiva del paese, che influì molto negativamente sulla modernizzazione dell’agricoltura e sullo sviluppo sociale del Mezzogiorno, con effetti che si avvertono ancora oggi. Anche il piano di decentramento amministrativo e di autonomie regionali, che avrebbe potuto incentivare le risorse locali, rimase lettera morta di fronte alla necessità per il partito moderato di compensare la sua esigua base sociale con un ferreo controllo centrale delle risorse e degli investimenti: ciò conferiva necessariamente al Piemonte e alla capitale Torino un ruolo di assoluto privilegio nella nuova compagine statale, rendendo il processo unitario più simile a un’ operazione di tipo coloniale da parte dell’ex Regno di Sardegna, che non al solidale convergere di iniziative locali verso obiettivi da tutti voluti e interpretati allo stesso modo. Non ultimo per importanza, fra i problemi che il nuovo Stato si trovò ad affrontare, era il completamento dell’unità nazionale con l’annessione del Veneto e di Roma. Punto irrinunciabile della propaganda democratica, che vi coglieva l’ultima occasione per rilanciare il movimento insurrezionale, la questione influenzò profondamente la politica interna ed estera del Regno d’Italia nel suo primo decennio di vita, rivelò la scarsa autonomia dei Savoia rispetto alle potenze europee e soprattutto mise in luce la vocazione repressiva dei governi post-unitari, assai preoccupati dalle eventuali rivendicazioni popolari che la liberazione di Venezia o Roma per via di insurrezione democratica avrebbe potuto stimolare. Le difficoltà dell’Italia unitaria, insomma, appaiono legate- né poteva essere altrimenti - al modo in cui il Risorgimento si era realizzato e all'impronta sostanzialmente moderata e conservatrice che esso aveva storicamente ricevuto: il ferimento di Garibaldi all'Aspromonte da parte dell’esercito regio può costituire l’episodio emblematico della definitiva abdicazione dell’iniziativa popolare e democratica a favore della ragion di stato e del contesto politico internazionale.

2. LA DINAMICA POLITICA E SOCIALE
I primi governi della Destra storica, che deteneva una larga maggioranza in un parlamento eletto in poco più di quattrocentomila elettori selezionati in base al censo, si trovarono divisi tra le sempre più pressanti richieste dei democratici che pretendevano la liberazione del Veneto dal dominio austriaco e di Roma da quello pontificio, e le esigenze del concerto internazionale, soprattutto di Napoleone III, rivolte ad una conservazione dello status quo e alla protezione anche militare, da parte francese, della sovranità temporale del papa.
L’ambiguità del governo italiano apparve chiara fin dal 1862, quando Giuseppe Garibaldi organizzò un corpo di volontari che risalendo dalla Sicilia attraverso l’Italia meridionale sarebbe dovuto giungere fino a Roma. L’atteggiamento di Vittorio Emanuele II e del presidente del consiglio Urbano Rattazzi, che all'inizio poteva essere interpretato come un tacito incoraggiamento all'impresa, mutò radicalmente in seguito alla reazione di Napoleone III e al pericolo che il passaggio dei garibaldini provocasse un insurrezione democratica nelle popolazioni meridionali: un corpo di spedizione dell’esercito regio fu inviato in tutta fretta ad intercettare i volontari in Aspromonte, e nel breve scontro a fuoco che ne seguì lo stesso Garibaldi fu ferito ad un piede. L’impressione sull'opinione pubblica fu enorme, e costrinse Rattazzi alle dimissioni; ma non determinò cambiamenti nella politica italiana, sempre più orientata ad affidare al mutevole gioco degli equilibri internazionali la soluzione della questione.
Nel quadro europeo l’elemento dinamico a partire dal 1862 era costituito dalla Prussia di Birsmarck, votata ad un consolidamento del dominio prussiano sulla Confederazione germanica anche attraverso consistenti espansioni territoriali; e in questa fase il ruolo della Prussia si rilevò determinante. L’Austria e la Francia era i due maggiori rivali dell’espansionismo prussiano; gli stessi paesi costituivano un insormontabile ostacolo per il compimento dell’unità nazionale italiana: il Veneto faceva parte dell’Impero Asburgico, mentre lo stato Pontificio era sotto la protezione di Napoleone III, che nel 1864 aveva imposto a Vittorio Emanuele II lo spostamento della capitale da Torino a Firenze, come segno della definitiva rinuncia a Roma dello stato Italiano.
Garantitosi un secondo fronte grazie ad un alleanza offensiva con l’Italia nel 1866 Birsmarck attaccò e sconfisse in breve tempo l’Austria, nonostante le conquiste subite dall'esercito italiano a Lissa e a Custoza (terza guerra di indipendenza); in seguito alla pace di Praga il Veneto fu definitivamente annesso all'Italia. Quattro anni più tardi nel 1870, i colpi d’ariete dell’esercito prussiano sgretolavano a Sedan la potenza militare e determinavano la caduta del Secondo impero, lasciando all'Italia campo libero per la liberazione di Roma che avvenne quasi senza colpo ferire il 20 Settembre dello stesso anno.
Si risollevavano così le più due gravi questioni territoriali rimaste aperte per lo stato unitario. In ambedue i casi la soluzione non fu determinata da un iniziativa autonoma ne tantomeno popolare, bensì solo dal favorevole decorso dei conflitti fra le potenze europee. Si perse in questo modo l’occasione di cementare sotto una bandiera ideale la precaria compagine sociale e morale della nuova Italia.
Represso fra il 1861 e il 1865 il brigantaggio meridionale, che era la spia più evidente del disagio e dell’arretratezza di quelle popolazioni, i vari governi della destra si dedicarono a un difficile risanamento del bilancio statale perseguito attraverso una fortissima repressione fiscale che colpiva soprattutto l’agricoltura impoverendo ulteriormente le già miserrime plebi contadine. Anche il patto sociale stabilito fra moderati settentrionali e latifondisti meridionali fece si che la riforma agraria ben avviata al nord con positive conseguenze sullo sviluppo dell’agricoltura rimanesse al sud quasi del tutto inefficace lasciando intatti anzi incrementando tanto il latifondo quanto il regime di odioso sfruttamento bracciantile. Lo stesso fenomeno migratorio fu ostacolato con leggi restrittive allo scopo di non diminuire l’offerta di braccia e mantenere quindi bassissimo il prezzo della manodopera, e solo intorno al 1890 si provvide a liberalizzare l’emigrazione.
Neanche la cosiddetta “rivoluzione parlamentare” del 1876 che portò al potere la sinistra di Agostino De Pretis valse a mutare gli indirizzi generali della politica italiana. La riforma elettorale del 1882 cominciò a escludere dal voto gli analfabeti e i nullatenenti privando di fatto dei diritti politici la stragrande maggioranza meridionale; anche l’obbligatorietà di un biennio di istruzione elementare introdotta dalla legge Coppino del 1877 rimase largamente inoperante soprattutto al sud: la cosiddetta “questione meridionale” si aggravò così sempre di più divenendo il principale ostacolo sulla via di uno sviluppo industriale e tecnologico del paese.
D’altra parte la classe imprenditoriale italiana aveva assoluto bisogno di un sostegno statale per una politica di industrializzazione diffusa; i costi delle iniziative che il governo italiano prese in tal senso si riversarono inevitabilmente sull'agricoltura attraverso il progressivo aumento della pressione fiscale e l’abbandono a se stesso del latifondo meridionale, che risultava coltivato sempre peggio e con una sempre più ingiusta ripartizione dei guadagni che ne derivano.
Il decennio 1880-1890 fu così segnato da uno sviluppo industriale piuttosto modesto i cui costi si scaricarono su un tessuto sociale gravemente compromesso, con la spaccatura tra nord e sud molto approfondita e con dei diffusi fermenti di protesta non solo contadina che nel decennio successivo avrebbero avuto drammatici sviluppi.

3. I MOVIMENTI IDEOLOGICI
Dal punto di vista delle ideologie, il dato più rilevante del trentennio compreso fra il 1860 e il 1890 è la nascita e il consolidamento del movimento comunista internazionale, in stretta dipendenza dal marxismo e dai suoi sviluppi teorici. Al rapidissimo sviluppo del capitalismo, che nei maggiori paesi europei entra già a partire dal 1870 nella sua fase monopolistica - fatta di grandi concentrazioni industriali libere da problemi di concorrenza, e quindi padrone incontrastate tanto del mercato quanto dei rapporti di lavoro con la classe operaia -, corrispose un'organizzazione altrettanto rapida dei lavoratori, le cui associazioni spontanee trovarono nelle dottrine di Karl Marx (1818-1883) e nella prassi politica comunista il connettivo più efficacie e duraturo. Nel 1864 nasceva così la prima Associazione Internazionale degli Operai, meglio nota come <>, nella quale lo stesso Marx, che tre anni dopo avrebbe pubblicato il volume del Capitale, svolse un ruolo organizzativo di grande rilievo.
L'ideologia comunista, ancorata alla prospettive del <> di Marx, conteneva in sé una carica palingenetica che andava ben al di là dell'obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli operai o trasformare a favore del proletariato la dinamica dei rapporti di produzione: la <>, coronamento di un'attività rivoluzionaria che doveva basarsi sulla <> per poi superarla, si configurava in fondo come l'utopia di un Mondo totalmente nuovo, fondato su principi di uguaglianza e giustizia sociale ben più profondi ed efficaci di quelli che governano il presente. Fu proprio tale apertura utopistica a determinare l'adesione alla causa marxista di un gran numero di intellettuali che vi ravvisarono un potente strumento di opposizione alla società borghese.
Del resto vari fermenti di socialismo utopistico circolavano in Europa da prima del 1848, anno di pubblicazione del Manifesto del Partito comunista; e anche se l'adesione alla prassi rivoluzionaria risultava spesso variamente sfumata in senso riformistico, non c'è dubbio che quelle forze preesistenti contribuirono non poco alla diffusione capillare del marxismo tanto fra le masse operaie quanto nei ceti intellettuali.
I punti-cardine della strategia comunista erano l'abbattimento violento del sistema capitalistico, l'abolizione della proprietà privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Anche le strutture dello Stato borghese andavano abbattute e sostituite da uno Stato che fosse emanazione diretta della <>, necessaria fase intermedia verso quella società senza classi e senza Stato che costituiva l'obiettivo finale del processo storico.
Il marxismo si qualificava in tal senso come la risposta più compatta e radicale del movimento operaio allo sviluppo del capitalismo; ma il problema del riscatto sociale delle classi più povere trova in questo periodo anche le altre soluzioni.
Più moderata era ad esempio la posizione del francese Pierre Joseph Proudhon (1809-1865), decisamente contrario a ogni forma di collettivizzazione dei mezzi di produzione e sostenitore di libere associazioni di lavoratori capaci di produrre in totale autonomia ripartendo in modo egualitario i profitti del loro lavoro: un'organizzazione del genere avrebbe portato, secondo Proudhon, alla naturale scomparsa dello Stato in quanto garante del dominio della classe egemone. A differenza di Marx, inoltre, Proudhon non riteneva la classe operaia l'unico propulsore del movimento rivoluzionario e anzi guardava alla società contadina come al terreno ideale per l'applicazione di un modello cooperativistico che poteva prefigurare l'associazionismo globale da lui auspicato.
Soprattutto ai contadini guardava anche l'anarchismo di Michail Bakunin (1814-1876), insofferente di qualsiasi forma di autorità e di organizzazione sociale e propugnatore di una società di stampo proudhoniano fondata sul libero sviluppo di gruppi associati o individui. Per gli anarchici tale società doveva essere perseguita attraverso una tattica insurrezionale affidata all'azione diretta dai singoli, che poteva esprimersi anche attraverso gesti dimostrativi come l'assassinio di regnanti e governanti o l'attentato terroristico rivolto a seminare il panico e a destabilizzare gli equilibri statuali.
Dall'altra parte della barricata le ideologie ispirate allo sviluppo del capitalismo, come il liberalismo di primo Ottocento, subivano dopo il 1860 una sensibile battuta d'arresto nella ricerca teorica e speculativa, anche perché impreparate di fronte alla repentina trasformazione in senso monopolistico e finanziario del capitale d'impresa, con conseguenze che sembravano contraddire, almeno sul piano economico, i fondamenti stessi delle teorie liberali. Ne derivò una certa debolezza che lasciò campo libero alla forze avversarie, le quali a partire dal 1875 presero a organizzarsi in partiti socialisti nazionali, di impronta ora riformista ora rivoluzionaria: essi confluiranno nel 1889 nella Seconda Internazionale, ben più ampia e potente della Prima (che si era sciolta nel 1876), anche se più permeata da cosiddetto “revisionismo” di primo Novecento. se il quadro ideologico europeo di secondo ottocento appare polarizzato sul problema della lotta di classe e dello scontro sempre più aspro fra proprietari e manodopera,
in ITALIA la situazione si presenta sensibilmente diversa. Abbiamo già visto infatti come lo sviluppo capitalistico fosse nel nostro Paese molto più arretrato e difficoltoso che nel resto dell’Europa occidentale. Tale condizione rendeva più problematico il sorgere di una coscienza operaia e quindi più lenta e tortuosa la diffusione delle idee socialiste. Del resto Giuseppe Mazzini, che continuava a costituire il punto di riferimento per lo schieramento repubblicano e progressista italiano, era un fermo oppositore del marxismo e del socialismo (netta per esempio era stata la sua condanna dell’esperienza della Comune di Parigi); e la forte penetrazione degli ideali repubblicani presso gli strati urbani più poveri agì da diga nei confronti delle indicazione della Prima Internazionale. Solo nel 1882 si formò in Italia, sotto la direzione di Andrea Costa (1851-1910), un piccolo partito operaio indipendente di ispirazione socialista, che dieci anni più tardi (1892) Filippo Turati (1857-1932) avrebbe trasformato nel Partito socialista italiano.
Ben più rilevante, per il periodo in esame, fu la diffusione dell’anarchismo bakuniniano, che trovava terreno fertile tanto nella popolazione contadina, quanto in alcuni settori della classe operaia e del sempre crescente sottoproletariato urbano. Nelle parole d’ordine dell’anarchia, con il loro ribellismo spesso generico e con l’esaltazione dell’atto individuale svincolato da qualsiasi strategia complessiva, poteva però riconoscersi anche l’insofferenza antiborghese di numerosi intellettuali soprattutto settentrionali, nutriti di idealismo di matrice romantica e pronti a trasferire nei comportamenti e nei costumi la carica trasgressiva nei confronti del valori riconosciuti. Pur se privi di un programma politico in positivo, tali intellettuali –per gran parte artisti e scrittori come ad esempio gli scapigliati- contribuirono comunque, anche attraverso lo “scandalo” destato presso i benpensanti, a rendere problematica la cultura espressa dalla classe al potere, innervandola di dubbi e contestazione, e inaugurando un’arte “di opposizione” che si può considerare per molti versi all’origine della prassi novecentesca delle avanguardie storiche.
Un discorso a parte va fatto, almeno in Italia, per le ideologie di matrice cattolica. Il “non expedit” con cui Pio IX, nel 1874, vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato resosi “colpevole” della breccia di Porta Pia determinò di fatto un isolamento del mondo cattolico dai più impellenti problemi di gestione economica e organizzazione sociale che si ponevano all’Italia unita; e quindi lo tagliò fuori, almeno per i primi tempi, dal dibattito spesso violento sulle condizioni dei lavoratori, sulla natura del capitalismo, sul socialismo. Dall’ambito cattolico erano pur partite indicazioni riguardanti la questione sociale: grande rilievo avevano avuto, per esempio, le posizione del vescovo di Magonza Wilhelm Emmanuel von Ketteler (1811-1877), che risalivano ai primi anni Sessanta e condannavano sia il capitalismo sia il socialismo, propugnando un’economia basata sulla morale cattolica e su un forte assistenzialismo da parte dello Stato e della Chiesa. Da tali principi si sviluppò un movimento cristiano-sociale che soprattutto in Austria, Francia e Belgio agì in concorrenza e in polemica con le organizzazioni socialiste, pur avanzando talvolta richieste di riforme sostanzialmente identiche.
Circoli e associazioni cristiano-sociali si formarono dopo il 1870 anche in Italia e si caratterizzarono per un’intensa propaganda antisocialista che agiva su operai e contadini attraverso forme associative e organizzative legate alle diocesi o alle parrocchie. Ma la vicinanza al soglio pontificio e le particolari condizioni politiche indotte dal “non expedit” non solo conferirono una particolare virulenza alla predicazione antisocialista, ma spesso arrivarono a coinvolgere, sotto la comune accusa di <>, anche le strutture dello Stato italiano (del resto figlie di quel liberalismo economico che la dottrina cristiano-sociale condannava). Solo nel 1891, l’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII potè mettere un po’ d’ordine nel movimento cattolico, attenuando le punte antistatali ed eversive e promuovendo una più mirata attività dei cattolici presso le masse lavoratrici, che a poco a poco spostò di fatto la Chiesa su posizioni meno conservatrici e più aperte ai problemi sociali.

4. INTELLETTUALI E ISTITUZIONI CULTURALI
Abbiamo visto nell'introduzione alla sezione precedente come nella prima metà dell'Ottocento fosse emersa una nuova figura di intellettuale,vincolato dalle corti e dalle gerarchie ecclesiastiche e sostenuto da un'industria elettorale che cominciava a giovarsi sempre più dell'allargamento del pubblico e della crescente alfabetizzazione. Tale fenomeno era però limitato quasi esclusivamente al Lombardo-Veneto e al Piemonte,la cui qualità di Stati autonomi,dotati di una classe imprenditoriale particolarmente vivaci e di un'amministrazione complessivamente assai accorta favoriva di fatto nuovi sbocchi sociali del ceto intellettuale.
Una volta unificata l'Italia,le proporzioni del fenomeno,riportate su scala nazionale, mutarono bruscamente:il modello settentrionale non poteva infatti essere esteso a un paese in cui nel 1861 il 78% della popolazione era analfabeta,con punte del 95% nel Meridione. Il ceto intellettuale dell'Italia unitaria si trovò perciò ad agire su" uno strato sociale estremamente ristretto che non poteva a sua volta non condizionarlo,sia nel senso di realizzare un ricambio pressoché obbligato al proprio interno, sia nel senso di un oggettiva difficoltà a uscire dagli orizzonte ideali e politici che caratterizzavano la classe dominante" (A. ASOR ROSA ).
Gli sforzi dello Stato unitario nel campo culturale ci concentrarono soprattutto sulla riorganizzazione della scuola,che presentava caratteristiche assai diverse nelle varie regioni e che aveva innanzi tutto bisogno di un profondo ricambio di docenti,con l'ingresso di intellettuali omogenei alle idee unitarie e liberali da cui nasceva il Regno D'Italia.Sia pure con molte disuguaglianze fra Nord e Sud e con numerose contraddizioni interne,il lavoro organizzativo diede buoni frutti,elevando complessivamente il livello culturale medio della popolazione italiana e consentendo a partire dal decennio Ottanta una forte ripresa dell'attività editoriale e giornalistica,che fino a quel momento aveva dovuto segnare il passo.
Le ripercussioni negative della situazione in generale all'indomani dell'unità d'Italia si fecero sentire soprattutto su artisti e letterati:mentre infatti gli intellettuali con competenze tecniche-scientifiche o economiche potevano provare senza troppe difficoltà un ruolo nel lavoro necessario per la costruzione del nuovo Stato,i depositari della creatività artistica si trovarono invece a fronteggiare una grave crisi di committenza. L'austera politica economica della Destra destinava poco o nulla alle attività culturale e i nuovi ricchi borghesi si dimostravano molto più insensibili degli aristocratici alla protezione delle arti liberali. Dall'altra parte l'editoria tutta accentrata fra Lombardia e Piemonte vide aumentare a dismisura i propri costi di gestione per l'improvviso allargarsi della sua base territoriale senza che ciò corrispondesse un apprezzabile incremento del mercato,visto la pressoché totale assenza di pubblico alfabetizzato in quasi tutte le regioni appena entrate a far parte del regno d'Italia.
In conseguenza di ciò i letterati italiani,la cui provenienza di classe era ormai in maggioranza medio-piccolo borghese, e quindi tale da non consentire cospicui appoggi finanziari di origine familiare,si trovarono spesso in condizioni economiche assai difficili:se la " bohème" fu per alcuni una scelta di vita,per altri costituì una vera e propria necessità. Si verificò,in altri termini,una parziale "proletarizzazione" del letterato,con conseguenze talvolta non trascurabili sulla natura stessa e sulla destinazione dell'attività creativa.
La situazione cominciò a mutare in meglio intorno al 1880, grazie all'enorme favore incontrato nel pubblico dei cosiddetti "romanzi di appendice",che venivano pubblicati a puntate da quotidiani e periodici, e al rilancio dell'attività editoriale che trovò in Firenze e Roma i nuovi centri di diffusione e di iniziativa:basti pensare al caso di Giovanni Verga,che riuscì a vivere sempre del suo escluso lavoro di scrittore, e che realizzò lauti guadagni grazie ai diritti di autore di una sua novella, Cavalleria Rusticana, divenuto nel 1890 un melodramma di grande successo per la musica di Pietro Mascagni.
In ogni caso la condizione di intellettuali e istituzioni culturali nel primo trentennio dell'unità d'Italia si presentava alquanto difficile,in relazione alle condizioni di grave arretratezza del paese alle fortissime differenziazioni locali e alla scarsissima base sociale su cui la cultura poteva contare.



LE COORDINATE GEOGRAFICHE

1.La geografia letteraria
La cultura letteraria dell’ Italia unita non poteva non risultare somma delle singole culture espresse dagli Stati precedentemente divisi. é comunque indubbio che grazie alle maggiori possibilità di comunicazione e di circolazione delle idee conseguenti alla caduta dei confini interni,nel periodo 1860-1890 si verificò un sostanziale mutamento negli equilibri geografici della produzione letteraria. Praticamente assente dalla ribalta della letteratura internazionale per tutto il Settecento e per la prima metà dell’Ottocento,il Sud fa ora improvvisamente sentire la sua voce: il VERISMO,che è senza dubbio il più importante fenomeno narrativo di questa fase,reca tratti spiccatamente meridionali, e in particolar modo siciliani, grazie alle personalità di Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto. E’ però molto significativo che i tre maggiori rappresentanti del Verismo siciliano abbiano trascorso a Milano lunghi periodi della loro esistenza: i loro strumenti espressivi, nutriti dalla realtà isolana in cui erano nati e cresciuti, avevano comunque bisogno del contatto con una civiltà letteraria più avanzata e complessa, oltre che con strutture culturali infinitamente più efficienti e ramificate. Certo non furono estranee al perfezionamento della poetica verista le influenze della scapigliatura,fenomeno esclusivamente lombardo e piemontese, anzi largamente tributario di esperienze francesi,che tuttavia elaborò una visione del mondo capace di agire sulle sensibilità tanto lontane e appartate di quel manipolo di intellettuali siciliani saliti al Nord. Da questo punto di vista si può dire che il verismo è stata la prima manifestazione autenticamente nazionale della letteratura italiana,per la quale sarà sempre più difficile,d’ora in poi,individuare delle coordinate geografiche di particolare rilievo e significato. Si può però rilevare che il risveglio del Meridione, purtroppo solo letterario, non si limita alla sola Sicilia: è molto attiva Napoli, dominata dalla figura di Francesco De Sanctis e ricca di esperienze autoctone solo tangenzialmente riconducibili al verismo,come quelle di Salvatore Di Giacomo o di Matilde Serao; e si comincia a produrre letteratura anche in regioni rimaste lungamente silenti,come la Calabria di Vincenzo Padula e Nicola Misasi. L’eredità dell’egemonia lombardo-piemontese di primo Ottocento viene raccolta dalla scapigliatura,che fa di Milano un centro di elaborazione culturale molto attivo, fondando svariate riviste letterarie e soprattutto contribuendo alla nascita di un’immagine di metropoli senza uguali nel panorama italiano del tempo:una metropoli con le sue borgate e il suo proletariato,la sua piccola borghesia impiegatizia e i suoi industriali,che ispirerà nelle opere di Emilio De Marchi e Paolo Valera un realismo assai diverso da quello meridionale. Più appartata e legata ai vecchi modi romantici, seppure percorsa da fermenti innovativi e da una specifica attenzione per il positivismo,appare la cultura letteraria veneta, che trova nel vicentino Antonio Fogazzaro,il maggior narratore del periodo e in poeti come Aleandro Aleardi, Giacomo Zanella e Vittorio Betteloni gli esponenti di un cauto e faticoso rinnovamento della letteratura in versi. Ancor più appartato e se possibile ancor meno ricco di risultati significativi si rivela il profilo letterario della Toscana:nonostante la sopravvivenza del mito culturale di Firenze,del resto alimentato nel periodo granducale dal Visseux e dagli intellettuali che intorno a lui si riunivano,la produzione della cultura toscana risulta in questo periodo alquanto scarsa:a parte carducci,che mieterà però gran parte delle sue glorie letterarie a Bologna(e bolognese del resto era anche il suo editore Zanichelli),si possono segnalare soltanto alcuni spunti di verismo bozzettistico e campagnolo nell’opera di Mario Pratesi e Renato Fucini,mentre gli unici momenti di autentica originalità vanno ravvisati nella produzione per l’infanzia di Carlo Collodi.Un discorso a parte va fatto per Roma,che diviene capitale d’Italia nel momento di più grave degrado della sua cultura e delle sue forze intellettuali:tramortita dall’immobilismo pontificio,ridotta a poco più di borgo popolato per la stragrande maggioranza da artigiani e proletari analfabeti,Roma sconta pesantemente il suo isolamento,che già Leopardi negli anni Venti stigmatizzava. Ma l’indotto creato dai ministeri e dal suo essere divenuta improvvisamente il centro della vita politica del paese rivitalizzerà in breve tempo la città, che già nel decennio Ottanta dimostra sul piano culturali forti spinte di ripresa,soprattutto grazie all’attività dell’editore Angelo Sommaruga e alla presenza di immigrati di spicco come gli abruzzesi Gabriele d’Annunzio ed Edoardo Scarfoglio.Anche se la produzione letteraria autoctona lascia ancora a desiderare(l’unico nome di rilievo è il poeta dialettale Cesare Pascarella),la capitale diviene comunque un punto per i letterati di tutta Italia,attirati da riviste come”Cronaca bizantina”o”Nuova Antologia”,la cui risonanza era divenuta addirittura internazionale.

2. La geografia nell’ immaginario letterario.
La vocazione sostanzialmente realista del periodo preso in esame fa sì che i luoghi prediletti dall’ immaginario letterario si discostino ben poco da quelli nei quali si svolse l’ esistenza dei vari scrittori. L’ esotismo anzi – un esotismo, beninteso, tutto di cartapesta, costruito sui peggiori luoghi comuni e sulla più facile oleografia – sembra appannaggio esclusivo della letteratura d’ appendice, che non esita ad ambientare improbabili storie di amore e morte nei siti più stravaganti del pianeta; per gli scrittori migliori, invece, il dato reale sembra dominare su qualsiasi volo fantastico o mitologia letteraria.
Anche un poeta imbevuto di miti classici, come Giosuè Carducci, quando si trova di fronte alle rovine dell’ antica Roma (in Dinanzi alle terme di Caracalla), non sa sottrarsi all’ osservazione del presente, evocando nei versi non tanto il fascino dei ruderi quanto il triste paesaggio che li circonda con le figure ( un turista inglese, un contadino ciociaro) che vi compaiono in quel momento. Solo raramente, come per esempio in Primavere elleniche, l’ immaginazione di Carducci si libra di luoghi e tempi remoti, i luoghi appunto della classicità greca. Ma anche in questo caso l’ autore sente il bisogno di premettere al trittico di poesie un’ apostrofe a “Lina” che obbliga comunque il lettore a partire da una condizione presente, e a considerare effetto di un sogno, di una visione, le immagini successive: “Lina, brumaio torbido inclina, |ne l’aer gelido monta la sera: | e a me ne l’anima fiorisce, o Lina | la primavera”.
Coerentemente con la loro poetica, i veristi descrivono con precisione assoluta i luoghi in cui ambientano le loro narrative: anche i più minuscoli borghi e frazioni vengono chiamati con il loro nome e dipinti nel loro assetto reale: la Sicilia di Verga e Capuana ci balza incontro dalla pagina con un’evidenza impressionante, per nulla trasfigurata dal benché minimo intervento emotivo; e anche la Milano impiegatizia di De Marchi, o quella degli appartamenti in affitto o i cortili dei palazzoni di periferia. Maggiore varietà viene offerta dalla vena fantastica degli scapigliati, che spesso amano ambientare le vicende da loro inventate in luoghi pur sempre italiani, ma piuttosto remoti e misteriosi per la loro sensibilità come l’interno della Calabria o l’Italia meridionale in genere. In ogni caso la letteratura del periodo è sostanzialmente refrattaria all’ immaginazione geografica: neanche città-mito come Venezia, Firenze o Roma, che ancora nel primo Ottocento agivano come luoghi ideali della fantasia creatrice, sembrano ora aver diritto di cittadinanza nel contesto di verità “sperimentale” strenuamente perseguito. Da quella verità nasceranno comunque “miti”, ma la loro carica fantastica esploderà solo a Novecento inoltrato.


venerdì 21 novembre 2014

G. LEOPARDI, LA GINESTRA o IL FIORE DEL DESERTO (1836)


Composto nel 1836 a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, dove il poeta era ospite di parenti dell’amico Ranieri, il canto è tradizionalmente considerato il testamento spirituale del poeta, che gli attribuisce il valore di un’ideale conclusione della sua lunga e travagliata ricerca: è lo stesso Leopardi che chiede esplicitamente a Ranieri di collocare la composizione come ultimo dei Canti nella edizione definitiva. Riprendendo il filo tematico e metaforico del “deserto” già presente nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e poi approfondito in “Amore e morte” (seconda lirica del “Ciclo di Aspasia”), il poeta costruisce una lunga e complessa allegoria a partire dalla ginestra, “fiore del deserto”. Se in “Amore e morte”, senza la presenza fisica dell’amata, l’esistenza umana si trasforma in un arido deserto, qui la semplice e umile ginestra simboleggia la vita che sa resistere stoicamente all’inospitalità dell’ambiente, negazione di ogni vita, e diviene metafora del poeta stesso.
La sua inusitata ampiezza (317versi), il confluire in esso di tutti gli elementi della visione del mondo elaborata da Leopardi nell'ultima fase della sua esistenza (1824-37), la solennità dell'andamento stilistico, la stessa epigrafe tratta dal vangelo di Giovanni, sembrano conferire al canto l'aspetto definitivo ed estremo di quella LETTERA A UN GIOVANE DEL VENTESIMO SECOLO che il poeta progettava fin dal 1827e che non scrisse mai.
L’occasione della poesia è offerta dalla viva impressione suscitata in Leopardi dalla fioritura della ginestra sulle pendici del Vesuvio. Il fragile fiore, sbocciato sulla lava che nel 79 d. C. distrusse Pompei, Ercolano e Stabia, è polemicamente contrapposto allo sciocco orgoglio degli uomini dell’Ottocento (“secol superbo e sciocco”) e alla loro ridicola, nonché ingenua illusione di ritenersi padroni dell'universo, mentre basta un improvviso movimento tellurico per distruggere, in un attimo, un’intera civiltà. Di qui la polemica contro l'idealismo progressista: in nome di una cieca e ottusa fiducia nella centralità dell'uomo (Antropocentrismo) e nella perfettibilità dell'universo, il secolo XIX avrebbe voltato le spalle alla linea di pensiero che dal Rinascimento aveva condotto alle conquiste civili del secolo dei lumi (la civiltà contemporanea è descritta sarcasticamente come trionfo dell’oscurantismo per i falsi miti del progresso e della religione ) . Al contrario, il genere umano dovrebbe prendere coscienza della propria fragilità, dell'infima consistenza di quel granello di sabbia che è la Terra in confronto all'immensità dell'universo, e unire tutte le sue forze contro la Natura “matrigna”, ostile e indifferente, impegnata in un ciclo perenne di autoperpetuazione. Solo da una loro partecipe solidarietà nella sconfitta, gli uomini potranno creare ordinamenti civili, finalmente giusti. La impressionante rievocazione dell'eruzione vulcanica mira a confermare la miseria della condizione umana: ecco allora l'apprensione del viandante che scruta la vetta fumante de Vesuvio, e il panico della gente che, non appena sente gorgogliare l'acqua nel pozzo, afferra frettolosamente le proprie cose e fugge lontano per sottrarsi all'empia furia della natura eternamente rigogliosa e incurante delle misere fatiche degli uomini. Se la tenera ginestra, conclude il poeta, soccomberà prima o poi dinanzi alla forza del vulcano, lo farà secondo un destino naturale, altrettanto naturalmente accettato, senza servili sottomissioni, ma anche senza orgoglio di chi si giudica immortale, riponendo un’ingenua ed eccessiva fiducia nel progresso.
Il quadro delle problematiche disegnate dal canto ha dato adito alle più svariate interpretazioni e ai giudizi critici più contrastanti: svalutato da Benedetto Croce , in quanto prevalentemente “non poetico” per le ampie manifestazioni di “pensiero” che ne inficerebbero la purezza lirica, fu poi usato da Cesare Luporini nel saggio “Leopardi progressivo” (1947) come prova del progressismo del poeta, che avrebbe preconizzato una sorta di confederazione degli umili come unico possibile futuro per le istituzioni civili e pubbliche dell'umanità. In realtà, se anche vi si può cogliere qualche slancio di utopismo neoilluministico, Leopardi combatte, nella Ginestra, la pretesa umanistica di stabilire valori positivi per l’esistenza umana e per il suo destino sociale: l'errore del secolo XIX è consistito nel non tener conto dell'operazione distruttiva compiuta dall' Illuminismo delle verità negative che da quella scuola di pensiero sono emerse, mentre l’ “arido vero” rimane pur sempre l'assoluta e incontrovertibile verità della condizione umana.

Leopardi esprime, infine, l’appassionata difesa di una civiltà fondata sulla ragione ( “ragione” intesa come fondamento del metodo interpretativo della realtà) , e volta a perseguire l’unico progresso che conti: quello di una convivenza civile basata sulla giustizia e sulla solidarietà tra gli esseri umani. La poesia fu pubblicata nell'edizione postuma dei canti curata da Ranieri (Firenze,1845).

EVOLUZIONE DEL PENSIERO IN LEOPARDI – TERZA FASE (1824- 1837)

- Sarcasmo nei confronti delle illusioni dei contemporanei
- L’unica forma di moralità autentica consiste nell’accettare la condizione umana senza illusorii ottimismi, legittimità del desiderio di morte
- Importanza dlla dimensione sociale dell’essere umano: gli uomini devoo essere solidali fra loro ed unirsi coraggiosamente contro la natura, nemico comune.

EVOLUZIONE DELLA POETICA LEOPARDIANA – TERZA FASE (1828-1837)
- Non più contrapposizioni, ma fusione tra Poesia e Filosofia
- La nuova poesia riflette sui grandi, universali temi della condizione umana, sulla morte e sulla infelicità assoluta
- Senso e funzione della poesia: indagare e comunicare agli uomini il “l’arido vero”.









(vv. 1-86)Qui sul fianco riarso del monte Vesuvio, tremendo annientatore, che nessun altro tipo di vegetazione rallegra, spargi i tuoi cespi solitari intorno, profumata ginestra, appagata dai deserti. Ti vidi anche un’altra volta adornare con i tuoi cespi le solitarie rovine che circondano la città che un tempo fu dominatrici di popoli (Roma), rovine che sembrano rendere al viandante, con il loro cupo e silenzioso aspetto, una testimonianza dell’antica potenza ormai perduta. Adesso torno a vedere in questo luogo te,o ginestra, che prediligi i luoghi tristi e abbandonati dalla gente, te che sei compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante, dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio;questi luoghi deserti furono un tempo villaggi prosperi e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, che offrirono gradita ospitalità al riposo dei potenti; e furono città famose (Pompei, Ercolano, Stabia) che il Vesuvio, lanciando torrenti di lava dal cratere che erutta fuoco, seppellì insieme agli abitanti. Oggi le rovine avvolgono il paesaggio desolato dove tu solo dimori, o fiore gentile e, quasi rivelando compassione per le altrui sciagure, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Chi ha l’abitudine di esaltare con stolido ottimismo la nostra condizione venga in queste campagne desolate e constati in che misura il genere umano stia a cuore alla natura che ci ama. E qui potrà anche giudicare opportunamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ più forti annientare del tutto. Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (IRONIA).


Vieni a guardare e a verificare le tue certezze in questi luoghi, secolo stolto e superbo, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e, volti i passi in opposta direzione, esalti il ritorno alle passate dottrine E chiami ciò progresso. Tutti gli intellettuali di cui il destino ingiusto ti rese padre esaltano il tuo ragionare infantile, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. Io non andrò sottoterra macchiato di una simile vergogna, ma avrò rilevato nel modo più esplicito il disprezzo che nutro verso di te, benché sia consapevole che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato ad essere dimenticato: nonostante io sappia che dimenticare preme chi alla propria età increbbe troppo. Dell’essere dimenticato, che con te sarà comune, fin da questo momento assai mi rido. O secolo sciocco e superbo elabori progetti di libertà politica e civile e nel contempo assoggetti a dogmi irrazionali quel pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto si avanza sulla strada della civiltà, la civiltà che sola rende migliore il destino della società. Non hai avuto la forza e il coraggio di accettare le conclusioni a cui era giunto il pensiero(il razionalismo illuministico), ossia che la natura ci ha assegnato una condizione dolorosa e infima nella gerarchia degli esseri. Per questo volgesti le spalle a quel pensiero filosofico che rese evidenti queste verità e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine (il materialismo illuministico) e, viceversa, chiami coraggioso colui che illudendo se stesso o gli altri, innalza, esaltandola, la condizione umana fino al cielo.


(vv.87-157) Un uomo di umile condizione ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma senza vergognarsene non nasconde di essere debole e povero e si dichiara tale apertamente e giudica la sua condizione secondo quello che è in realtà. Non considero saggio e coraggioso, ma stolto quel essere vivente che, benché destinato a morire e cresciuto in mezzo ai dolori, dichiara di essere stato creato per provare piacere e stende scritti che trasudando orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e straordinarie felicità – quali non solo questa
terra, ma anche il cielo intero ignora – a popoli che un maremoto, un’epidemia, una scossa di terremoto distruggono in un modo tale che a stento rimane il ricordo di essi.
(vv.111)Considero indole nobile e dignitosa quella di colui che ha il coraggio di guardare in faccia il destino umano e che con franchezza, senza mistificazioni, o utopistiche illusioni, riconosce la sorte dolorosa e l’insignificante e fragile condizione che ci furono assegnate; (indole nobile è) quella che si rivela grande e forte nelle sofferenze (TITANISMO), che non ritiene responsabili delle proprie sciagure gli altri uomini, aggiungendo in questo modo alle sue miserie, già tanto numerose, odio e rancore tra fratelli, ossia un male ancora peggiore, ma attribuisce l'origine del dolore umano a colei che è la vera responsabile (la Natura), che è madre degli uomini, in quanto li ha generati, ma, per il trattamento che riserva loro, è da considerarsi alla stregua di una matrigna. (Indole nobile è quella che)Considera la natura una nemica, pensando, come del resto è, che la società umana si sia unita e organizzata all’origine per combattere e contrastare la natura,(indole nobile è quella che) ritiene che tutti gli uomini debbano essere alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto, e aspettandolo in cambio nei pericoli che a vicenda sovrastano gli uomini e nel dolore della lotta comune contro la natura. (indole nobile è quella che) Ritiene che sia da sciocchi armare la propria mano per contrastare un altro uomo e preparare insidie e danni al proprio vicino, così come sarebbe sciocco in un campo circondato da nemici, proprio mentre infuriano gli assalti, dimenticandosi di questi, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni (Il pensiero del Leopardi si ricollega qui ai concetti roussoniani di fraternità e cosmopolismo) Questo modo di pensare (coraggioso e generoso) quando sarà, come fu agli inizi dell’umanità, evidente al popolo, e quando quel terrore (dei fenomeni naturali) che alle origini spinse gli uomini primitivi a stringere legami sociali contro le forze naturali ostili, sarà almeno parzialmente ripristinato da una sapienza conquistata con l'uso della ragione, l'onesta e la rettitudine dei rapporti sociali,(conversar cittadino),la giustizia e la pietà verso gli altri, avranno allora un fondamento (radice) ben diverso che non fantasie inconsistenti e superbe(superbe fole),fondandosi sulle quali l'onestà del popolo può reggersi (star suole in piedi) a malapena, così come può reggersi colui che si basa (ha la sede) sull'errore.

[...](v. 289)Così la natura sta immobile, sempre giovane, indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni, o meglio, avanza anch’essa ma con un processo così lento che sembra stare immobile. Nel frattempo i regni, i popoli, le nazioni vanno in rovina; la natura assiste impassibile, e l’umanità rivendica a sé con arroganza il vanto dell’immortalità.


(vv.297-317) E tu, flessibile ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate, anche tu presto soccomberai alla crudele possanza del fuoco sotterraneo, che ridiscendendo per il medesimo percorso stenderà il suo flutto infuocato, avido di distruggere e bruciare tutto quello che incontra, sui tuoi cespugli flessibili. E tu, senza opporre resistenza piegherai il tuo capo innocente sotto il peso della lava che provoca morte: ma non avrai piegato il tuo capo prima di allora per supplicare inutilmente in modo codardo davanti al fuoco della lava che sta per sopprimerti; ma non hai mai alzato il tuo capo con insensata presunzione alle stelle, né lo hai eretto sul deserto dove, non per tua volontà ma per caso, cresci e sei nata, ma tanto più saggia, tanto meno insensata dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che la tua stirpe fosse stata resa immortale ad opera tua o del destino .







lunedì 17 novembre 2014

LEOPARDI, LE OPERE IN PROSA: LO ZIBALDONE, L’EPISTOLARIO, LE OPERETTE MORALI, I PENSIERI.



Lo Zibaldone rappresenta un libro “parallelo” sul quale il poeta registrava quotidianamente il frutto delle proprie riflessioni e dei suoi studi, nonché idee e figure, allo stato di abbozzo, della sua immaginazione poetica. Lo Zibaldone, dunque, costituisce un brogliaccio, una raccolta di appunti, un diario di “colloquio con me stesso”, come lo definì il poeta, scritto dal Leopardi tra il 1817-1832. Il primo passo datato risale al gennaio 1820 (otto gennaio), l’ultimo al quattro dicembre 1832. Lo Zibaldone appare una miniera preziosa di pensieri diversi che contengono in germe gli spunti tematici della maggior parte dei canti leopardiani; esso rappresenta un aspetto fondamentale e insostituibile di un incessante movimento di pensiero che poteva di volta in volta esprimersi nella forma sbrigativa dell’appunto “a penna corrente” o in quella elaborata e compiuta delle poesie e delle prose. Si può affermare che il Leopardi con lo Zibaldone abbia creato l’immenso repertorio meditativo dal quale avrebbe poi costantemente attinto una serie di “cellule” tematiche da sottoporre a un processo di formalizzazione letteraria. Si tratta, dunque, di un libro parallelo, che segue passo passo, come repertorio tematico e linguistico, la stesura delle opere vere e proprie e che risulta perciò di fondamentale importanza per comprendere i tempi e i modi della loro elaborazione: non a caso potremmo definire lo Zibaldone il “sottotesto” dei Canti.
Il materiale dello Zibaldone arrivò ad occupare 4526 pagine, secondo la testimonianza dell’amico De Sinner; Il termine “Zibaldone”, che significa “mescolanza confusa di cose diverse”, fu utilizzato dallo stesso poeta allorché compilò un indice analitico degli argomenti contenuti in quei quaderni, che intitolò “Indice del mio Zibaldone di pensieri”. L’indice analitico,che richiese tre mesi di lavoro da parte del poeta, serviva al Leopardi per orientarsi nell’immensa selva da lui stesso costruita.

Lo Zibaldone fu pubblicato per la prima volta postumo, in sette volumi, tra il 1798 e il 1900, in occasione del primo centenario della nascita del poeta, per decisione di una commissione governativa presieduta da Giosuè Carducci. Fu dato alle stampe con il titolo “ Pensieri da varia filosofia e di bella Letteratura”. Il Titolo "Zibaldone" comparve nelle edizioni successive.

L’EPISTOLARIO

L’epistolario del Leopardi è molto ricco: si compone, infatti di circa mille lettere composte tra il 1815 (Recanati) e il 1837 ( Napoli) che fanno a costituire quello che lo storico della letteratura Gianfranco Contini ha definito come uno “ fra i più bei libri della letteratura italiana”. . Rivolte soprattutto ad amici intellettuali e ai familiari (il padre Monaldo, i fratelli Carlo Carlo e Paolina), le lettere costituiscono una preziosa testimonianza non solo sugli eventi biografici del poeta, ma anche sugli sviluppi delle sue posizioni concettuali, della sua polemica, delle sue condizioni psichiche, delle sue scelte politico-culturali. L’Epistolario del Leopardi, non concepito per una sua pubblicazione, rappresenta un perfetto modello di stile colloquiale, costruito con una naturalezza che ben si adegua alla profonda sincerità di quanto viene espresso. L’edizione completa dell’Epistolario leopardiano uscì per la prima volta, in sette volumi, tra il 1934 e il 1941.

LE OPERETTE MORALI

Le Operette morali sono una raccolta di ventiquattro prose, la maggior parte di esse composte nel 1824 (gennaio-novembre) sotto forma di dialoghi satirici sul modello dei pungenti dialoghi di Luciano di Samosata (scrittore greco del II sec. d. C). In generale, oltre alla forma dialogica predominante, sono presenti operette in forma narrativa, altre ancora in forma narrativa e dialogica insieme. Furono pubblicate per la prima volta in un volume dal titolo Operette morali nel 1827, presso l’editore Stella di Milano. La terza edizione definitiva, uscita postuma nel 1845 e più estesa rispetto alle due precedenti, fu curata dall’amico del poeta, Antonio Ranieri, essa comprendeva 24 testi.
Per il breve lasso di tempo entro il quale vennero redatte, le Operette morali appaiono nel complesso unitarie, sia sul piano tematico che sul piano stilistico: la scrittura è plasmata sul modello classico della prosa greca, ma allo stesso tempo appare innovativa sia per il lessico utilizzato che per lo stile. Gli argomenti affrontati nelle Operette morali delineano ampiamente il vasto orizzonte del pessimismo leopardiano, che include le riflessioni sulla felicità e l’infelicità dell’uomo, sulla meccanica ostilità della natura, sulle vacue ideologie del secolo XIX, sui puerili errori dell’antropocentrismo.
Giovanni Gentile (1875-1944; esponente di spicco, insieme a B. Croce, del Neoidealismo italiano e della cultura letteraria del primo Novecento) ha sottolineato, nelle Operette morali, lo svolgimento organico del pensiero filosofico del Leopardi, dalla constatazione degli aspetti negativi della vita della vita alla accettazione coraggiosa e virile di essa. A Questa tesi, si sovrappone quella più interessante che parla di unità sostanzialmente estetica, fondata su uno stile misto di ironia, umorismo, pietà per la presunzione di grandezza degli uomini del suo tempo, animati da filosofie spiritualistiche ed idealistiche.
Sul piano letterario le Operette morali hanno un intento poetico. Tuttavia l’intenzionale poesia è talvolta insidiata dalla riflessione filosofica, da richiami eruditi e mitologici, da allegorie e personificazioni. Le migliori Operette risultano essere pertanto quelle in cui la riflessione filosofica e l’erudizione letteraria lasciano il predominio al sentimento e alla libertà espressiva.

I PENSIERI
I Pensieri furono preparati dal Leopardi negli ultimi anni della sua vita e pubblicati postumi da Antonio Ranieri. Sono 111 ed esprimono in forma concisa e lapidaria le considerazioni pessimistiche del poeta.

martedì 4 novembre 2014

I NUCLEI TEMATICI PRESENTI NELLA LIRICA DEL LEOPARDI (1798-1837)


Rilevante è l’idea leopardiana della CLASSICITA, espressa nel modo più compiuto nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818) Il poeta ha un’immagine idealizzata della classicità, considerata l’età della “primavera del genere umano” in cui l’uomo alla stregua degli animali e delle piante, si sentiva parte integrante di un sistema di fenomeni naturali dominato dal ciclo delle stagioni e dalle variazioni del clima. Gli antichi divengono per Leopardi il simbolo di una condizione armoniosa che è stata irrimediabilmente perduta nel momento in cui il legame tra individuo e natura è stato intaccato dall’avvento della religione cristiana e del razionalismo scientista che hanno rafforzato il senso di superiorità e alterità dell’uomo rispetto al resto del creato, inducendo negli individui un a stolida superbia. Scomparse le dolci illusioni dell’antichità classica, occorre ora, secondo Leopardi, sgombrare il campo dalle superbe e vane illusioni antropocentriche, come l’immortalità dell’anima, il progresso, la felicità, la ricchezza, il potere e la gloria. L’atteggiamento polemico del poeta riguardo al desiderio di gloria da parte dell’uomo poggia su due essenziali premesse: da una parte la collocazione periferica e in fondo irrilevante dell’uomo nell’universo, dall’altra la sua incapacità di prenderne atto.
La proposta del Leopardi resa esplicita nella Ginestra, ma preparata da numerose riflessione nello Zibaldone, è in proposito piuttosto chiara: poiché è impossibile un ritorno alle “favole antiche”, l’uomo contemporaneo dovrebbe anzitutto rendersi pienamente consapevole del suo stato di vittima del sistema naturale e quindi liberarsi di tutti gli inganni perpetrati dall’intelletto per nascondere quell’unica e incontrovertibile verità. Soltanto dopo aver acquisito tale consapevolezza l’uomo potrà sviluppare quella solidarietà che nasce tra le vittime di una stessa tragedia, eliminando le lotte fra uomo e uomo e concentrando tutte le energie contro le avversità cui esso è fatalmente esposto.
Al contrario, la storia umana è caratterizzata, a giudizio del Leopardi, da un progressivo accumularsi di errori e di inganni, che hanno raggiunto il loro culmine nel secolo XIX. L’odio per la propria epoca è infatti in Leopardi vivissimo e profondamente radicato. Le correnti di pensiero del progressismo idealista di marca liberale e dello spiritualismo cattolico (ambedue ampiamente rappresentate all’interno del movimento romantico) furono violentemente attaccate dal poeta sia nelle sue opere satiriche ( Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti, Paralipomeni della batracomiomachia), sia in alcuni passi di poesia e prosa di varia natura: Il pensiero dominante, La ginestra, Il dialogo di Tristano e di un amico.
Riguardo all’atteggiamento negativo di Leopardi nei confronti della propria epoca e, più in generale, al suo pessimismo, si è soliti distinguere due fasi.
Nella prima fase, che va all’incirca dal 1817 al 1821 ed è detta del “pessimismo storico”, la natura viene considerata una sorgente di energia vitale e di consolanti illusioni, mentre i mali della dell’umanità vengono ricondotti al processo di corruzione indotto dalla civilizzazione. Questa concezione è legata al periodo “idillico”, che ha ispirato a Leopardi alcune tra le più belle e toccanti figurazioni paesistiche della nostra letteratura: descrizioni da “età dell’oro”, pervase da una quasi mitica serenità, che attraverso la “gran varietà delle illusioni” consolano l’uomo celandogli benevolmente la “vanità delle cose”.
Nella seconda fase (che appare già definita nel 1824 con le Operette morali), sulla scorta degli studi degli illuministi francesi e in particolare di Voltaire e di D’Holbach, Leopardi perviene a una visione meccanicistica dell’universo naturale, visto ora come un sistema che tende all’autoperpetuazione,, in un ciclo di produzione e distruzione del tutto insensibile alle sofferenze umane. Questa concezione, detta del “pessimismo cosmico”, conduce Leopardi ad attribuire alla natura una intrinseca malignità, e viene espressa, nel modo più chiaro e definitivo, nell’operetta Dialogo della Natura e di un Islandese. Tracce di una considerazione negativa della natura sono peraltro riscontrabili già in alcuni passi della Sera del dì di festa, idillio scritto nel 1820-1821 (“e l’antica natura onnipossente / che mi fece all’affanno”) e in alcuni brani dello Zibaldone degli anni 1817-1820. Tuttavia, in questo caso, Leopardi avverte la crudeltà della natura soprattutto come causa di sofferenza individuale (simboleggiata per esempio dalla deformità di Saffo) e non come fonte di dolore universale.

Insofferente verso l’idealismo e lo spiritualismo, Leopardi riprende dalle concezioni sensiste di matrice illuministica non solo l’idea meccanicistica della natura, ma anche il concetto secondo cui la molla principale dell’attività umana è la ricerca del piacere (la “teoria del piacere” è messa a punto per la prima volta in una ventina di pagine dello Zibaldone datate 12-23 luglio). Secondo il poeta, però, quel desiderio è impossibile da soddisfare essendo per sua natura infinito; avrebbe bisogno infatti di un piacere altrettanto infinito. Ma poiché questo non esiste se non nell’immaginazione, la soddisfazione di un desiderio è qualcosa che pertiene non al reale, bensì all’immaginario: il piacere, dunque, non è che immaginazione del piacere stesso, attesa indefinita di un’acquisizione che non avverrà mai.
La mancata soddisfazione del desiderio nella realtà produce dolore e pena, che possono essere alleviati solo fuggendo dalla realtà stessa, attraverso le fantasticherie e il sonno. Piacere e realtà sono insomma per leopardi due princìpi incompatibili. Dal momento che la sua formazione illuministica gli impediva di mettere in dubbio il principio di realtà, era inevitabilmente il piacere ad essere destituito di ogni sostanza autonoma: infatti, “il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario” (Zibaldone, 19 aprile 1824).
Ciò che noi chiamiamo piacere è dunque in realtà o l’attesa di un irraggiungibile piacere futuro, o la momentanea cessazione o attenuazione del dolore. Tale posizione risulta chiaramente espressa nei canti La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio, oltre che in molte delle Operette morali (si veda soprattutto il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare).

IL DOLORE E L'ATTESA DEL PIACERE, in quanto poli su cui si concentra ogni moto dell’animo, sono comunque segno di energia vitale ; ben più temibile per Leopardi è la noia, che subentra ad occupare i “vuoti” causati dalla momentanea assenza di ambedue e che determina uno “stato d’indifferenza e senza passione”. La vita dell’uomo oscilla perciò tra il desiderio sempre deluso del piacere, il dolore che ne consegue e la noia. Si tratta di idee singolarmente vicine a quelle espresse dal filosofo tedesco Arthur Shopenhauer (1788-1860) nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), ma il nome di Shopenhauer non ricorre mai nello Zibaldone, ed è quindi assai probabile che Leopardi non lo conoscesse affatto. Il tema della noia è centrale nell’operetta morale Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, nonché nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
A partire dal 1823 “la teoria del piacere” assume punte ancor più radicali: il piacere viene infatti identificato nello Zibaldone con “una privazione o una depressione di sentimento”, e giunge ad essere definito “quasi un’imitazione dell’insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita e alla privazione di essa, perché la vita per sua natura è dolore”; è questa l’ultima tappa di un itinerario di pensiero lucidamente negativo, che trova nel canto A se stesso la sua espressione poetica più sintetica e incisiva.
Un posto di rilievo nelle considerazioni leopardiane sul piacere è occupato dal motivo dei ricordi e della memoria, un terreno che, sfuggendo in apparenza alle leggi del desiderio, sembra proporsi, almeno in una prima fase, come una forma alternativa di piacere. È questa infatti la posizione espressa negli anni 1819-1820, e in particolare nel canto Alla luna: il ricordo di una condizione trascorsa è di per sé piacevole, anche se la condizione ricordata è dolorosa. La memoria, in altri termini, produrrebbe uno stato d’animo contemplativo e malinconico, fatto di sensazioni il più delle volte indefinite e vaghe, che provoca nell’animo una forma particolare di “diletto”. Il diletto è poi tanto maggiore quanto più lontano (e quindi più indefinito) è il ricordo, sicché le memorie più piacevoli risultano quelle dell’infanzia e della prima adolescenza.
La condizione umana oscilla all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA. Più che un piacere puro, tuttavia, quella offerta della memoria è una sorta di provvisoria consolazione, che non intacca il predominio del dolore e della noia su cui si fonda l’esistenza. Tanto è vero che in un secondo momento, all’altezza dei “canti recanatesi” del 1829, anche tale consolazione sembra venir meno al poeta: nell’ultima strofa del canto Le ricordanze l’evocazione dell’innamoramento adolescenziale per Nerina non ha più nulla di piacevole; al contrario essa si colora di un’acuta disperazione per il tempo irrimediabilmente trascorso, per cui il ricordo non può essere che “rimembranza acerba”. E su tale definitiva constatazione si consuma del tutto la disposizione “idillica” del poeta.

IL LEOPARDI PUÒ ESSERE DEFINITO IL PRIMO INTELLETTUALE “MODERNO” DELLA LETTERATURA ITALIANA

per il suo atteggiamento critico di fronte alla realtà, per il rifiuto di ogni facile consolazione di natura idealistica o spiritualistica, per la elaborazione di
• un concetto di “verità” negativa: il “vero” di A Silvia, l’”arido vero” che ricorre spesso nelle Operette Morali, “acerbo vero” dell’epistola Al conte Carlo Pepoli si identifica con una realtà di morte e di dolore, con i “ciechi destini” dell’universo, con tutto ciò che resta incompreso o viene rimosso dal senso comune e dal desiderio di felicità degli uomini: la verità è per il Leopardi una verità rigorosamente negativa, che funziona da deterrente nei confronti di qualsiasi valore positivo proposto dall’esistenza e dall’istinto di sopravvivenza del genere umano. La forza poetica della produzione leopardiana deriva proprio dalla presenza costante, ora esplicita, ora implicita , di questo mito negativo (la verità intesa come realtà negativa), che proietta su un piano assoluto ed estremo tutte le contraddittorie manifestazioni dell’esistenza.
Echi della poetica leopardiana, particolarmente in rapporto alla sua concezione essenzialmente e rigorosamente negativa del realtà, si colgono in “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale (1916) inclusa nella raccolta “Ossi di Seppia” :
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

Nella lirica, infatti, il muro montaliano ha come illustre antecedente la siepe leopardiana de L'infinito: se quest’ultima, però, enfatizzava l'immaginazione di Leopardi nella misura in cui ne limitava lo sguardo, il muro del Montale lascia il poeta nell'ossessiva contemplazione della sua vana verticalità, del suo slancio verso l'alto, frustrato da quei cocci aguzzi di bottiglia in cui si riassume il senso dell'esistenza umana.
L’idea del “nulla” come principio e fine di tutte le cose è presente fin dalle prime pagine dello Zibaldone, anteriori addirittura al 1820 ( “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”).
• Accanto all’idea del “nulla”, altro tema dominante nella poetica leopardiana è quello della “morte”, valutata nei termini epicurei: ossia come un evento che pone fine a una vita attraversata dal dolore.
Nonostante la loro vicinanza logica, i concetti di “nulla” e di “morte” inducono il pensiero del Leopardi a differenti conclusioni: mentre la morte è concepita dal Leopardi come un evento essenzialmente privato ed individuale, all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA, l’idea del nulla comporta invece una apertura universale, una proiezione cosmica: il “nulla” provoca perciò un sentimento di smarrimento e di sgomento, la contemplazione atterrita e allo stesso tempo affascinata di una dimensione indeterminata che l’intelletto non arriva a padroneggiare e che eguaglia per grandezza la “visione” mentale dl cosmo e degli spazi siderali.
Tuttavia L’idea di infinito in Leopardi mantiene sempre un ancoraggio al dato empirico del “vedere”; anche le proiezioni astratte della mente, le visioni cosmiche, come quelle dell’Infinito, partono sempre da un dato visivo fisicamente riscontrabile nella realtà.
Lo Stoicismo leopardiano. Un elemento rilevante è l’atteggiamento “stoico”, la lucida e dignitosa fermezza con cui il poeta rifiutò sempre ogni facile consolazione, ogni “pietoso inganno” che potesse distoglierlo anche solo per un attimo dalla contemplazione del tragico destino dell’uomo. Nasce da qui, probabilmente, quella vena eroica che attraversa per intero la produzione del poeta, dalla canzone giovanile “ All’Italia” (1818) fino alla “Ginestra”. Se nel caso della canzone del 1818 la prospettiva eroica sembra limitata al sacrificio per la patria e per i propri ideali, nelle liriche successive la vena eroica assume caratteri complessi, tanto da essere all’origine, secondo molti critici, di una vera e propria svolta poetica. Il Leopardi in effetti nutriva un’alta considerazione di sé e un forte desiderio di gloria: egli era consapevole della propria geniale diversità (vedi “Lettera a Pietro Giordani”, “Lettera a Monaldo Leopardi”), ma anche della propria dolorosa ed estrema infelicità; pertanto si sentiva doppiamente isolato rispetto agli altri uomini e coltivava tale isolamento a volte con dolore, a volte con esaltazione virile di chi solo fra tutti va fieramente incontro al proprio destino.

“ L’infinito” - G. Leopardi (primavera-autunno1819)



L’“infinito” di Leopardi è il primo dei sei idilli composti tra il1819 e il 1821 e confluiti, insieme ad altre opere inedite, nella prima edizione dei “Canti” pubblicata a Firenze nel 1831. Una seconda edizione dei “Canti” modificata e ampliata uscì a Napoli nel 1835 ad opera dello stesso Leopardi e di Antonio Ranieri. Quest’ultimo, dopo la morte del poeta e secondo la sua volontà, nel 1845, curò l’edizione definitiva dei “Canti” costituita da 41 componimenti pubblicata a Firenze presso l’editore Le Monnier.
L’idillio leopardiano, a differenza degli idilli della tradizione classica che consistevano in brevi componimenti ispirati alla vita campestre, è l’espressione di un’avventura interiore che nasce dalla contemplazione della natura: gli idilli leopardiani mostrano, infatti, un carattere intimo e riflessivo.
La lirica si articola in quattro sezioni : nella prima parte (vv 1-3) il poeta descrive con pochi tratti una sorta di scenografia, all’interno della quale egli introduce direttamente e “concretamente” il lettore grazie all’uso degli aggettivi dimostrativi questo e questa (quest’ermo colle, e questa siepe). Leopardi crea l’illusione teatrale che egli stia componendo la poesia proprio su “quest’ermo colle” e davanti a “questa siepe”, quasi si trattasse di una “presa diretta” del paesaggio e dello stesso atto creativo. La prima parte è essenzialmente descrittiva, poiché il Leopardi fa riferimento ad uno spazio fatto di immagini reali e concrete (il colle, la siepe).
La seconda parte dell’idillio (vv.4-8) inizia con la particella avversativa ma, al verso 4. L’avversativa ma, infatti introduce il nucleo tematico dell’idillio, riassumendo il contrasto tra la limitatezza della vista fisica e il potere sconfinato della visione interiore. Per il poeta inizia il processo di astrazione mentale: il pensiero immagina ciò che non vede, tutto ciò che esiste al di là dei limiti fisici imposti all’uomo dalla natura (la siepe e il colle). Egli è spinto a percepire l’infinità dello spazio oltre la siepe, una vastità tale fatta di silenzi e di quiete, tali da risultare difficilmente intelligibili per la mente di un uomo. L’idea dell’infinito non ha in Leopardi alcun valore mistico-religioso, né allude a una trascendenza metafisica ( esso è ontologicamente assimilato al non essere, al nulla): è una realtà che prende forma (io nel pensier mi fingo) nel pensiero nel poeta con straordinaria forza persuasiva, grazie alla capacità immaginativa che ne dilata i confini percettivi.Tali sensazioni sono ben espresse grazie all’utilizzo di un lessico ricercato e funzionale che si avvale di termini astratti (interminati spazi, sovrumani silenzi ).
La terza parte (vv.8-13) si apre, ancora una volta, con un’immagine concreta, cioè il fruscio delle piante scosse dal vento (…e come il vento odo stormir tra queste piante) che richiama il poeta dalla sua meditazione e lo spinge alla percezione dell’eternità, al confronto tra il tempo eterno e il tempo reale dell’uomo, che scorre inesorabilmente attraverso il ciclo delle stagioni.
Il silenzio assoluto e immobile degli spazi interminati costruiti dall’immaginazione è rotto improvvisamente dallo stormire del vento tra le fronde, con una notazione realistica che non riporta, tuttavia, a dimensione umane, ma consente, anzi, di percepire l’infinità dello spazio insieme all’infinità del tempo. Come l’infinità dello spazio era stata suscitata da una sensazione visiva (la siepe), così l’idea dell’infinità del tempo scaturisce da una sensazione uditiva ( e come il vento odo stormir tra queste piante). Il contrasto tra ciò che è vicino e ciò che è lontano, sia nello spazio che nel tempo, è ottenuto attraverso la contrapposizione dei dimostrativi “queste piante,, quello infinito silenzio, questa voce”, cioè tra ciò che è tangibile e presente (queste piante, questa voce), e ciò che invece appartiene all’astrazione infinita dello spazio e del tempo.
Nell’ultima parte della poesia (vv. 13-15), Leopardi esprime il sentimento di dolce turbamento che la coscienza prova dinanzi alla percezione dell’eternità e dell’universo infinito (e il naufragar m’è dolce in questo mare).
Gli elementi della natura, richiamati continuamente nella lirica attraverso la descrizione di immagini reali e concrete (il colle, la siepe, l’orizzonte, il vento tra le piante, il mare), concorrono a sottolineare la limitatezza della realtà umana dinanzi alla facoltà immaginativa e fantastica di ciascun uomo. Il tema dominante dell’ idillio è costituito proprio dal contrasto fra i limiti fisici della realtà materiale e la sconfinata capacità percettiva del pensiero e dell’immaginazione individuali.
Il Leopardi nell’”Infinito” si pone in un atteggiamento contemplativo. La contemplazione della natura in Leopardi è priva di implicazioni spiritualistiche o religiose, come accade spesso per i poeti romantici. Essa mira essenzialmente alla ricerca del “piacere” attraverso l’annullamento della coscienza che si dilata, e allo stesso tempo si diletta (…e il naufragar m’è dolce in questo mare) nella percezione di realtà fantastiche e indefinite. La chiave per la comprensione del testo risiede ancora nel gioco dei dimostrativi: sia il concetto di immensità che di mare sono accompagnati dall’aggettivo dimostrativo questa/questo, che indica vicinanza e presenza: si è dunque compiuto un rovesciamento della situazione iniziale, in cui gli oggetti reali e presenti (quest’ ermo colle e questa siepe) erano contrapposti a quello infinito silenzio, ossia alle dimensioni sovrumane aperte dalla facoltà immaginativa. Ormai i concetti di infinità e immensità sono del tutto acquisiti dal pensiero e dalla immaginazione del poeta. Tali concetti sono vivi e presenti (questa immensità, questo mare) proprio perché sentiti come parte integrante di una condizione psichica nella quale il pensiero (inteso come pensiero logicamente organizzato) e la coscienza dell’uomo si annullano e annegano (naufragano), sulla scia di una sensazione di allargamento e di dilatazione della coscienza individuale.
L’infinito in cui “naufraga” provvisoriamente il pensiero del poeta non designa una realtà trascendente, mistica o addirittura religiosa ( come alcune interpretazioni critiche, del tutto inadeguate, hanno voluto intendere), indica la dilatazione della coscienza percettiva che, nel farsi coscienza poetica, si trasfigura. Il naufragar è dolce, perché indica il prevalere della fantasia e della immaginazione poetica sui limiti angusti del pensiero razionale. L’immaginazione è per il poeta la più grande delle illusioni umane, perché consente di percepire realtà grandiose che sole possono procurare all’uomo sensazioni di felicità e di piacere assoluto. La lirica si pone sul piano privilegiato della “visione”, sia nel senso di puro atto del vedere, sia in quello di proiezione fantastica di immagini scaturite dalla facoltà rappresentativa del soggetto.
Seduto sulla cima di un colle (tradizionalmente identificato con il monte Tabor, che sorge poco fuori Recanati, non distante dal palazzo Leopardi) meta delle sue abituali passeggiate, davanti a una siepe che gli impedisce di vedere gran parte della linea dell’orizzonte, il poeta fa scattare una sorta di “vista interiore”, una “visione”, che gli permette di spaziare con l’immaginazione in dimensioni sconfinate, segnate da un silenzio e da una quiete che nulla hanno di umano: dimensioni sconfinate dello spazio, ma anche del tempo, poiché l’idea dell’infinito spaziale non può essere disgiunta dall’idea dell’infinito temporale, ossia dell’eternità.
L’immensità del Leopardi è un concetto che il debole pensiero umano non può controllare né comprendere in pieno: il pensiero può averne solo una sensazione indefinita e fantastica, che si traduce in un senso di spossato smarrimento, nel dolce naufragio dell’identità individuale in quel Nulla cosmico che custodisce le verità ultime dell’esistere e del morire.
ANALISI TECNICO FORMALE
Sul piano formale l’infinito è una lirica composta in endecasillabi sciolti (cioè non associati in schemi di rima).
• Da notare l’uso frequente di iterazioni foniche (allitterazioni), cioè la ripetizione dei suoni in /re/, /er/, /ar/, /or/ (sempre, caro, ermo, parte, orizzonte) e in /ol/, /el/, /ul/, /lu/ (colle, dell’ultimo, esclude) ai vv.1-3. Dal punto di vista fonico altre allitterazioni in /er/, /or/ /ur/, (pensier, per, cor, spaura) sono presenti ai vv.7-8; allitterazioni in /s/ (sedendo, spazi, sovrumani, silenzi, profondissima, si spaura) e in /p/ ( spazi, profondissima, pensier, per poco, spaura) ai vv. 4-8; allitterazioni in /st/ (stormir, queste, questa, stagioni) ai vv 9-12 che alludono onomatopeicamente al soffiare del vento tra le piante; infine, allitterazioni in /er/, /or/, /ar/ (l’eterno, morte, pensier, naufragar, mare) ai vv. 11-12 e vv.14-15. L’allitterazione in /ar/ dell’ultimo verso “il naufragar m’è dolce in questo mare” suscita una sensazione uditiva oltre che visiva, creando un raffinato effetto onomatopeico.
• Oltre alle numerose assonanze, il testo presenta figure metriche quali il troncamento (pensier, cor, stormir, sovvien pensier, naufragar), la dieresi (quiete) e incontri vocalici in sinalefe (sedendo e; mirando, interminati; quella, e; silenzi,e), espedienti che conferiscono alla lirica un andamento ritmico straordinariamente musicale e consentono una lettura scorrevole e piana.
• Al verso 8 l’importante cesura dopo la parola “spaura” vuole evidenziare come, dinanzi agli spazi illimitati immaginati dalla mente, in quel silenzio assoluto, il cuore del poeta provi sensazioni di profondo sgomento e smarrimento.
• Il ritmo della poesia appare rallentato grazie all’uso pressoché costante dell’ enjambement ( tanta parte /dell’ultimo orizzonte, interminati / spazi, sovrumani/ silenzi, vento/odo stormir, quello/infinito silenzio, voce/vo comparando, la presente/ e viva, questa/immensità,) che rallenta e dilata la cadenza ritmica, creando un senso di attesa e di sospensione .
• Da notare anche l’uso del polisindeto in e (e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei). Anche questo espediente stilistico ha lo scopo di rallentare il ritmo dei versi e trasmettere al lettore l’immagine di dilatazione spaziale e temporale.
• Importanti figure retoriche della lirica sono l’ossimoro al secondo verso (tanta parte) e al quindicesimo (questo mare); la similitudine (E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce/ vo comparando); la metafora ( s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare), la sinestesia (il naufragar m’è dolce in questo mare).
• L’aggettivo dimostrativo al verso 15 (questo) suggerisce l’idea di vicinanza e presenza, di una realtà vicina e tangibile per il poeta. Il sostantivo mare, al contrario, suggerisce l’infinita grandezza che la mente dell’uomo riesce a percepire dinanzi allo spettacolo della natura. L’espressione conclusiva “questo mare”, sta a sottolineare come il poeta abbia ormai pienamente raggiunto uno stato di totale fusione con l’universo: l’immensità e il mare sono presenti e vivi nella mente del poeta, sono percepiti come parte integrante dell’immaginazione poetica.

Il linguaggio si avvale di un lessico ricercato e letterario, costruito con espressioni tipiche della tradizione letteraria e poetica ( ermo colle, ultimo orizzonte); sono presenti alcuni latinismi ( ultimo, mirando, quiete, mi fingo).
L’idillio si apre con la descrizione del luogo reale in cui il poeta si trova: il monte Tabor, non lontano dalla casa paterna, dove egli andava spesso a rifugiarsi. Non a caso il poeta utilizza l’avverbio “sempre” e il verbo al passato “fu” - unico verbo al passato di tutta la poesia ( “sempre caro mi fu quest’ermo colle”) - proprio a voler sottolineare l’antico affetto che lega il poeta a quel luogo e, più in generale, alla natura, intesa, ancora, qui, come una forza benigna, dispensatrice di dolci illusioni e fonte di consolazione per l’animo umano.
Anche il Leopardi, come Ugo Foscolo, fa riferimento al nulla eterno. In Foscolo, il nulla eterno si identifica, alla luce del suo meccanicismo razionalista di stampo illuministico, con la morte e, dunque, con l’annullamento del tutto. Leopardi, invece, pervaso da una spiritualità di stampo romantico, è consapevole della inadeguatezza della ragione: il suo “nulla eterno” è una dimensione in cui la mente dell’uomo cerca di allargare a dismisura i propri confini per percepire delle verità supreme e assolute che altrimenti non riuscirebbe a comprendere.

LO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA LEOPARDIANA : I CANTI (Firenze 1831; Napoli 1835; Firenze 1845)


NELLO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA LEOPARDIANA SI DISTINGUONO QUATTRO PERIODI:

1° il periodo delle poesie giovanili, scritte anteriormente al 1818;
2° il periodo delle canzoni civili e filosofiche e dei piccoli idilli, cha va dal 1828 al 1823;
3° il periodo della composizione dei grandi idilli, che va dal 1828 al 1830;
4° il periodo della composizione del ciclo di Aspasia e del soggiorno a Napoli, che va dal 1831 al 1837.


A. IL PRIMO PERIODO (1818)
Comprende i versi scritti dal Leopardi adolescente, anteriormente al 1818. Delle poesie scritte in questo periodo le più importanti sono incluse nei Canti: L'Appressamento della morte (1816) e due elegie,Elegia prima ( che nell'edizione dei Canti del 1831 è presentata col titolo Il primo amore), ed Elegia seconda, ambedue composte tra il 1817 e il 1818. Nell'edizione definitiva napoletana dei Canti del 1835 il Leopardi incluse soltanto l' Elegia seconda.
Nell'Appressamento della morte il Leopardi, preso dal presentimento della morte,esprime il dolore di dover morire così giovane e di dover rinunciare alle sue dolci illusioni, soprattutto a quella della gloria.
Le due elegie narrano la storia del suo amore, tutto intimo e segreto, per la cugina del padre Gertrude Cassi-Lazzari, giunta da Pesaro per accompagnare la figlia in un convento di suore ed ospite per tre giorni del Leopardi. Le poesie giovanili hanno un modesto valore poetico. Dal punto di vista formale, appaiono letterariamente elaborate e retoriche risentendo, forse eccessivamente, dell'imitazione dei poeti antichi e moderni, soprattutto dall'Arcadia e di Vincenzo Monti; sul piano del contenuto sono scopertamente autobiografiche, sentimentali e patetiche. Esse rivelano il primo dei limiti che insidia talvolta la purezza della poesia leopardiana, anche degli inni migliori: l'effusione eccessiva sentimentale e malinconica.
L'altro limite, che appare più tardi, è la riflessione filosofica che tuttavia, se da una parte raffredda l'ispirazione dei canti migliori, essa ha il potere e il merito di elevare su un piano universale la poesia del Leopardi, liberandola dalla forte componente autobiografica. La riflessione filosofica fa sì che l'infelicità del poeta, di fronte al mistero dell'universo, si tramuti in infelicità, angoscia e solitudine di tutti gli uomini. Anche quando il Leopardi, nella fase della maturità artistica (La ginestra), assume l'atteggiamento titanico di sfida al destino, noi avvertiamo in esso la dignitosa e stoica accettazione da parte del poeta di un destino universale di dolore, piuttosto che l'atteggiamento romantico dell'individuo-eroe, che si eleva sulla massa degli uomini comuni.

B. IL SECONDO PERIODO (1818 al 1823)
I motivi autobiografici, sentimentali e talvolta patetici scompaiono nelle canzoni civili e filosofiche, che appartengono, insieme ai piccoli idilli, al secondo periodo dello svolgimento della lirica leopardiana, periodo che si svolge dal 1818 al 1823.
Le canzoni civili sono così chiamate perché presentano un’ ispirazione patriottica e oratoria, volta ad ispirare negli Italiani l'amor di patria e il ricordo di un passato di antiche glorie. Esse sono cinque: All'Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, Ad un vincitore nel gioco del pallone. Presentano tutte un identico schema, che resterà poi caratteristico della poesia leopardiana. In esse l’occasione è sempre offerta da una circostanza di cronaca (i soldati italiani morti nella campagna di Russia, per la canzone All'Italia; il monumento di Dante che si preparava a Firenze; la scoperta del De republica di Cicerone ad opera del Cardinale Angelo Mai; le nozze imminenti della sorella Paolina- esse poi non avvennero più per la rottura del fidanzamento -; la vittoria sportiva del recanatese Carlo Didimi), ma mirano ad esprimere la condanna del presente e la nostalgia del passato. Le canzoni civili rappresentano da un lato il frutto dell'amicizia col Giordani, di idee liberali, e della cosiddetta "conversione" politica del Leopardi, dall'altro, sono l'espressione della sensibilità romantica del poeta, il quale, soffocato dall'angustia e dalla meschinità delle vicende storiche contemporanee, vuole sopraelevarsi da esse trasferendosi idealmente nel passato, in un mondo storicamente remoto, eroico ed esemplare.
In un primo momento questo passato si identifica per il Leopardi nell’età classica, l’età degli eroi greci e romani, le cui virtù morali e civili il poeta addita, come esempio ed incitamento, agli Italiani degeneri del suo tempo. Ma, a poco a poco, anche questo passati di virtù e di eroismo si offusca, perché il Leopardi vi proietta la sua tristezza e il suo dolore, scoprendo anche nel passato la vanità delle illusioni e il sentimento della umana infelicità. In tal modo, l’ideale esplorazione del mondo classico, iniziato con l’ammirazione e la nostalgia delle virtù eroiche degli antichi, si conclude col cupo pessimismo delle due canzoni filosofiche, il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo (dette anche le ‘’canzoni del suicidio’’), in cui i due suicidi, Bruto e Saffo, appaiono le vittime della tragica condizione dell’uomo: il passato della Grecia e di Roma ha ormai perduto agli occhi del Leopardi la sua esemplarità e viene assorbito nel comune destino di dolore del genere umano.
Deluso quindi dall’età classica per effetto della proiezione del suo pessimismo nel passato, il Leopardi si rifugia idealmente in un’età ancor più remota, al tempo dei primordi del genere umano, anteriore alla amara scoperta della ragione. Nasce così la canzone Alla primavera, che evoca idealmente la primavera del genere umano, allorché la natura era madre benigna e pia dispensatrice di felicità e di illusioni agli uomini. Nell’Inno ai patriarchi, questo mitico periodo di felicità è portato al mondo biblico di Abramo e dei primi padri, quasi per dire che essa non è mai esistita e che gli uomini sono stati sempre e dovunque infelici. L’ultima canzone di questa fase, Alla sua donna, rispecchia nel contenuto il cosiddetto pessimismo cosmico col quale il Leopardi conclude la sua ideale esplorazione della storia umana, tracciata nelle canzoni civili e filosofiche. Il Leopardi vi esprime la vanità della più cara delle illusioni, quella dell’amore. Nella canzone non è rappresentata una donna reale,bensì l’immagine consolatrice della “donna che non si trova”, come scrisse il Leopardi: è la donna dell’immaginazione e della fantasia. Se una donna simile a quella sognata esistesse realmente, chi l’amasse sarebbe felice e si sentirebbe incitato a seguire la gloria e la virtù, e vivrebbe una vita divina, il che andrebbe contro le disposizioni del fato che ha destinato l’uomo all’infelicità.
A questo svolgimento di contenuto della lirica leopardiana – dal vagheggiamento del passato, nella ricerca della felicità, al riassorbimento di tutto il passato nel dolore universale – corrisponde un analogo svolgimento della forma. Se infatti, nel complesso, le canzoni civili e filosofiche sono letterariamente assai elaborate, appesantite da elementi retorici, intellettualistici, eruditi, da una sintassi complessa, da un linguaggio ricercato e classicheggiante – è questa la <> della poetica leopardiana – dalla canzone All’Italia alla canzone Alla sua donna assistiamo a una lenta, ma progressiva, purificazione della forma che tende a liberarsi dal peso della cultura letteraria e retorica per diventare più semplice, limpida, sobria ed essenziale, del tutto aderente al sentimento.
Questa purificazione della forma è già in atto in un gruppo di liriche, che i critici sogliono chiamare i primi idilli o i piccoli idilli per distinguerli dai grandi idilli, scritti dal Leopardi nel periodo più felice della sua ispirazione poetica (dal 1828 al 1830).
Etimologicamente idillio significa in greco “piccola immagine”. In sede letteraria il termina venne usato per indicare un piccolo quadro di vita, un componimento breve, di argomento per lo più pastorale o agreste, ma anche cittadino, di intonazione realistica. Autorevoli rappresentanti di questo genere letterario, l’idillio furono i poeti greci Bione di Smirne, Mosco e soprattutto Teocrito. Ma l’idillio leopardiano è del tutto diverso dagli idilli della tradizione letteraria. Infatti, mentre l’idillio tradizionale ha carattere realistico ed oggettivo, perché ritrae la vita dei pastori o dialoghi fra cittadini, quello leopardiano assume anche un carattere soggettivo, personale, interiore. Il leopardi stesso definì i suoi idilli “situazioni, affezioni, avventure storiche (cioè sentimenti vissuti in un dato momento) dello spirito”, suscitate dalla contemplazione della natura, che così offre lo spunto o alla introspezione, e alla meditazione del poeta, o alla rievocazione del passato e delle illusioni giovanili.
I piccoli Idilli sono 1)La sera del dì di festa; 2)L’infinito; 3)Alla luna; 4)Il sogno;5)La vita solitaria; 6)Il frammento Odi, Melisso, pubblicato col titolo Lo spavento notturno. Essi costituiscono il primo tentativo leopardiano di una poesia pura – immune cioè da elementi intellettualistici, eruditi, retorici, o da intenzioni didascaliche e oratorie- ed espressione ingenua, semplice, limpida ed essenziale del sentimento.
Dal 1823 ai primi mesi del 1828, il Leopardi non scrisse poesie, se si eccettua l’Epistola al conte Carlo Pepoli(1826), in endecasillabi sciolti che espone aridamente le sue convinzioni filosofiche. Durante questi anni egli scrive però, in prosa, le Operette morali, che hanno una grande importanza, come abbiamo detto, nello svolgimento del suo pensiero e della sua poesia in quanto segnano il passaggio dal pessimismo personale e soggettivo al pessimismo cosmico. Il Leopardi in esse medita non più sulle proprie dolorose vicende, ma sul dolore come patrimonio comune, eterno, irrimediabile di tutti gli esseri viventi, acquistando via via, attraverso questa certezza, una nuova condizione spirituale, più distaccata e quasi serena. In questa nuova condizione spirituale matura la poesia dei grandi idilli.

C. IL TERZO PERIODO (1828 -1830)
Fu nell’aprile del 1828, nel periodo felice del soggiorno a Pisa, che nel cuore del Leopardi si risvegliò la poesia. Lo stesso Leopardi fu così consapevole del suo nuovo stato di grazia poetica da annunziare subito alla sorella Paolina di aver scritto nei versi “con il cuore di una volta”. Egli descrive il nuovo stato d’animo nelle agili strofe metastasiane del Risorgimento, in cui parla del ritorno di quei sentimenti che giù un tempo lo avevano ispirato.
Il Risorgimento apre, dunque, il nuovo ciclo dell’attività poetica del Leopardi, che si conclude nel 1830 e che comprende la composizione dei GRANDI IDILLI: 1) A Silvia; 2) Le Ricordanze; 3) La quiete dopo la tempesta; 4) Il sabato del villaggio; 5)Il passero solitario; 6 )Il canto notturno di un pastore errante nell’Asia.
La struttura dei grandi idilli è analoga a quella dei piccoli idilli. Dal particolare realistico, con trapassi spontanei e naturali, la poesia si eleva alla rappresentazione del mistero e del dolore universale. Il contenuto universale dei grandi idilli è il risultato della meditazione filosofica delle Operette morali, che ha operato da filtro purificatore del sentimento leopardiano, liberandolo dagli elementi strettamente autobiografici, storici ed eruditi e trasformando il dramma individuale del poeta in dramma cosmico, coinvolgente l’universo intero.
Il confronto tra La Sera del dì di festa, che appartiene ai piccoli idilli, e il Canto notturno è particolarmente significativo: tra l’uno e l’altro è passato il travaglio filosofico delle Operette morali. Nella Sera del dì di festa la meditazione del poeta verte sul suo dramma individuale di innamorato ignorato; poi, stimolata dal canto solitario dell’artigiano, risale al ricordo storico dell’impero romano, travolto dall’infinito scorrere del tempo, il che suggerisce al Leopardi il senso della vanità delle cose umane.
Nel Canto notturno il Leopardi trascende del tutto le esperienze personali e i ricordi storici; egli contempla l’universo intero, di cui coglie con stupenda immediatezza il senso dell’infinito e del mistero.
L’importanza dei grandi idilli non consiste solo nel loro contenuto universale, ma soprattutto nella felice attuazione di quella lirica pura, intesa come voce del cuore, che il Leopardi era venuto elaborando nella sua poetica. Ad attuare tale lirica concorrono, oltre al contenuto tutto rievocativo e sentimentale, immune cioè da elementi allotri, filosofici, polemici, storici, eruditi e letterari, anche la varietà e la libertà delle forme metriche (la canzone leopardiana assume pertanto una struttura lontanissima da quella petrarchesca) ed il linguaggio vago, indefinito, suggestivo, vibrante di risonanze interiori, quale il Leopardi aveva teorizzato nella sua poetica.
Una caratteristica di questo linguaggio è che le forme lessicali e le strutture sintattiche sono assunte dal linguaggio colloquiale, impreziosite soltanto, qua e là, di qualche elemento della tradizione colta, fusi insieme nel ritmo libero e vario dei versi, creano un’armonia indimenticabile, vaga e suggestiva, tipicamente leopardiana.

D. IL QUARTO PERIODO (1831 al 1837)
Comprende le poesie del ciclo di Aspasia e quelle del periodo napoletano: va quindi dal 1831 al 1837, l’anno della morte del poeta. Esse sono generalmente svalutate dalla tradizionale critica letteraria per la loro eccessiva elaborazione letteraria o la presenza di elementi filosofici, polemici, sarcastici. Anche Francesco De Sanctis (Morra Irpina, 1817 – Napoli 1883; scrittore, critico letterario, politico, Ministro della Pubblica Istruzione) vi aveva notato “un filosofare troppo scoperto”, il segno del “morire della poesia nell’anima del Leopardi”. La critica storicistica, invece, per merito soprattutto di Walter Binni (Perugia, 1913 – Roma 1997 critico letterario, storico e antifascista italiano ) autore di un celebre saggio intitolato “La nuova poetica leopardiana”, la considera come l’espressione di una svolta della lirica leopardiana, l’espressione di una nuova poetica, la “poetica dell’anti-idillio”, diversa dalla più nota “poetica dell’idillio” . La poetica dell’idillio era incentrata sulle rimembranze, sulla rievocazione cioè del passato, della giovinezza perduta e della felicità sognata, fatta in tono sentimentale e malinconico, idillico, dandoci il profilo di un Leopardi assorto e nostalgico. Le liriche, invece, dell’ultimo periodo ci presentano un Leopardi diverso, aspro, ironico, energico e polemico, che non rievoca più malinconicamente il passato, ma si pone di fronte al destino in atteggiamento prometeico di sfida, fatto di fierezza e di dignità. Un Leopardi, insomma, che accetta titanicamente e stoicamente il proprio destino, che è quello di universale dolore e che torna ad essere, come nelle canzoni civili e filosofiche, maestro e apostolo di certezze e di verità. Un Leopardi che lancia agli uomini un invito alla fratellanza e alla solidarietà, per vincere il dolore e l’infelicità (nella Ginestra). Le poesie dell’ultimo comprendono innanzitutto cinque canti ispirati all’amore infelici di Leopardi per la signora Fanny Targioni-Tozzetti durante l’ultimo soggiorno fiorentino. Essi sono: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia. I primi tre rappresentano l’ebbrezza del sentimento amoroso; A se stesso rappresenta la caduta dell’illusione; Aspasia, composta a Napoli, rappresenta la vendetta del poeta contro la donna che lo ha deluso. Aspasia era una cortigiana di Mileto che, giunta ad Atene, era divenuta amante e poi moglie di Pericle (metà del V sec. a.C.). Aspasia è la signora Fanny Targioni-Tozzetti, che il Leopardi chiama così, per essere stata adescatrice scaltra e maligna del poeta. Altre poesie dell’ultimo periodo sono: la Palinodìa (ritrattazione) diretta al marchese Gino Capponi, in cui Leopardi finge ironicamente di ritrattare i suoi principi pessimistici e di accettare la teoria del progresso; I nuovi credenti, in cui polemizza contro le nuove correnti spiritualistiche del secolo; i Paralipòmeni della Batracomiomachìa, ossia aggiunte al poemetto attribuito ad Omero intitolato Batracomiomachia, battaglia delle rane e dei topi. In essi Leopardi schernisce i moti liberali napoletani del ’20 e del ’21. Ma le migliori poesie del periodo napoletano sono La ginestra o il Fiore del deserto e Il tramonto della luna.

La Ginestra è variamente giudicata dai critici.
Walter Binni l’ha definita “una sinfonia eroica”: il capolavoro della poetica del cosiddetto anti-idillio, che ispirò l’ultimo periodo della lirica leopardiana. Anche la critica marxista la giudica positivamente, per il forte messaggio sociale in essa contenuto: Leopardi si rivolge agli uomini invitandoli alla costruzione di una catena umana di solidarietà, per la costruzione di un nuovo mondo. La critica di Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 – Napoli 1952; filosofo, storico, scrittore e politico italiano) invece, e quella storicistica, pur apprezzando la novità del messaggio sociale, giudicano la ginestra notevole per l’abilità letteraria con cui è condotta, ma debole dal punto di vista strettamente poetico. In essa, infatti, coesistono confusamente elementi diversi – idillici, filosofici, storici, polemici, satirici, oratori – più giustapposti che fusi in armonica unità. Lo spinto iniziale, come negli Idilli, è dato da un particolare realistico, l’osservazione della ginestra che con i suoi cespi fioriti riveste il fianco del Vesuvio, simbolo della potenza distruttrice della natura. Dall’osservazione del particolare, il poeta passa alla meditazione dell’universale condizione di fragilità e di dolore della natura umana. La critica crociana e quella storicistica considerano Il tramonto della luna la migliore creazione dell’ultimo periodo della lirica leopardiana. Nuoce certamente al canto il lungo paragone iniziale che si distende per ben trentatré dei sessantotto versi che lo compongono: come nella notte la luna tramonta, lasciando il mondo nell’oscurità, così la giovinezza abbandona l’uomo, lasciandolo senza più illusioni e speranze. Ma, nonostante questo limite, il canto rinnova l’andamento lirico e la purezza dei migliori idilli leopardiani.