mercoledì 2 dicembre 2015

G.Leopardi, LA GINESTRA o IL FIORE DEL DESERTO (1836). Bibliografia: V. De Caprio - S.Giovanardi, I testi della letteratura italiana, L'ottocento.


Composto nel 1836 a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, dove il poeta era ospite di parenti dell’amico Ranieri, il canto è tradizionalmente considerato il testamento spirituale del poeta, che gli attribuisce il valore di un’ideale conclusione della sua lunga e travagliata ricerca: è lo stesso Leopardi che chiede esplicitamente a Ranieri di collocare la composizione come ultimo dei Canti nella edizione definitiva. Riprendendo il filo tematico e metaforico del “deserto”, già presente nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e poi approfondito in “Amore e morte” (seconda lirica del “Ciclo di Aspasia”), il poeta costruisce una lunga e complessa allegoria a partire dalla ginestra, “fiore del deserto”. Se in “Amore e morte”, senza la presenza fisica dell’amata, l’esistenza umana si trasforma in un arido deserto, qui la semplice e umile ginestra simboleggia la vita che sa resistere stoicamente all’inospitalità dell’ambiente, negazione di ogni vita, e diviene metafora del poeta stesso.
La sua inusitata ampiezza (317versi), il confluire in esso di tutti gli elementi della visione del mondo elaborata da Leopardi nell'ultima fase della sua esistenza (1824-37), la solennità dell'andamento stilistico, la stessa epigrafe tratta dal vangelo di Giovanni, sembrano conferire al canto l'aspetto definitivo ed estremo di quella “Lettera a un giovane del ventesimo secolo” che il poeta progettava fin dal 1827 e che non scrisse mai.
L’occasione della poesia è offerta dalla viva impressione suscitata in Leopardi dalla fioritura della ginestra sulle pendici del Vesuvio. Il fragile fiore, sbocciato sulla lava che nel 79 d. C. distrusse Pompei, Ercolano e Stabia, è polemicamente contrapposto allo sciocco orgoglio degli uomini dell’Ottocento (“secol superbo e sciocco”) e alla loro ridicola, nonché ingenua illusione di ritenersi padroni dell'universo, mentre basta un improvviso movimento tellurico per distruggere, in un attimo, un’intera civiltà. Di qui la polemica contro l'idealismo progressista (già espressa nella Palinodia al marchese Gino Capponi e ne I nuovi credenti, opere composte tra il 1835 e il 1836): in nome di una cieca e ottusa fiducia nella centralità dell'uomo (Antropocentrismo) e nella perfettibilità dell'universo, il secolo XIX avrebbe voltato le spalle alla linea di pensiero che dal Rinascimento aveva condotto alle conquiste civili del secolo dei lumi (la civiltà contemporanea è descritta sarcasticamente come trionfo dell’oscurantismo per i falsi miti del progresso e della religione) . Al contrario, il genere umano dovrebbe prendere coscienza della propria fragilità, dell'infima consistenza di quel granello di sabbia che è la Terra in confronto all'immensità dell'universo, e unire tutte le sue forze contro la Natura “matrigna”, ostile e indifferente, impegnata in un ciclo perenne di autoperpetuazione. Solo da una loro partecipe solidarietà nella sconfitta, gli uomini potranno creare ordinamenti civili, finalmente giusti. L’ impressionante rievocazione dell'eruzione vulcanica mira a confermare la miseria della condizione umana: ecco allora l'apprensione del viandante che scruta la vetta fumante de Vesuvio, e il panico della gente che, non appena sente gorgogliare l'acqua nel pozzo, afferra frettolosamente le proprie cose e fugge lontano per sottrarsi all'empia furia della natura eternamente rigogliosa e incurante delle misere fatiche degli uomini. Se la tenera ginestra, conclude il poeta, soccomberà prima o poi dinanzi alla forza del vulcano, lo farà secondo un destino naturale, altrettanto naturalmente accettato, senza servili sottomissioni, ma anche senza orgoglio di chi si giudica immortale, riponendo un’ingenua ed eccessiva fiducia nel progresso.
Il quadro delle problematiche disegnate dal canto ha dato adito alle più svariate interpretazioni e ai giudizi critici più contrastanti: svalutato da Benedetto Croce, in quanto prevalentemente “non poetico” per le ampie manifestazioni di “pensiero” che ne inficerebbero la purezza lirica, fu poi usato da Cesare Luporini nel saggio “Leopardi progressivo” (1947) come prova del progressismo del poeta, che avrebbe preconizzato una sorta di confederazione degli umili come unico possibile futuro per le istituzioni civili e pubbliche dell'umanità. In realtà, se anche vi si può cogliere qualche slancio di utopismo neoilluministico, Leopardi combatte, nella Ginestra, la pretesa umanistica di stabilire valori positivi per l’esistenza umana e per il suo destino sociale: l'errore del secolo XIX è consistito nel non tener conto dell'operazione distruttiva compiuta dall' Illuminismo delle verità negative che da quella scuola di pensiero sono emerse, mentre l’ “arido vero” rimane pur sempre l'assoluta e incontrovertibile verità della condizione umana.


Leopardi esprime, infine, l’appassionata difesa di una civiltà fondata sulla ragione come strumento interpretativo della realtà , e volta a perseguire l’unico progresso che cont, quello di una convivenza civile basata sulla giustizia e sulla solidarietà tra gli esseri umani. La poesia fu pubblicata nell'edizione postuma dei canti curata da Antonio Ranieri (Firenze,1845).
EVOLUZIONE DEL PENSIERO IN LEOPARDI – TERZA FASE (1824- 1837)
- Sarcasmo nei confronti delle illusioni dei contemporanei (“secol superbo e sciocco”)
- L’unica forma di moralità autentica consiste nell’accettare la condizione umana senza illusorii ottimismi, legittimità del desiderio di morte
- Importanza della dimensione sociale dell’essere umano: gli uomini devono essere solidali fra loro ed unirsi coraggiosamente contro la natura, nemico comune.
- Non più contrapposizioni, ma fusione tra Poesia e Filosofia
- La nuova poesia riflette sui grandi, universali temi della condizione umana, sulla morte e sulla infelicità assoluta
- Senso e funzione della poesia: indagare e comunicare agli uomini il “l’arido vero”.

(vv. 1-86)Qui sul fianco riarso del monte Vesuvio, tremendo annientatore, che nessun altro tipo di vegetazione rallegra, spargi i tuoi cespi solitari intorno, profumata ginestra, appagata dai deserti. Ti vidi anche un’altra volta adornare con i tuoi cespi le solitarie rovine che circondano la città che un tempo fu dominatrici di popoli (Roma), rovine che sembrano rendere al viandante, con il loro cupo e silenzioso aspetto, una testimonianza dell’antica potenza ormai perduta. Adesso torno a vedere in questo luogo te,o ginestra, che prediligi i luoghi tristi e abbandonati dalla gente, te che sei compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante, dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio;questi luoghi deserti furono un tempo villaggi prosperi e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, che offrirono gradita ospitalità al riposo dei potenti; e furono città famose (Pompei, Ercolano, Stabia) che il Vesuvio, lanciando torrenti di lava dal cratere che erutta fuoco, seppellì insieme agli abitanti. Oggi le rovine avvolgono il paesaggio desolato dove tu solo dimori, o fiore gentile e, quasi rivelando compassione per le altrui sciagure, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Chi ha l’abitudine di esaltare con stolido ottimismo la nostra condizione venga in queste campagne desolate e constati in che misura il genere umano stia a cuore alla natura che ci ama. E qui potrà anche giudicare opportunamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ più forti annientare del tutto. Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (IRONIA).

Vieni a guardare e a verificare le tue certezze in questi luoghi, secolo stolto e superbo, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e, volti i passi in opposta direzione, esalti il ritorno alle passate dottrine E chiami ciò progresso. Tutti gli intellettuali di cui il destino ingiusto ti rese padre esaltano il tuo ragionare infantile, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. Io non andrò sottoterra macchiato di una simile vergogna, ma avrò rilevato nel modo più esplicito il disprezzo che nutro verso di te, benché sia consapevole che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato ad essere dimenticato: nonostante io sappia che dimenticare preme chi alla propria età increbbe troppo. Dell’essere dimenticato, che con te sarà comune, fin da questo momento assai mi rido. O secolo sciocco e superbo elabori progetti di libertà politica e civile e nel contempo assoggetti a dogmi irrazionali quel pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto si avanza sulla strada della civiltà, la civiltà che sola rende migliore il destino della società. Non hai avuto la forza e il coraggio di accettare le conclusioni a cui era giunto il pensiero(il razionalismo illuministico), ossia che la natura ci ha assegnato una condizione dolorosa e infima nella gerarchia degli esseri. Per questo volgesti le spalle a quel pensiero filosofico che rese evidenti queste verità e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine (il materialismo illuministico) e, viceversa, chiami coraggioso colui che illudendo se stesso o gli altri, innalza, esaltandola, la condizione umana fino al cielo.