tag:blogger.com,1999:blog-73795534944938925452024-03-05T13:28:56.586+01:00ORA ET LABORAUnknownnoreply@blogger.comBlogger219125tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-70000414358034771472016-09-19T21:20:00.000+02:002016-09-19T21:20:33.653+02:00ETA’ DI CESARE ( 78-44 a.C.) - INQUADRAMENTO STORICO-LETTERARIO (Cfr: L.Perelli, Storia della Letteratura latina, Paravia; G.De Bernardis-A.Sorci, Roma antica, vol.1, Palumbo editore; appunti docente)<br />
Per età di Cesare, intendiamo convenzionalmente l'ultima fase della Repubblica romana, un periodo travagliato e convulso di rivolgimenti, conflitti e trasformazioni che portò, prima con la breve dittatura di Cesare (45-44 a. C.), poi con la conquista del potere da parte di Ottaviano Augusto (31 a. C.: battaglia di Azio contro Marco Antonio).), all'instaurazione di un nuovo regime, monarchico non di nome ma di fatto. Il periodo in cui Giulio Cesare fu protagonista sulla scena politica romana, va dal 60 a.C., anno del primo triumvirato, al 44 a. C., l'anno della sua morte. <br />
Tuttavia, in ambito storico-politico ma anche artistico-letterario, l'epoca che va sotto il nome di “Età di Cesare” ha inizio circa trent'anni prima, a partire dagli anni della I GUERRA CIVILE A ROMA (83-82 a. C.) a cui fece seguito la DITTATURA DI SILLA (82-79 a. C.).<br />
Un elemento fondamentale nel quadro politico dell’età di Cesare è il contrasto fra la fazione che Cicerone chiama degli Optimates (ottimati: i conservatori repubblicani), e quella dei “populares” (i democratici). Molto in generale, possiamo dire che i conservatori difendevano i privilegi dei ceti più elevati economicamente e socialmente, in particolare dell'aristocrazia senatoria gelosa di custodire gli antichi privilegi istituzionali, mentre i «populares» facevano leva sul malcontento di chi era escluso o tenuto ai margini della gestione del potere, per proporre mutamenti e innovazioni. All'attaccamento alla tradizione e ai valori del mos maiorum, di cui i conservatori si propugnavano difensori e sostenitori, si contrapponeva, da parte dei «popolari», una consapevolezza più chiara e più spregiudicata della necessità di modificare l'assetto politico e costituzionale per adeguarlo alle grandi trasformazioni economiche e sociali conseguenti all'espansione dell'impero romano; tali trasformazioni, infatti, avevano provocato la rottura degli equilibri preesistenti, rottura assai pericolosa per le istituzioni. Le strutture dello Stato, formatesi e consolidatesi quando la potenza di Roma era limitata ad un territorio relativamente ristretto, non erano più adeguate ad un vastissimo dominio che si estendeva dalla Spagna all'Asia Minore all'Africa settentrionale.<br />
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• PRIMA GUERRA CIVILE A ROMA TRA GAIO MARIO E LUCIO CORNELIO SILLA (83-82 a. C.) <br />
• DITTATURA DI LUCIO CORNELIO SILLA : 82-79 a. C<br />
• I TRIUMVIRATO (60-53 a.C) : GAIO GIULIO CESARE –MARCO LICINIO CRASSO- GNEO POMPEO<br />
• II GUERRA CIVILE TRA CESARE E POMPEO (49-48 a.C.) Vittorie di Cesare contro i Pompeiani a Farsàlo, Tapso e Munda (45 a.C.)<br />
• DITTATURA DI CESARE : 45-44 a.C.<br />
• II TRIUMVIRATO : 43 a. C: MARCO ANTONIO- EMILIO LEPIDO- G.CESARE OTTAVIANO<br />
(Proclamarono il divus Iulius; Liste di proscrizione: assassinio di M.T.Cicerone a Formia 43 a. C.)<br />
• BATTAGLIA DI FILIPPI 42 a.C.: MARCO ANTONIO E OTTAVIANO CONTRO I CESARICIDI<br />
• BATTAGLIA DI AZIO (Grecia) 31 a.C. : OTTAVIANO CONTRO MARCO ANTONIO – CLEOPATRA / Assedio di Alessandria d’Egitto, suicidio di Antonio e Cleopatra (30 a. C.)<br />
• IMPERO DI AUGUSTO (27 a. C.-14 d.C.)<br />
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Nell’età di Cesare, Roma è pervasa dalla cultura greca, già fortemente presente in Italia fin dal II sec. A. C., ( basti ricordare i provvedimenti di bando emanati contro i filosofi greci giudicati corruttori, nel 173, nel 161 e nel 155 a. C.; ricordiamo anche l’impegno di Catone il Censore,234-149 a. C., a difesa dei costumi della romanità) che apre nuovi percorsi tematici e stilistici alla letteratura latina. A Roma si diffondono nuovi costumi sociali e nuovi ideali di vita: la vecchia società rude e sobria, fedele alle antiche istituzioni e ai principi etici del mos maiorum, ha ceduto il posto ad una società nuova e culturalmente eterogenea, frutto di un vastissimo impero che comprendeva popoli diversi per razza e cultura; inoltre le ingenti ricchezze pervenute a Roma con le guerre di conquista avevano favorito la nascita, nella classe dirigente romana, di nuove esigenze e di nuovi stili di vita di impronta ellenististica.<br />
La cultura e l’arte dell’età di Cesare (80-44 a. C.) sono, dunque, il riflesso di una società in piena trasformazione, dominata da un contesto politico quanto mai difficile e convulso.<br />
Così come sorgono e si alternano sullo scenario politico grandi personalità : Gaio Mario, L.C. Silla, G.Cesare, Gneo Pompeo, M. T. Cicerone, così fioriscono autorevoli individualità artistiche nonché nuove tendenze letterarie e filosofiche.<br />
Accanto alle tradizionali forme della letteratura latina dell’Età arcaica (240- 78 a.C.):<br />
LA POESIA EPICA = vedi Gneo Nevio (Capua 275-201 a. C.): Bellum Poenicum, I guerra punica, verso saturnio / Ennio( Magna Grecia 239-169 a. C.): Annales, verso esametro greco;<br />
LA TRAGEDIA = Livio Andronico (Taranto 280 -200a. C.); Gneo Nevio.<br />
LA COMMEDIA = Livio Andronico; Gneo Nevio; Plauto ( Sarsina 254-184 a. C), autore di almeno 21 fabulae palliatae; Terenzio (Cartagine 190-160 ca a.C.), autore di 6 fabulae palliatae<br />
si affermano nuove correnti letterarie, nuove forme poetiche, nuovi generi letterari:<br />
LA LIRICA (poesia d’amore a carattere soggettivo ed intimistico)<br />
ELEGIA-EPIGRAMMA- EPILLIO<br />
EPISTOLARIO<br />
IL MIMO<br />
E sul piano letterario, LA POESIA NEOTERICA. <br />
I “poetae novi”, come furono sprezzamente definiti da Cicerone, o Neòteroi, ispirandosi alla poesia ellenistica ( III sec. a. C.) e ai poeti greci alessandrini (Callimaco, in primis), elaborarono componimenti molto dotti e raffinati sul piano formale, dal contenuto tenue e delicato, spesso amoroso e soggettivo; tra essi emersero Catullo, Elvio Cinna (Zmyrna), Licinio Calvo. Sul piano politico i poetae novi furono decisi avversari di Cesare.<br />
In realtà, è da evidenziare come già a partire dal II sec. a. C. (eta arcaica) c’era stato qualche sintomo di cambiamento nei gusti e nelle tendenze della cultura romana in direzione filoellenica con la creazione del Circolo degli Scipioni ( Fondato e animato da personalità quali Scipione l’Emiliano, Gaio Lelio, Furio Filo, Publio Terenzio, Caio Lucilio; fra i Greci, Polibio e il filosofo Panezio di Rodi, ideologo del concetto di “humanitas”.Furono sostenitori degli ideali di humanitas, autonomia della persona umana nella scelta delle proprie inclinazioni naturali, otium letterario ).<br />
LA SATIRA, il cui iniziatore fu Ennio ( Magna Grecia 239-169 a. C.) in età arcaica, fu un genere letterario che continuò a svilupparsi a Roma fino a raggiungere la massima espressione con <br />
LUCILIO (148 - 102 a. C.?), ritenuto il vero fondatore di questo genere letterario, e successivamente con ORAZIO (età di Augusto), PERSIO E PETRONIO (età imperiale).<br />
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<b>STORIA E POESIA IN ETA’ DI CESARE E DI AUGUSTO</b><br />
Fra i poeti, letterati e storici dell’età di Cesare emergono CATULLO (Verona 84-54 a.C.), LUCREZIO (96- 53 a.C.), CESARE (100-44 a.C.), SALLUSTIO (86-34 a. C.), CORNELIO NEPOTE (100-43 a.C.), CICERONE (106-43 a. C.).<br />
GENERI POETICI IN ETA’ DI CESARE (78-44 A. c.) e di AUGUSTO (27-14 d.C)<br />
Poesia lirica: Catullo (86 a. C.), Virgilio (70 a. C. ), Orazio (65 a. C)<br />
Epigramma: Catullo – Marziale (Dinastia flavia)<br />
Elegia: Catullo, Tibullo(50 a.C.-19 a.C.); Properzio (50 a.C.-15 a.C); Ovidio<br />
Poesia didascalica: Lucrezio (80-40 a. C.), Virgilio<br />
Poesia epica (epico-storica): Ennio, Virgilio, Lucano<br />
Satira: Lucilio, Orazio, Persio, Petronio<br />
Poesia mitologica: Ovidio<br />
LA STORIOGRAFIA: AUTORI DI OPERE STORICHE<br />
Cesare (100-44 a.C.): De bello gallico (58-52 a. C.) in 7 libri; De bello civili (49-46 a. C.) in 3 libri<br />
Cornelio Nepote (100-30 a. C.), cultore dell’aneddotica antica : De viris illustribus in 16 libri: di essi rimane la categoria dei condottieri stranieri (Alcibiade, Annibale ) e due storici latini (Catone il Censore, Pomponio Attico).<br />
Sallustio (86-35 a. C.): autore di 2 monografie De coniuratione Catilinae, Bellum iugurthinum; Historiae; 2 Epistulae ad Caesarem.<br />
Tito Livio (59 a. C.-17 d.C.), Tacito (54 d. C.-120 d. C.), Svetonio (70-140 d. C.).<br />
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<b><br />
LA STORIOGRAFIA E LA BIOGRAFIA </b><br />
La Storiografia, come molti altri generi letterari antichi, nacque in Grecia in tempi assai antichi, già a partire dal VI sec. a. C. con l’attività letteraria dei cosiddetti logografi, i quali descrivevano i luoghi, gli usi e costumi dei popoli con i quali venivano a contatto nei loro viaggi.<br />
A poco a poco dalla Logografia ebbe origine la Storiografia e ciò avvenne allorché agli interessi puramente etnogeografici (usi, costumi) subentrarono quelli più specificatamente storici. Il primo autore che potremmo definire “storico” è <b>ERODOTO DI ALICARNASSO (484-430 a.C.), </b>definito a tal proposito il “padre” dell genere storiografico.<br />
Dopo Erodoto, il primo grande autore storico greco è <b>TUCIDIDE di Atene (460-400),</b> autore della celebre Guerra del Peloponneso, che con straordinaria capacità di analisi descrive il conflitto che condusse alla distruzione della egemonia ateniese, e quindi alla dissoluzione della Polis. Tucidide è considerato il fondatore del metodo storiografico: attento all’informazione precisa, all’utilizzo diretto delle fonti storiche, all’impiego di una documentazione rigorosa e scientifica basata su documenti originali, all’esposizione di fatti ordinati cronologicamente, all’acuta valutazione del fatto storico e all’inquadramento di esso all’interno di una più ampia visione che riguarda tutta la storia greca.<br />
Dopo Tucidide, in età ellenistica (323- 31 a.C) la storiografia di stampo tucidideo declina e si diffonde piuttosto il genere della Biografia, legata spesso ad opere che raccontano le gesta eroiche di Alessandro Magno.<br />
La Storiografia in senso stretto trovò più tardi un autorevole esponente nel grande storico greco <b>POLIBIO di Megalopoli (II sec. a</b>. C.). Deportato a Roma dopo la Battaglia di Pidna (168 a C.) ed inserito nel Circolo filoellenico degli Scipioni, <b>Polibio </b>fu cultore di una storiografia che, alla stregua dell’ideale tucidideo, fosse attenta all’informazione precisa, all’utilizzo di una documentazione rigorosa e scientifica basata su documenti originali e ben documentati. Per Polibio, come già era accaduto per Tucidide, la Storia e quindi anche l’opera storica, assume un carattere pragmatico ed universale, poiché da essa scaturiscono direttamente validi insegnamenti di natura pratica a carattere politico e civile, la Storia cioè può insegnare all’uomo politico le norme pratiche per giungere al successo.<br />
A ROMA la Storiografia si diffuse come genere letterario a partire dalla conquista di Taranto e della magna Grecia (III sec a.C.), allorché Roma avvertì l’esigenza di far conoscere le sue gesta e la sua posizione di futuro perno politico militare di tutto il bacino mediterraneo.<br />
Le prime forme di Storiografia romana sono di taglio annalistico (Storiografia annalistica: esposizione cronologica degli eventi accaduti nell’anno), sulla base del fatto che già in età arcaica si era diffusa l’abitudine da parte dei Pontefici massimi di stilare una lista nella quale venivano registrati gli eventi più significativi di ciascun anno.<br />
Dopo gli annalisti, tra i quali ricordiamo l’opera di Fabio Pittore, fu Marco Porcio Catone (il Censore, 234- 149 a. C.) a distinguersi nel campo della Storiografia. Intransigente conservatore, noto per la celebre citazione “Ceterum censeo Carthaginem delendam esse”, fu un integerrimo custode della più antica tradizione romana e dei valori del mos maiorum (fides, pietas, industria, integritas,gravitas aequitas, magnitudo animi, frugalitas, virtus guerriera etc…).La sua opera storiografica, nonché il capolavoro della sua produzione letteraria, sono le Origines (174 a. C.), in 7 libri; le Origines rappresentano il primo esempio nel mondo romano di opera storica che, pur procedendo nella esposizione cronologica dei fatti a partire dalla Roma monarchica,non presenta una struttura annalistica. In tutti gli eventi narrati, Catone non fa menzione dei loro protagonisti e quindi instaura una prassi storiografica, successivamente poco fortunata, in controtendenza con la tradizione romana che invece accordava ampio spazio di celebrazione agli eroici protagonisti delle vicende narrate (vedi in seguito Tito Livio).La scelta, singolare, di non menzionare i protagonisti degli eventi va collegata all’esigenza di ascrivere le gesta di Roma e la sua grandezza non tanto al merito dei singoli, bensì alla dedizione e all’eroismo dell’intera collettività, sulla quale grava la salvezza della Res publica. (Storiografia: funzione moralistica)<br />
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- Dopo il contributo di <b>Catone il Censore</b>, dovremo aspettare l’età delle guerre civili (I guerra civile 88-81 a C./ II guerra civile 49-46 a.C.) per assistere ad una nuova fase di sviluppo della Storiografia. Infatti, in questo periodo sono <b>Cesare (100-44 a. C.)</b> e <b>Sallustio (86-35 a.C.)</b> a portare il genere letterario della storiografia a livelli di assoluta grandezza attraverso la composizione di celebri opere a carattere monografico.<br />
<b>Cesare</b> fu autore di 2 importanti opere storiche: Commentarii de bello gallico, in 7 libri, riferiti ai 7 anni della guerra gallica dal 58 al 52 a. C.; Commentarii de bello civili, in 3 libri, riferiti alla seconda guerra civile tra Cesare e Pompeo (49-46 a. C.). <b>Il Commentarius </b>in realtà non è uno scritto letterario definito e compiuto, bensì un resoconto essenziale, stringato e compendioso, che successivamente sarebbe diventato un’opera di tipo storico. Anche lo stile si avvale di una prosa sobria e chiara, il tono volutamente distaccato, la narrazione in terza persona. L’intenzione fondamentale di Cesare nelle sue opere storiche è quella di presentare la propria immagine come quella di un condottiero che riesce a far coincidere la gloria personale con il superiore interesse della Repubblica romana, per la quale combatte fieramente e al cui servizio mette tutta la propria perizia militare. Aspetto fondamentale del De bello gallico è che Cesare non manca mai di attribuire parte dei successi militari alla fedeltà delle truppe nella loro collettività, al loro senso di abnegazione e di sacrificio.<br />
Negli stessi anni in cui Cesare compose i suoi Commentarii, a Roma spicca la figura di un altro grande storico amico di Cesare, Gaio <b>Sallustio (86-35 a.C.) </b> autore di due opere a carattere monografico: il <b>Bellum Catilinae (De coniuratione Catilinae) e il Bellum Iugurthinum, </b>che raccontano rispettivamente la congiura ordita da Lucio Sergio Catilina, un estremista democratico di origine aristocratica, nel 63 a. c. ai danni della Res publica, e la guerra contro Giugurta (111-105 a. C.), in cui per la prima volta nella storia di Roma si era evidenziata con forza la corruzione dei dirigenti aristocratici. Le opere storiche testimoniano l’interesse di Sallustio per la politica e per le questioni morali che riguardavano la società del tempo. In entrambe le monografie l’autore mette in evidenza il legame tra ricchezza, potere, corruzione, decadimento dei costumi morali (cupiditas imperii, cupiditas pecuniae); in entrambe si scorge l’intento di esaltare celebri personalità del partito democratico, presentati come onesti e animati da nobili ideali e di colpire taluni aristocratici, ritenuti avidi e corrotti.(Storiografia: funzione moralistica)<br />
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<b>Dopo la Battaglia di Azio (31 a. C.) </b>e il suicidio di Antonio e Cleopatra, Ottaviano conquista il potere che divenne ufficiale nella seduta del senato del 27 a. C. Con la nascita del Principato di Augusto, si assiste ad una fase di intensa rinascita culturale, nonché di trasformazione dei costumi sociali in direzione di un recupero dei più antichi valori del mos maiorum, gli antiqui ac boni mores che le ultime generazioni avevano trascurato privilegiando disvalori come disvalori come l’ avaritia e la mala ambitio. Ottaviano stesso si fece promotore di una cultura ad indirizzo celebrativo e propagandistico, che celebrasse i fasti e la grandezza dell’impero romano, la sacralità delle proprie origini, l’appartenenza ad una storia antica fatta di gesta memorabili e di grandi eroi.<br />
In questa ottica si colloca la monumentale opera storica di <b>Tito Livio (59 a. C.-17 a. C.</b>): Ab urbe condita libri, in cui l’esaltazione che l’autore fa di un passato insigne e miticamente riproposto risulta funzionale al progetto di restaurazione augustea e contribuisce a conferire all’opera un taglio decisamente epico. L’opera storica di Tito Livio tende ad esaltare la virtù, intesa essenzialmente come virtù eroica: la storia di Tito Livio è stata definita la storia del popolo romano, ma in realtà il popolo come totalità dei cittadini rimane in secondo piano sullo sfondo, mentre emergono le figure di uomini e condottieri dotati di virtù eccezionali. La grandezza e la superiorità di Roma sono determinate dalla presenza di una elite di uomini forti e virtuosi, elite la cui continuità è assicurata da una salda disciplina morale che affonda le sue radici nel rispetto del mos maiorum. Dell’immensa opera che doveva comprendere 142 libri o forse 150, sono rimasti 35 libri: la prima decade, La terza, la quarta e metà della quinta. (Storia e storiografia: funzione celebrativa, funzione educativa).<br />
In età Giulio-claudia la Storiografia, come tutti i generi letterari, risentì non poco del clima liberticida instaurato dai Principes, per cui o aderì ai dettami della restaurazione morale già avviata in età augustea, schierandosi dalla parte del potere e diventando un efficace strumento propagandistico (vedi Virgilio, l’Eneide; Tito Livio, Ab urbe condita;), oppure percorse strade alternative, finendo col subire talvolta anche una durissima repressione.<br />
Più tardi, in età di Traiano, spicca l’opera storica di Tacito (55-120 d.C.), autore degli “Annales” (16 libri, struttura annalistica) che trattano del periodo intercorrente tra la morte di Augusto (14 d. C.) e la fine di Nerone (68 d. C.); a noi sono pervenuti i primi sei libri sul principato di Tiberio, e i libri da metà dell’XI a metà del XVI che si riferiscono parte al regno di Claudio, parte a quello di Nerone, fino al 66 d. C. <br />
<b>Tacito </b>rappresenta il maggiore storiografo dell’età di Traiano e forse di tutta la letteratura latina; egli saluta con ottimismo l’avvento del principato traianeo, dopo gli anni bui della tirannide di Domiziano (Dinastia Flavia). Con la sua attività di storiografo, Tacito rileva dapprima la degenerazione dell’istituzione imperiale in età flavia (vedi le Historiae), successivamente va a ricercarne le cause fino al tempo di Augusto (dinastia Giulio-claudia). L’attività storiografica di Tacito, tuttavia, non mira a delegittimare la figura imperiale: egli riconosce nell’Impero la sola forma di governo ormai possibile a Roma, e avanza la necessità di promuovere tra i cittadini una rinnovata fase di progresso civile. Tacito è legato al costume e alla memoria della repubblica aristocratica, coltivando un ideale etico-politico che gli consente di attribuire alla Storiografia una funzione moralistica: il conservatorismo moralistico di Tacito si risolve nel mito nostalgico di un passato antichissimo incorrotto.<br />
Dopo l’età di Traiano la Storiografia entra in una crisi inarrestabile e spesso finisce col ridursi a semplice Biografia*. Da tutto il periodo tardo antico emerge solo la figura di Ammiano Marcellino (330-400 d. C.), il quale tentò con la sua opera Rerum gestarum libri XXXI di tracciare un quadro complessivo della crisi dell’Impero individuando, come già aveva fatto Tacito nel II sec. d.C., una matrice moralistica, senza attribuire il giusto peso a nuove cause endogene ed esogene, come la diffusione del Cristianesimo e l’intensificarsi delle invasioni barbariche.<br />
<b>LA BIOGRAFIA. </b>La Biografia è un sottogenere della Storiografia; al pari della Storiografia, la Biografia si occupa di Storia, tuttavia, mentre la Storiografia tratta fatti accaduti in maniera generale e complessiva, la Biografia ha come oggetto la descrizione della vita di personaggi illustri presentata sotto il profilo dell’indagine curiosa e minuziosa sul comportamento, sui gusti, sulle gesta, sul carattere dei protagonisti della storia.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-44847561088783919772016-09-19T21:05:00.000+02:002016-09-19T21:05:52.393+02:00ANAISI DEL TESTO NARRATIVO. PROGRAMMA DI STUDIO classe I A a.s.2016/17<br />
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<b>IL TESTO NARRATIVO</b> è un testo che intende narrare una storia secondo un ordine logico e cronologico che è quello stabilito dal narratore.<br />
ANALISI <br />
A) PRESENTAZIONE SOMMARIA DEL TESTO (titolo, genere letterario, autore, opera da cui il testo è tratto, periodo di composizione).<br />
B) ANALISI DEGLI ASPETTI STRUTTURALI DEL TESTO<br />
LA TRAMA : è la storia presentata da ciascun testo narrativo; la trama si compone di due elementi fondamentali:<br />
LA FABULA: è l’insieme degli avvenimenti che costituiscono la vicenda del testo narrativo, disposti secondo un ordine “naturale”, cioè secondo un ordine logico e cronologico, senza prolessi (anticipazioni) e senza analessi o flashback (richiami al passato). Le analessi e le prolessi alterano il regolare sviluppo dell’ordine narrativo.<br />
<b>L’INTRECCIO</b> è l’ordine con cui il narratore dispone liberamente gli elementi della storia, che possono prescindere dall’ordine logico-temporale-causale della fabula (nei Promessi Sposi l’intreccio è dato dagli avvenimenti che si inseriscono e si sovrappongono alla storia principale tra Renzo e Lucia). In un testo narrativo fabula e intreccio possono coincidere o meno.<br />
<b>LE SEQUENZE:</b> Le sequenze costituiscono le unità narrative del racconto; possono essere tagliate ed esaminate separatamente sulla base dei loro specifici contenuti.<br />
Seuenza 1 (rr.1-5): Non capisco….mille metri; sequenza 2(rr. 6-15): Erano sbarcati…….minimamente infastidito; sequenza 3 (rr 16-37).<br />
LE SEQUENZE POSSONO ESSERE DISTINTE IN:<br />
- Sequenze narrative = sono sequenze dinamiche e fanno procedere la narrazione.<br />
- Sequenze descrittive = sono sequenze statiche e frenano il “ritmo” della narrazione.<br />
- Sequenze Riflessive = sono sequenze statiche e sono utilizzate dal narratore per esprimere il proprio pensiero, mediante delle digressioni personali.<br />
- Sequenze dialogate = corrispondono ai dialoghi all’interno del tessuto narrativo. Possono essere statiche o dinamiche.<br />
- Sequenze miste<br />
<b>STRUTTURA TIPO DEL TESTO NARRATIVO:</b> Ciascun testo narrativo, smontato in sequenze può essere schematizzato e analizzato sulla base della seguente struttura tipo:<br />
- situazione iniziale di equilibrio (righe 1-5): il narratore fornisce al lettore le coordinate essenziali per la collocazione degli eventi nello spazio e nel tempo. Il narratore ci presenta la vita del protagonista nella sua povertà e ignoranza (Cfr. I. Calvino, Il contadino astrologo, in “Fiabe italiane”).<br />
- Rottura dell’equilibrio iniziale (righe 6-19):il narratore introduce un fatto imprevisto, l’irruzione sulla scena di un nuovo personaggio, o altro ancora, scompigliano l’equilibrio iniziale e mettono in moto la vicenda vera e propria. L’equilibrio iniziale viene rotto dal bando del re e dalla decisione di Gàmbara di spacciarsi per astrologo e di mettersi alla ricerca dell’anello.<br />
- Peripezie (righe 20-31): la storia si sviluppa in un crescendo di avvenimenti. Iniziano le peripezie del protagonista che cerca di ingannare chi lo attornia fingendosi astrologo.<br />
- Spannung (righe 32-42)momento di massima tensione narrativa. Il protagonista passa all’azione per far uscire allo scoperto i colpevoli : siamo al momento di Spannung.<br />
- Scioglimento della vicenda e ricomposizione dell’equilibrio iniziale (righe 43-56) superato il momento di massima tensione narrativa, la vicenda si avvia verso la ricostituzione di un nuovo equilibrio. La confessione dei servi allenta la tensione e offre al protagonista la possibilità di raggiungere il suo scopo.<br />
- Conclusione: il narratore descrive la situazione finale. La situazione finale vede Gàmbara ricco e ammirato.<br />
<b>C) I PERSONAGGI :</b> possono essere personaggi reali, quando sono individui realmente esistiti (personaggi storici o dell’attualità), introdotti nel mondo della narrativa; possono essere personaggi immaginari (realistici: con caratteristiche verosimili ; fantastici).<br />
Il personaggio può essere presentato dal narratore; da un altro personaggio; da se stesso. Quando più tecniche sono presenti, parliamo di tecnica mista.<br />
PRESENTAZIONE DIRETTA E PRESENTAZIONE INDIRETTA<br />
Si parla di presentazione diretta se il personaggio è caratterizzato immediatamente, se, cioè il narratore direttamente oppure attraverso altri personaggi o il personaggio medesimo, fornisce subito precise informazioni sulle sue caratteristiche fisiche, psicologiche, culturali creandone un profilo ben delineato. La presentazione diretta è molto usata nella fiaba, nella favola e, in generale, nei racconti tradizionali.<br />
La presentazione indiretta avviene quando il personaggio non è presentato in maniera diretta, chiara e oggettiva, ma il suo profilo si delinea agli occhi del lettore gradualmente, mediante indizi che richiedono l’interpretazione e la riflessione da parte del pubblico.<br />
- I Personaggi possono essere presentati mediante alcuni tratti che ne costituiscono la fisionomia: <br />
secondo caratteristiche fisiche (sesso, età, aspetto fisico, abbigliamento, difetti fisici…);<br />
caratteristiche psicologiche ( evidenziare gli elementi che rivelano il carattere del personaggio; impulsività/ riflessione; furbizia/ingenuità; viltà/coraggio; egoismo/generosità);<br />
caratteristiche socio-culturali (lavoro, cultura, tipo di vita, ambiente, aspirazioni e interessi, abbigliamento).<br />
I personaggi all’interno di una narrazione possono anche definirsi a tutto tondo o pluridimensionali , se il carattere è ben delineato dal narratore e se esso è costituito da molteplici sfaccettature e da un forte spessore psicologico;<br />
Al contrario parliamo di personaggio piatto o unidimensionale se di un personaggio il narratore ci fornisce una descrizione superficiale, in cui spiccano uno o due caratteri psicologici distintivi: in tal caso parliamo di “tipo” legato ad un ruolo fisso e ben preciso all’interno della vicenda narrativa, dal comportamento prevedibile e stereotipato.<br />
I personaggi possono classificarsi, inoltre, in personaggi statici (Mastro Geppetto in “Pinocchio”) e in personaggi dinamici (Pinocchio).<br />
- I personaggi possono essere analizzati anche in base al ruolo e alle funzioni che essi svolgono all’interno della narrazione. <br />
Il ruolo più rilevante è ricoperto dal Protagonista (perno della vicenda), a cui si oppone spesso un Antagonista o “oppositore” o “avversario”.<br />
Talvolta il protagonista di una storia può essere costituito da un gruppo di personaggi che agiscono insieme, in maniera compatta: in questo caso si parlerà di Protagonista collettivo; altre volte sono presenti più protagonisti: in questo caso si parlerà di co-protagonisti.<br />
Il fine che un protagonista si propone di raggiungere costituisce l’ oggetto del desiderio, che può essere l’amore di una fanciulla. Dall’azione del protagonista trae vantaggio il destinatario , non di rado coincidente col protagonista stesso.<br />
E’ presente a volte anche un destinatore, un’entità al di sopra delle parti, una forza che funge da guida all’azione e la percorre nel suo svolgersi. Ad affiancare il protagonista e l’antagonista ci sono i vari aiutanti che svolgono la funzione di intermediari.<br />
<b>D) TEMPO-SPAZIO- RITMO DELLA NARRAZIONE</b><br />
Ciascuna opera a carattere narrativo è delimitata da due coordinate fondamentali all’interno delle quali si muove la storia : il tempo ( che indica la successione e la progressione cronologica degli avvenimenti) e lo spazio ( che consente al lettore di definire l’ambiente in cui si svolge la vicenda).<br />
IL TEMPO DELLA NARRAZIONE (Tempo del racconto o del discorso) non si presenta quasi mai nella durata reale ed effettiva degli avvenimenti, poiché il narratore scandisce a proprio piacimento i tempi del suo racconto, dilatando o accorciando sequenze. Dobbiamo quindi distinguere tra <br />
- Il tempo del racconto, che è la durata della narrazione e non quella dei fatti narrati;<br />
- Il tempo della storia, che è la durata reale dei fatti narrati.<br />
Il tempo del racconto può dunque avere durata assai variabile ed essere scandito, proprio come un brano musicale, da un RITMO narrativo più veloce o più lento. <br />
Per poter accelerare o dilatare il RITMO DELLA NARRAZIONE, il narratore ricorre ad alcuni artifici stilistici:<br />
- L’Ellissi: consiste nella omissione di una serie di avvenimenti che si sono succeduti in un certo arco temporale, ritenuti poco utili ai fini della narrazione. Il ritmo della narrazione è accelerato.<br />
- Il Sommario: consiste in una rapida sintesi degli avvenimenti. Il ritmo della narrazione è accelerato.<br />
- La Digressione: è un particolare tipo di pausa narrativa inserita dal narratore, una deviazione dalla narrazione che ha lo scopo di fornire notizie aggiuntive su fatti e personaggi. Il ritmo della narrazione, in presenza di digressioni, appare rallentato.<br />
- La Pausa: si ha in presenza di sequenze descrittive e sequenze riflessive. Il ritmo della narrazione appare rallentato.<br />
- La Scena: si verifica quando c’è perfetta corrispondenza tra tempo della storia e tempo del racconto ( TEMPO DELLA STORIA= TEMPO DEL RACCONTO), e cioè in presenza di sequenze dialogate. Il ritmo della narrazione risulta rallentato.<br />
LO SPAZIO : consente al lettore di definire l’ambiente in cui si svolge la vicenda e aiuta il lettore a percepire meglio le atmosfere delle storie, le azioni, le caratteristiche e gli stati d’animo dei personaggi; Gli spazi descritti in un testo possono essere interni (spazi chiusi) o esterni (spazi aperti); reali, realistici o fantastici.<br />
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E) AUTORE E NARRATORE. PUNTO DI VISTA</b><br />
Un testo narrativo è un testo che si propone di raccontare una storia secondo un ordine (logico e cronologico) che è quello stabilito dal narratore. In un testo, tuttavia, la storia può essere raccontata dal PROTAGONISTA stesso (narrazione in I persona), da uno dei PERSONAGGI, oppure da un NARRATORE estraneo alla vicenda. <br />
In un racconto dobbiamo distinguere: IL NARRATORE DALL' AUTORE DEL TESTO<br />
L’AUTORE corrisponde alla persona reale che ha composto l’opera.<br />
IL NARRATORE (VOCE NARRANTE) è colui che racconta la storia. Può coincidere o meno con l’autore del testo; può coincidere o non coincidere con uno dei personaggi della storia. Generalmente la voce narrante non coincide con l’autore, poiché esso è un artificio letterario, cioè un’invenzione dell’autore. <br />
NARRATORE INTERNO – NARRATORE ESTERNO <br />
Il narratore si dice interno(“omodiegetico”) quando partecipa, ha partecipato alla vicenda o ne è stato un semplice testimone e successivamente la racconta. Egli può coincidere con il protagonista dell’opera(narratore autodiegetico), oppure con uno dei personaggi della storia (narratore testimone). LA NARRAZIONE SI SVOLGE IN PRIMA PERSONA o anche in terza persona.<br />
Il narratore si dice esterno (“eterodiegetico”) quando esso non partecipa e non ha partecipato alle vicende che racconta, non è uno dei personaggi, ma racconta gli avvenimenti dall’esterno, come una voce fuori campo. LA NARRAZIONE SI SVOLGE IN TERZA PERSONA.<br />
Il narratore esterno può essere: IMPERSONALE o NASCOSTO (racconta astenendosi da qualsiasi commento); PERSONALE O PALESE(interviene nella narrazione con giudizi).<br />
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NARRATORE DI PRIMO GRADO-NARRATORE DI SECONDO GRADO<br />
Talvolta può accadere che il narratore (interno o esterno alla storia) ceda la funzione di raccontare ad un’altra voce, costituita da uno dei personaggi o da un soggetto estraneo alla vicenda. Definiamo narratore di primo grado colui che inizia il racconto, narratore di secondo grado colui che la continua. <br />
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<b>PUNTO DI VISTA O FOCALIZZAZIONE</b><br />
Il narratore può presentarci la storia secondo tre diverse angolazioni. La prospettiva secondo la quale è presentata una storia si chiama PUNTO DI VISTA O FOCALIZZAZIONE.<br />
Distinguiamo tre tipi di focalizzazione:<br />
- FOCALIZZAZIONE ZERO: è L’OTTICA DEL NARRATORE ONNISCIENTE = che sa tutto (interno- esterno: A. Manzoni ne “I Promessi Sposi”).<br />
Nel racconto a focalizzazione zero, il narratore sa tutto e vede tutto, più degli stessi protagonisti, conosce la storia passata, presente o futura, interviene spesso nella storia con digressioni, flashback e prolessi.<br />
- FOCALIZZAZIONE INTERNA: è l’ottica del narratore che presenta i fatti secondo il punto di vista del protagonista o di uno dei personaggi; si tratta di una prospettiva parziale e ristretta. Il narratore può essere interno alla storia (molto spesso), oppure esterno.<br />
- FOCALIZZAZIONE ESTERNA>: è l’ottica di un narratore esterno alla storia che si limita a registrare ciò che vede: le azioni, le parole, i dialoghi dei personaggi senza conoscere i loro pensieri, senza intervenire con giudizi e commenti personali.<br />
<b>F) TEMA MESSAGGIO CONTESTO</b><br />
Il tema è l’argomento dominante di cui tratta il testo; Il messaggio indica qual è il significato del testo; ciò che il testo suggerisce al lettore; il contesto indica la collocazione cronologica dell’autore del testo, la tradizione letteraria di appartenenza dell’opera, il contesto storico, politico e sociale in cui si situa l’opera dell’autore.<br />
<b>G) TECNICHE NARRATIVE, LINGUA E STILE</b><br />
gli scrittori hanno un personale modo di raccontare che si esprime mediante un particolare tipo di parole utilizzate, mediante il significato e l’espressività che sono attribuiti alle parole, mediante l’uso di figure retoriche e nel modo in cui sono strutturati i periodi.<br />
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<b>STILE PARATTATTICO O IPOTATTICO.</b> Stile paratattico: è uno stile semplice, chiaro e scorrevole, caratterizzato dalla prevalenza di periodi coordinati. La struttura sintattica della coordinazione contribuisce a determinare un ritmo narrativo incalzante, stringato, veloce. è lo stile narrativo che si è diffuso nel secondo dopoguerra. Stile ipotattico: è uno stile elaborato, caratterizzato dalla prevalenza di proposizioni subordinate con frasi lunghe e complesse Lo stile ipotattico conferisce alla narrazione un ritmo cadenzato, talora faticoso e di non semplice comprensione. E’ tipico dello stile classico; inoltre, se le proposizioni subordinate sono collegate dalla virgola, si dicono collegate per asindeto; se sono legate dalla congiunzione “e”, si dicono collegate per polisindeto.<br />
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COESIONE- COERENZA: La coesione riguarda la corretta concordanza degli elementi della frase mediante concordanze grammaticali (soggetto-verbo, sostantivo -articolo; ordine delle parole nella frase) e mediante i connettivi testuali (preposizioni, congiunzioni, avverbi,locuzioni avverbiali punteggiatura).<br />
La coerenza riguarda i rapporti logici tra le varie parti del testo, e collega le informazioni del testo ad un tema dominante (idea centrale). <br />
TIPI DI DISCORSO: discorso diretto, discorso indiretto (riferisce i pensieri facendoli dipendere da un verbo dichiarativo: dice che, dico che); discorso indiretto libero (il narratore riferisce i pensieri dei personaggi direttamente, senza introdurli da verbi dichiarativi); monologo interiore (il narratore entra nela mente di un personaggio e descrive ciò che il personaggio sta pensando); soliloquio ( il personaggio parla ad alta voce da solo; flusso di coscienza (è la registrazione dei pensieri dei personaggi in maniera alogica e irrazionale, così come si presentano; questa tecnica narrativa presenta un’assenza di punteggiatura.<br />
FIGURE RETORICHE: sintattiche ( anacoluto, anadiplosi, asindeto, ellissi, iterazione, polisindeto); figure retoriche semantiche (accumulazione, climax, iperbole, ironia, litote, metafora, metonimia, reticenza, similitudine, sineddoche, sinestesia).<br />
REGISTRO LINGUISTICO: registro aulico ( lessico colto e ricercato; sintassi complessa ed elaborata, con espedienti retorici e citazioni colte); registro formale(lessico preciso e ricercato, ma privo di fronzoli retorici; sintassi essenziale, chiara e rigorosa) registro medio ( lessico preciso ma non ricercato, la sintassi è corretta e scorrevole); registro basso, colloquiale e realistico (lessico generico e popolare, con inserti dialettali; sintassi semplice e talvolta scorretta, tipica del parlato quotidiano). <br />
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LA COMUNICAZIONE E I TESTI </b><br />
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<b>Un TESTO, </b>in generale, <b>è un atto comunicativo che consente ad un EMITTENTE di trasmettere un MESSAGGIO al suo DESTINATARIO.</b> Il testo è costituito, infatti, da un insieme di frasi collegate tra loro da una rete di rapporti. Tra i caratteri fondamentali del testo ricordiamo l'organicità e la compiutezza; il legame con una determinata situazione comunicativa , che dipende sia dagli obiettivi di chi produce il testo (l'emittente, che parla o scrive) sia dalle esigenze di chi riceve ( il ricevente, che ascolta o legge. Un testo può essere orale o scritto (una conversazione, una lezione, un articolo di giornale, una poesia, una romanzo).<br />
Per comunicare, l’emittente utilizzerà un CODICE che può essere verbale o non verbale: i Codici verbali si affidano alle parole. Il Linguaggio verbale è, infatti, un codice organizzato di Segni ( ad es. le lettere dell’alfabeto) che può essere utilizzato sia in forma scritta che in forma orale. I codici non verbali si affidano a segni, che sono immagini, simboli, suoni. Tra i codici non verbali ricordiamo i Codici visivi e i Codici sonori. Vi sono, infine, i Codici misti, che impiegano parole insieme a segni di altro tipo, come il linguaggio dei fumetti - immagini e parole – il linguaggio della pubblicità – immagini, parole, suoni) e un CANALE ( cellulare, internet). L’intera comunicazione si svolgerà in un CONTESTO rispetto al quale il messaggio potrà fare riferimento.<br />
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I protagonisti della comunicazione<br />
Il linguista russo <b>Roman Jakobson (1896-1982)</b> - uno dei grandi padri fondatori della Linguistica moderna insieme al linguista gineverino <b>Ferdinand de Saussurre(1857- 1913) </b>e al filosofo viennese <b>Ludwig Wittgenstein (1898-1951)</b> - ha elaborato uno schema che indica gli elementi costitutivi di un processo linguistico. <br />
Nella elaborazione teorica di<b> R. Jakobson,</b> ciascun processo di comunicazione necessita di 6 elementi:<br />
EMITTENTE -MESSAGGIO - DESTINATARIO – CANALE (contatto) - CODICE - CONTESTO. <br />
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[Oltre a R. Jakobson, ricordiamo in particolare il linguista ginevrino Ferdinand de Saussurre (1857-1913), il filosofo viennese Ludwig Wittgenstein (1898-1951). Ferdinand de Saussurre, agli inizi del 900, ha posto le basi della Linguistica moderna nel suo "Corso di Linguistica Generale" (1916) con l'esposizione teorica di due nodi concettuali: l'opposizione Significante/Significato e l'opposizione Langue/Parole. Questi concetti sono stati e restano alla base di tutti i successivi studi che a partire dalla Linguistica arrivano fino alle più recenti teorie che riguardano le Scienze della comunicazione].<br />
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<b>I TESTI SI SUDDIVIDONO IN: TESTI LETTERARI E TESTI NON LETTERARI</b><br />
I TESTI NON LETTERARI sono quelli a carattere pratico e pragmatico : sono quelli finalizzati a fornire informazioni al lettore, oppure a convincere e a persuadere (vedi, in particolare: testi descrittivi, espositivi, argomentativi, regolativi); <br />
I TESTI LETTERARI sono quelli finalizzati a suscitare emozioni, sensazioni, stati d’animo; hanno lo scopo non tanto di persuadere, quanto di intrattenere e dilettare il lettore. Essi si suddividono in TESTI POETICI, TESTI TEATRALI, TESTI NARRATIVI ( FAVOLA E FIABA, NOVELLA, RACCONTO, ROMANZO). Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-3345530865829061592016-09-19T20:58:00.002+02:002016-09-19T20:58:54.274+02:00L’ETA DELLA CONTRORIFORMA (Bibliografia: cfr. M.Pazzaglia, Gli autori della letteratura italiana, vol.2; R.Antonelli-M.S.Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2a)<br />
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Il periodo di massima fioritura del Rinascimento si svolge fino alla vigilia della Pace di Cateau-Cambresis (1559- Regno di Napoli, Sicilia, Sardegna, Ducato Milano, Stato dei Presidi sotto il dominio spagnolo). Gli ultimi decenni del Cinquecento sono caratterizzati da un processo di esaurimento delle forme rinascimentali, da una lenta trasformazione della cultura che condurrà alle soglie della nuova civiltà barocca del Seicento.<br />
Questi anni sono dominati dalla Controriforma cattolica che condizionò non poco gli orientamenti culturali del tempo. La Controriforma rappresentò in primo luogo l’esigenza di rinnovamento totale da parte della Chiesa, sia nello spirito che nella struttura: dopo il Concilio di Trento, la Chiesa passò al contrattacco, sia rivolgendosi con ardore missionario ai Paesi extraeuropei, sia cercando di ridestare nella Europa cattolica un rinnovato ardore morale e religioso. Il Concilio di Trento, convocato da Papa Paolo III, si svolse tra il 1545 e il 1563 allo scopo di definire la riforma della Chiesa (o Controriforma) e la reazione alle teorie del calvinismo e del Luteranesimo. L’opera di restaurazione avviata dalla Chiesa ebbe un carattere essenzialmente conservatore, fu soprattutto l’imposizione di una disciplina di vita e di costume. Timorosa del pericolo sempre incombente della larga diffusione delle idee della Riforma protestante, la Chiesa cercò di soffocare con un clima di assoluto rigore moralistico ogni manifestazione di libero pensiero . In questi anni la Chiesa cattolica si macchiò di crimini atroci, ricorrendo spesso al Tribunale della Santa Inquisizione con il quale si perseguitavano gli eretici e tutti coloro che sostenevano teorie ed opinioni contrarie all’ortodossia cattolica (vedi giordano Bruno, Galileo Galilei), i quali, riconosciuti colpevoli dal Tribunale ecclesiastico, erano affidati al cosiddetto “braccio secolare”, cioè al potere giudiziario statale, per l’esecuzione materiale della pena di cui l’autorità ecclesiastica non poteva farsi carico. Il braccio secolare fu attivo dal periodo della Santa Inquisizione, fino all’età moderna: fu abolito nel 1871. L’atmosfera di persecuzione e di paura instaurata dalla Chiesa nel periodo della Controriforma segnò, insieme al peso esercitato in campo politico dal predominio spagnolo, il graduale declino dello spirito di libertà e di tolleranza, di affermazione della libertà individuale che era stata la manifestazione più significativa della civiltà rinascimentale.<br />
In Italia gli intellettuali, i letterati e tutti gli uomini di cultura attraversarono una fase di profonda crisi poiché non fu più loro concesso di esprimere liberamente le loro idee, ritenute non sempre conformi ai principi religiosi della Chiesa cattolica; essi si piegarono, generalmente, alle esigenze del nuovo clima di austerità controriformistica, molto spesso per calcolo o per convenienza, o per il solo timore di non essere accusati di eresia . In realtà la civiltà umanistico-rinascimentale aveva esaurito ormai la stagione di grande fioritura artistico-letteraria, aveva perduto ogni slancio e virtù creatrice e si adagiava nel coltivare un tipo di letteratura ormai sterile, volta unicamente al decoro formale, all’ imitazione pedissequa e ossessiva di modelli classici esistenti: insomma l’intellettuale della Controriforma più che all’elaborazione di forme e contenuti originali, volge la propria attenzione all’estetismo formale, al rispetto rigoroso delle norme di stilistica e di retorica contemplate dalle Accademie e dai trattati poetici. <br />
In questa società ormai scettica e stanca, la Chiesa si sforzò di restaurare un senso di rinnovato entusiasmo e di rinnovata moralità; tuttavia, il risveglio religioso auspicato dalla Chiesa si verificò solo in parte poiché le pesanti limitazioni imposte alla libertà di pensiero impedirono che si realizzasse un radicale e sincero rinnovamento delle coscienze. Inoltre, la rinnovata ed esasperata religiosità riportava nelle coscienze il senso del peccato, il timore della morte e delle pene infernali, la consapevolezza della fragilità e dei limiti della natura umana. In antitesi alla fiducia rinascimentale nella vita e nell’illimitata capacità creatrice dell’uomo faber, si diffonde alla fine del Cinquecento un senso di insicurezza, di fragilità umana: l’uomo avverte la forza imprevedibile ed irrazionale della Fortuna, capace di soggiogare e di stravolgere i destini umani. E’ un motivo, questo, che noteremo negli autori storici – Machiavelli e Guicciardini – e soprattutto in Torquato Tasso, autore che già prelude alla civiltà barocca del Seicento.<br />
LA LETTERATURA DELL’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA<br />
- La letteratura della Controriforma è caratterizzata in primo luogo da un’estrema e raffinata elaborazione formale, che spesso diventa un esercizio sterile ed ossessivo, fine a se stesso. A ciò si aggiunge la tendenza, da parte degli intellettuali, a giustificare la propria opera spesso facendo riferimento a trattati di arte poetica, nei quali si cerca di dimostrare la piena regolarità dell’opera stessa, secondo i precetti desunti (arbitrariamente) dalla Poetica di Aristotele. Allo stesso tempo, gli autori della Controriforma avvertono e manifestano un senso di fastidio verso le regole, l’irrequieta tendenza al dilettoso, ad esprimere con intima spontaneità nuove esigenze e nuovi bisogni dello spirito. L’elemento essenziale della letteratura di fine Cinquecento è il proposito moraleggiante, in ossequio allo spirito della Controriforma, unito alla preoccupazione del comporre in maniera ortodossa nel pieno rispetto delle norme stilistiche e morali. Si tratta però quasi sempre di un ossequio esteriore, poiché prevale, in realtà, un’ispirazione sensuale e lasciva, sotto il peso del conformismo religioso, che esprime una civiltà decadente, frutto di spiriti oziosi e stanchi, generalmente inclini all’ipocrisia e al compromesso.<br />
Autori rappresentativi della letteratura e del pensiero della Controriforma sono <b>Giambattista Giraldi Cinzio</b>, scrittore e teorico di arte poetica di Ferrara; <b>Battista Guarini,</b> di Ferrara; Giordano Bruno, scrittore e filosofo nolano condannato per eresia e morto sul rogo nel 1600; infine <b>Torquato Tasso </b>( Sorrento 1544 - Roma 1595). Nel Tasso il dissidio culturale e letterario di quest’età assumerà un più profondo e drammatico carattere interiore, e assurgerà a una nuova, altissima e personale poesia.<br />
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Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-70202665840333937982016-03-18T21:21:00.001+01:002016-03-18T21:21:55.166+01:00LE TRE CORONE DEL MEDIOEVO - LA CULTURA UMANISTICO-RINASCIMENTALE.<br />
<b>DANTE 1265-1321 </b>Opere in volgare fiorentino e in Latino: La Vita Nova, Il Convivio, De Monarchia, de Vulgari eloquentia, Epistolario, Divina Commedia, Le rime. Sommo poeta, massimo esponente della cultura medievale e della filosofia scolatica (aristotelico-tomistica). Opere a carattere didascalico allegorico.<br />
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<b>PETRARCA (Arezzo 1304- Arquà1374)</b> Opere in Latino e in Volgare fiorentino. Grande estimatore degli studi classici (Virgilio, Cicerone, Tito Livio, Padri della Chiesa: S. Agostino); scoprì nella Biblioteca capitolare di Verona le Epistole di Cicerone ad Attico, a Quinto e a Bruto. Fu incoronato poeta a Roma, in Campidoglio, nel 1341 dopo essere stato esaminato per 3 giorni dal re di Napoli, Roberto d’Angiò. Fu il primo grande autore medievale a coltivare lo studio del Greco, che apprese dal dotto bizantino Leonzio Pilato, conosciuto a Padova.<br />
Opere latine: Secretum, l’Epistolario (Cicerone) De viris illustribus, Rerum memorandarum libri, Africa, De otio religioso, De vita solitaria; opere in volgare: Rerum vulgarium fragmenta (il Canzoniere o Rime sparse), i Trionfi. Opere concepite come esercizio di affinamento letterario, a testimonianza della sua profonda peritia litterarum – conoscenza grammaticale e lessicale - come espressione di dissidio interiore e di inclinazioni spirituali. Fasi di mondanità alternate a momenti di ripiegamento interiore, di ricerca del “locus amoenus”. Crisi della cultura medievale. Nel 1500 divenne modello di assoluta perfezione stilistica per la lirica. <br />
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BOCCACCIO 1313-1375.</b> Periodo napoletano, opere a carattere narrativo di ispirazione bucolica, in lingua volgare toscano: Filocolo, Filostrato, Teseida, Caccia di Diana; periodo fiorentino (dal 1340 in poi): Ninfale d’Ameto, Ninfale fiesolano, Amorosa visione, Elegia di madonna Fiammetta. Decameron (1349-1351); Trattatello in laude di Dante (iniziò la lectura dantis nella Chiesa di S.Stefano di Badia, a Firenze, nel 1374). Opere in Latino: De casibus virorum illustrium, Genealogia deorum gentilium, De mulieribus claris. Crisi della cultura medievale. Nel 1500 divenne modello di perfezione stilistica per le opere in prosa.<br />
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<b>UMANESIMO E RINASCIMENTO</b><br />
Coi nomi Umanesimo e Rinascimento indichiamo il periodo di storia della civiltà che si svolse nei secoli XIV- XVI ed ebbe, per quanto riguarda la cultura e le lettere, il suo centro di irradiazione in Italia. E' un periodo di grandi trasformazioni nella vita e nel costume: assistiamo al graduale rinnovamento delle strutture politiche e alla nascita degli stati nazionali (in Italia si affermano le signorie e successivamente principati territoriali); si sviluppano le attività economiche e commerciali, mentre le grandi scoperte geografiche allargano i confini del mondo conosciuto; inoltre le nuove invenzioni in campo della tecnica ( la stampa e la polvere da sparo) apportano radicali mutamenti nei rapporti umani. L'Umanesimo si fa iniziare convenzionalmente dalla morte di Francesco Petrarca (1374), fino al 1470 (l'ultimo trentennio del 1400). il Rinascimento giunge fino all'ultimo trentennio del 1500.<br />
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Nuova concezione dell'uomo e della vita</b><br />
Il punto di partenza per comprendere la nascita della cultura umanistica risiede nella consapevolezza che tra il Trecento e il Quattrocento muta la visione del mondo: si passa da una visione filosofica e culturale di tipo TEOCENTRICO ( per la quale tutta la realtà fenomenica veniva rapportata a Dio, derivando da ciò una fondamentale svalutazione della natura umana, un disprezzo per il corpo e per i beni materiali ritenuti fugaci e caduti) ad una visione ANTROPOCENTRICA in cui l'uomo pone se stesso al centro della realtà come protagonista ed autore della propria storia, in accordo con le nuove tendenze filosofiche di natura neoplatonica. Ne scaturisce un atteggiamento edonistico, che consiste nel ricercare la bellezza e il piacere senza sensi di colpa. L'edonismo va unito al naturalismo che è la tendenza a considerare la natura e a godersela al livello fenomenico ( in se stessa), senza implicazioni mistiche, metafisiche e trascendentali. L'uomo dell’umanesimo rinascimento non è più in antitesi con la natura, né lo spirito è posto al di sopra di essa: l’uomo riscopre la bellezza della natura, e la natura diviene un grande libro aperto, un meccanismo perfetto regolato da leggi razionali che possono essere comprese, analizzate e decodificate. L’uomo diventa finalmente l’artefice del proprio destino (homo faber fortunae suae). Per questo motivo gli umanisti sono affascinati dalla cultura letteraria classica ( opere della letteratura latina e greca) cioè dagli studia humanitatis – le humanae litterae ( letteratura, grammatica, retorica filosofia, storia) - che restituiscono l’uomo a se stesso, che rivelano l’antica sapienza e la capacità costruttiva dell’uomo, il segreto di una vita intesa come ricostruzione morale, nella prospettiva di un’armonica convivenza civile. <br />
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<b> I MOTIVI FONDAMENDALI DELLA CULTURA UMANISTICA SONO:</b><br />
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<b>1) PRINCIPIO DI IMITAZIONE </b>. La necessità che si ebbe di rifarsi agli autori antichi – gli auctores- per imparare a conoscere meglio se stessi, per individuare un modello ideale sia a livello umano, sia a livello stilistico da cui trarre uno stimolo e una guida sicura per operare nella realtà contemporanea. Si afferma così il principio di imitazione che diventa un cardine dell'umanesimo: se gli antichi hanno raggiunto un livello insuperabile di perfezione in tutti i campi dello scibile umano, è necessario imitarli.<br />
Gli autori antichi che noi oggi definiamo classici (termine introdotto nella letteratura a partire dall'800) in verità erano definiti dagli intellettuali del medioevo e umanesimo ''auctores'': l'auctor era colui che godeva di forte autorità letteraria, colui che arricchiva lo scrittore moderno e dal quale prendere esempio (auctor deriva dal verbo latino augeo-es -axi-auctum-augere = accrescere, aumentare).<br />
Già in età medievale era stato realizzato un canone di autori classici in cui figuravano Virgilio, Orazio, Cicerone, Stazio, Lucano, Ovidio, Tito Livio e Seneca. Una traccia di questo canone si ha già nella Commedia di Dante, in particolare nel limbo anche se in forma limitata a pochi autori: Omero, sebbene Dante non avesse letto i suoi poemi, Ovidio, Orazio e Lucano. Virgilio è scelto da Dante come sua autorevole guida. <br />
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<b>2) STUDIO DEL GRECO</b><br />
Contemporaneamente alla riscoperta degli autori e delle opere classiche secondo il principio di imitazione, si affermò la necessità di studiare in maniera diretta la lingua e la filosofia greca: Petrarca e Boccaccio furono i primi autori che riconobbero l’importanza della lingua greca che il Medioevo aveva praticamente ignorato. Boccaccio infatti nel 1359 fece assegnare una cattedra di greco nello Studio fiorentino al suo maestro di greco, Leonzio Pilato. Successivamente, nel 1397, Coluccio Salutati, cancelliere della repubblica fiorentina, affidò la cattedra di greco ad un idotto bizantino Manuele Crisolora.<br />
<b><br />
3) LA SCOPERTA DELLE HUMANAE LITTERAE </b><br />
Nella cultura Umanistico-Rinascimentale, che poneva l'uomo al centro dell'universo, si afferma parallelamente un rinnovato interesse per gli studia humanitatis : grammatica, retorica (quest'ultima in particolare era una disciplina, l’ ars dictandi, praticata soprattutto da coloro che ne traevano vantaggi per la loro professione: notai, giudici, cancellieri, ambasciatori, membri del clero), eloquenza filosofia e storia.<br />
La cultura letteraria rileva ai moderni l'interiorità e l'umanità dei grandi scrittori antichi al fine di insegnare loro a comprendere meglio se stessi nella realtà che li circonda.<br />
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<b>4) NASCITA DLLA FILOLOGIA</b><br />
Cicerone diviene nel 400 un autorevole modello di armonia e di decoro, di forza d'animo, di poteritia ( capacità di sopportare coraggiosamente le avversità della vita), nonché di bello stile. La filologia è una disciplina che si configura quale studio scientifico della parola e del suo significato nel tempo. La filologia mirava a studiare e ricostruire i testi classici per riportarli alle condizioni originali.<br />
<b> <br />
5) L’umanesimo come riscoperta della dignità dell’uomo: i caratteri dell’EDONISMO UMANISTICO.</b><br />
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La rivalutazione dell’individuo, con le sue doti spirituali e corporee, porta a riconsiderare, tra il Quattrocento e il Cinquecento, i beni dell’esistenza nella loro interezza. Il punto di partenza di questo atteggiamento può essere individuato nel passo in cui l’umanista fiorentino Giannozzo Manetti confuta il De contemptu mundi di Lotario De Segni ( Papa Innocenzo III ). Giannozzo Manetti, nella sua opera De dignitate et excellentia hominis riconosce la dignità e l’eccellenza dell’uomo il cui operato terreno e la cui fisicità vengono esaltati in una prospettiva pur sempre religiosa, ma in polemica con l’impostazione ascetica di stampo aristotelico–tomistico della spiritualità medievale. Se nella vita dell’uomo le gioie compensano i dolori, è preferibile concentrarsi su di esse, cercando di cogliere le opportunità favorevoli. Non bisogna tuttavia confondere un simile atteggiamento con l’invito grossolano ad approfittare di tutti i piaceri possibili. Si tratta di una disposizione intellettuale, che fa parte di una concezione della realtà sostenuta da precise basi filosofiche: il neoplatonismo, che porta ad idealizzare le concezioni materialistiche, l’epicureismo.<br />
L'edonismo, ossia la ricerca del piacere diventa quindi un fenomeno culturale che ha i suoi riflessi sul piano del costume sociale e mondano, negli ambienti aristocratici e raffinati delle corti.<br />
Sulle radici culturali dell’ EDONISMO UMANISTICO dobbiamo far riferimento da un lato alla letteratura classica per quanto riguarda la ripresa dell’elemento mitologico e idillico , nonché nell’invito oraziano a godere della fugacità dei piaceri che la vita concede (carpe diem); dall’altro il motivo edonistico si incontra con quello cristiano e petrarchesco del trascorrere del tempo, rivissuto però in una prospettiva che ignora la trascendenza .<br />
L’ EDONISMO umanistico, che nasce sulla base di queste problematiche, presenta caratteristiche colte che si riscontrano nelle opere di grandi intellettuali umanisti come:<br />
Lorenzo il Magnifico (1449 -1492)<br />
Luigi Pulci : (1432-1484). Il poema epico cavalleresco : Il Morgante<br />
Angelo Poliziano ( 1454- 1494): Stanze per la giostra, poemetto in ottave<br />
Matteo Maria Boiardo( 1440-1494). Il poema epico cavalleresco: l’Orlando innamorato<br />
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<b>CENTRI DI DIFFUSIONE DELLA CULTURA UMANISTICA: FIRENZE, ROMA , NAPOLI</b><br />
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I principali centri di irradiazione della cultura umanistica, che dall'Italia si confuse via in tutta l'Europa, furono Firenze, Roma e Napoli. <br />
A FIRENZE continua la grande tradizione di studi, iniziata dal Petrarca e dal Boccaccio, con Coluccio Salutati (1331 -1406) cancelliere della signoria fiorentina, scopritore delle lettere familiari di Cicerone , Niccolò Niccoli (1364-1437), fiorentino, che scrisse una guida per i ricercatori di manoscritti in Germania, Leonardo Bruni (1374-1444) autore di una Historia florentina , modellata sull’esempio della storiografia latina, Poggio Bracciolini (1380-1459) che portò alla luce numerosi testi latini: il De rerum natura di Lucrezio, le Selve di Stazio , la Institutio oratoria di Quintiliano , le Puniche di Silio Italico e altri. Accanto a questi che furono più propriamente dei letterati, ricordiamo i filosofi Marsilio Ficino (1433-1499), autore della Theologia Platonica ove tentava di conciliare la filosofia di Platone con il cristianesimo, Giannozzo Mannetti (1369-1459), fiorentino, autore del De dignitate et excellentia hominis, che contiene, insieme al De hominis dignitate di Pico della Mirandola, e alle opere di Marsilio Ficino, la più alta lode della natura umana; ricordiamo, infine, a Firenze l’opera di Cristoforo Landino (1424-1498).<br />
I Medici, signori di Firenze dal 1435, favorirono con splendido mecenatismo, lo sviluppo della cultura a Firenze. Ma in genere tutti i signori italiani accolsero e protessero i letterati alle loro corti, sia per l’altissima considerazione in cui venivano tenuti gli studia humanitatis , sia perché si vedeva nel letterato il dispensatore di gloria e immortalità. Il signore trova nel letterato chi dà lustro e splendore alla sua corte e alla sua dinastia, e, in compenso gli offre i mezzi per una dignitosa esistenza e per raccogliere i rari manoscritti costosissimi, necessari ai suoi studi che un privato difficilmente avrebbe potuto acquistare.<br />
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Anche ROMA fu un grande centro umanistico sotto la protezione di alcuni pontefici, come Niccolo V e Pio II, che furono a loro volta letterati umanisti. Alla corte pontificia i principali studiosi furono Lorenzo Valla (1407-1457), autore dell’ Elegantiarum latinae linguae libri e di un libro in cui dimostrò la falsità del documento secondo cui l’imperatore Costantino avrebbe donato, già agli inizi del IV sec., Roma ai pontefici . <br />
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A NAPOLI sotto la protezione della dinastia aragonese, sorse l’ Accademia pontaniana, fondata da Antonio Beccadelli detto il “Panormita”, ma così chiamata per onorare il principale animatore, Giovanni Pontano, nato a Cerreto nel 1426 e morto a Napoli, dove fu ministro politico nel 1503. Il Pontano scrisse dialoghi e poesie in latino e fu l’esempio dell’illusione umanistica di sostituire l’italiano al latino anche nei componimenti propriamente letterari . A Napoli operò anche Iacopo Sannazzaro che introdusse il nuovo genere del romanzo pastorale con l’Arcadia, un poemetto in volgare destinato ad avere immensa fortuna.<br />
Fra gli altri centri di diffusione della cultura umanistica ricordiamo FERRARA, dove i signori Estensi furono magnifici mecenati; MANTOVA dove regnò la splendida signoria dei Gonzaga.<br />
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UMANESIMO E RINASCIMENTO (morte del Petrarca- 1470 ca / 1470-1570 ca ).</b> Nuova concezione dell’uomo e della vita ( vedi Giannozzo Manetti, De dignitate et excellentia hominis; concezione teocentrica- concezione antropocentrica), riscoperta dei classici latini e greci come modello di perfezione stilistica e come esempi di grande umanità, esaltazione delle lettere (humanae litterae), e in genere di tutti gli studia humanitatis; nascita della Filologia; diffusione in Occidente dello studio del Greco, in particolare nello Studium fiorentino; Principio di imitazione- emulazione.<br />
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<b> FIRENZE : UMANESIMO CIVILE (INTELLETTUALE CITTADINO) - UMANESIMO CORTIGIANO (INTELLETTUALE CORTIGIANO)</b><br />
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A Firenze distinguiamo dapprima una produzione letteraria che fa riferimento all’Umanesimo civile, frutto della civiltà comunale, che giunge a piena maturazione con la fine del regime repubblicano e con l’instaurarsi a Firenze nel 1435 della signoria dei Medici, una potente famiglia di mercanti e banchieri, nella figura di Cosimo I. L’umanesimo civile si realizza nell’ esaltazione di un ideale di cultura legato alla vita attiva e nella celebrazione dell’ intellettuale cittadino, impegnato nella vita pubblica del Comune, che non trae sostentamento dalla sua professione di intellettuale, ma da altre attività, che partecipa alla vita politica del Comune ricoprendo incarichi pubblici ed esprimendo nelle sue opere i suoi ideali civili. Nell’ambito dell’Umanesimo civile fiorentino, ricordiamo<br />
Coluccio Salutati ( scoprì le epistole familiari di Cicerone), Leonardo Bruni ( scrisse una Historia fiorentina sul modello delle opere storiografiche latine), Poggio Bracciolini(riportò alla luce numerosi testi latini : De rerum natura di Lucrezio, Le Silvae di Stazio, Institutio oratoria di Quintiliano nella Biblioteca di San Gallo in Germania), Giannozzo Manetti ( autore del De dignitate et excellentia hominis, opera che contiene la più alta lode della natura umana).<br />
Diffusione della cultura neoplatonica: Accademia neoplatonica a Firenze fondata da Marsilio Ficino nel 1454, per incarico di Cosimo de Medici, nella villa medicea di Careggi. Vi parteciparono Pico della Mirandola, Angelo Poliziano, L.B. Alberti, Lorenzo e Giuliano de’ Medici. <br />
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All’Umanesimo civile subentrerà, a partire dall’affermarsi a Firenze della signoria dei Medici (1435 in poi), il cosiddetto UMANESIMO CORTIGIANO, incentrato ancora sugli ideali feudali e cortesi quali la liberalità, la magnanimità, l’esaltazione di un mondo ideale di bellezza e di armonia. L’intellettuale umanista diviene un letterato di professione al servizio di un signore; alla partecipazione alla vita attiva si sostituisce l’isolamento dell’intellettuale nella cerchia esclusiva delle corti e delle Accademie, nuovi centri di diffusione culturale figura (cfr. pg. 11; pp.20-21)→ intellettuale cortigiano.<br />
UMANESIMO CORTIGIANO a Firenze: Lorenzo de’ Medici, Angelo Poliziano, Luigi Pulci<br />
Nella seconda metà del 400 il processo di riscoperta ed assimilazione della cultura classica, latina e greca, era ormai concluso, tuttavia tramonta definitivamente l’illusione della resurrezione e del trionfo del Latino nelle opere letterarie. La preminenza dell’Italiano, nella 2^ metà del 400, coincide col fenomeno letterario detto “Uman. Volgare”, fondato sulla persuasione che anche il volgare potesse essere capace di esprimere in forma eletta nobili concetti, purché lo si elevi dalla rozzezza del parlare quotidiano e gli si dia una certa dignità letteraria ( modelli stilistici autorevoli: Petrarca, Boccaccio). L’opera degli scrittori umanisti godette sempre più dell’appoggio degli aristocratici signori di corte (Medici a Firenze, Estensi a Ferrara, Gonzaga a Mantova), i quali, in linea con i nuovi ideali umanistico-rinascimentali di ricerca della bellezza e dell’armonia, e approfittando del particolare periodo storico di pace e benessere (1455-1492), favorirono il proliferare a corte di artisti e letterati. Questi furono cultori di una poesia prevalentemente di evasione, concepita come raffinato gioco letterario, celebrativa della bellezza e della gioia di vivere, nella consapevolezza della caducità e della fugacità della vita ( la Fortuna, come forza capace di stravolgere e condizionare gli eventi umani).<br />
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LORENZO IL MAGNIFICO (Firenze1449-1492).</b> Nel 1469 divenne signore di Firenze assieme al fratello giuliano. Ebbe come maestri Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Giovanni Argiropulo (dotto bizantino), Angelo Poliziano. <br />
Scrisse opere in Latino e in volgare, sviluppando una tendenza realistica e naturalistica, che si esprime con descrizioni vive e concrete di paesaggi, nel vagheggiamento di una vita libera e serena a contatto con la natura (ricerca del locus amoenus). Vedi i Canti carnascialeschi ( filosofia neoplatonica, ispirazione bucolica, tono comico-realistico). <br />
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ANGELO POLIZIANO (Montepulciano1454- Firenze1494)</b><br />
Poeta umanista e drammaturgo; precettore di Piero de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico.<br />
Scrisse opere in latino, greco, volgare. Fu tra i maggiori animatori, almeno fino al 1478 (anno della “Congiura dei Pazzi”), del circolo culturale riunito attorno alla potente famiglia de Medici ( Marsilio Ficino, Pico della mirandola, Cristoforo Landino. In questo periodo Lorenzo de medici gli schiuse la via dell’agiatezza e degli onori.<br />
Il suo capolavoro furono le “Stanze per la giostra” 1475-1478, poemetto in ottave scritto per celebrare il trionfo di Giuliano de Medici in una giostra (gioco di armati a cavallo, nel quale riportava vittoria colui che riusciva a disarcionare l’avversario). <br />
Dopo un breve periodo di allontanamento da Firenze dovuto ai dissapori sorti con la famiglia de Medici, vi fece ritorno nel 1480, quando ottenne la cattedra di eloquenza greca allo Studium fiorentino ( già a 16 anni aveva tradotto dal greco i libri dal II al V dell’Iliade di Omero).<br />
Fu autore anche di una famosa opera teatrale: l’Orfeo, che fu inserita, successivamente, nell’indice dei testi proibiti dalla Chiesa.<br />
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LUIGI PULCI (Firenze1432-Padova1484).</b> Esponente di una nobile famiglia decaduta.<br />
Sua opera maggiore fu il Morgante, parodia del poema epico cavalleresco, in ottave. Il Morgante. fu pubblicato in una prima ed. del 1478, in 23 canti; seconda ed. del 1483, in 28 canti (il cosid Morgante maggiore). Per quanto riguarda lo stile, il modello a cui attinge Luigi Pulci per il suo poema è quello dei “cantari” popolari: componimenti cavallereschi del 400-500 accompagnati dalla musica e destinati ad una esecuzione in pubblico. Nel Morgante confluiscono temi e motivi dei grandi poemi epici medievali (ciclo carolingio- ciclo bretone), filtrati alla luce della nuova cultura rinascimentale.<br />
Anche il Pulci, come il Poliziano, fu assiduo frequentatore del circolo culturale riunito attorno alla potente famiglia de Medici; egli godette per tutta la vita della simpatia di Lucrezia Tornabuoni e del figlio Lorenzo il Magnifico, dal quale ottenne numerosi incarichi ed aiuti economici.<br />
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<b>MATTEO MARIA BOIARDO (Reggio Emilia 1441 -1494).</b><br />
Poeta e letterato italiano di origini aristocratiche, vissuto nella raffinata corte di Ferrara.<br />
Scrisse opere erudite in latino e in volgare; la sua più celebre fu, tuttavia, <br />
l’Orlando innamorato, poema epico cavalleresco rinascimentale, in ottave (ottava rima: strofe di 8 versi che rimano secondo lo schema ABABAB CC) ispirato ai due grandi cicli della letteratura francese cavalleresca del medioevo, quello carolingio e quello bretone. Orlando, infatti, è l’eroico paladino dell’epopea carolingia, religiosa, nazionale e guerriera, incentrata sulla lotta dei Cristiani contro i Musulmani; ma l’aggettivo “innamorato” ci riconduce alle storie d’amore e d’avventura del ciclo bretone, dei cavalieri della Tavola rotonda, di Tristano e Lancillotto.Infatti, nella continua rielaborazione della materia cavalleresca medievale, gradita sia agli aristocratici signori di corte, che alle classi popolari, i due cicli si erano venuti progressivamente fondendo. Nel poema del Boiardo la fusione è completa: la struttura resta quella del poema epico medievale (stile formulare con l’ impiego di espressioni stabili e ripetute, disposte in situazioni metricamente identiche; affinità metriche e retoriche con l’agiografia; componente culturale religiosa; storicità del tema: scontro fra parti contrapposte decisivo per un’intera comunità e i suoi ideali; l’eroe del poema epico è un personaggio prode e magnanimo in cui si riconosce l’intera collettività e che trova nella guerra il senso del proprio onore). <br />
Nell’Orlando innamorato, tuttavia, si riscontra una sostanziale innovazione della materia epica classica. Il paladino Orlando non è più soltanto l’eroe che combatte per difendere la patria e la fede cristiana: egli appare come un eroe nuovo e umanizzato, poiché diviene in primo luogo l’eroe innamorato, che nell’amore (forza istintiva e irrazionale) trova la ragione prima della sua vita e del suo agire. Il poema, dunque, si presenta non a carattere didascalico (come i testi dell’epica classica e medievale), bensì a carattere edonistico ed encomiastico. Lo scopo del Boiardo, infatti, era quello di intrattenere e divertire il raffinato pubblico della corte estensa, con un’opera dal carattere arguto e burlesco, con uno stile colorito, vivace e avvincente.<br />
L’Orlando innamorato fu iniziato nel 1476, ed è diviso in 3 libri. I primi due libri, rispettivamente di 29 canti e di 31 canti, furono pubblicati nel 1483. Il terzo libro rimase interrotto al 9 canto, a causa della successiva morte del poeta avvenuta nel 1494 (anno della discesa in Italia di CARLOVIII).<br />
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La vanità dei beni terren<i></i></b>i“[…]Non c’è chi facci bene, non ce n’è solo. Quasi tutta la vita de’ mortali è piena di peccati, in modo che appena si possi trovare chi non penda a mano sinistra, chi non torni al vomito, che non sia puzzolente nello sterco, che non si rallegri più tosto quando ha mal fatto e rallegrasi nelle cose pessime. Ripiene d’ogni iniquità, malizia, avarizia, nequizia; pieni d’invidia, omicidio, contenzione, inganno, malignità; sussurroni, mormoratori in odio di Dio, pieni di villanie, superbi, gonfiati, inventori de’ mali, disubbidienti a’ padri […] Questo mondo è ripieno di tali e molto peggiori: abonda di eretici, di scismatici, di perfidie tiranni, simoniaci, ipocriti, ambiziosi, cupidi, ladri, rubatori [..]astuti, golosi, ubriachi, adulteri etiam nel parentado, lascivi immondi pigri e negligenti. […]”. Lotario Diacono, De contemptu mundi, III (XII-XIII sec.)<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-84326211509045059862016-03-18T21:14:00.000+01:002016-03-18T21:14:44.085+01:00GABRIELE D’ANNUNZIO (Pescara 1863- Gardone 1938) – PRODUZIONE LETTERARIA<br />
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La produzione letteraria di<b> Gabriele D’Annunzio (1863-1938), </b>sebbene vastissima e multiforme, presenta un profilo abbastanza unitario, nelle tematiche e nello stile: fin dal Canto Novo (1882) la sua fisionomia di scrittore risulta sufficientemente precisata e se anche gli sviluppi successivi la modificheranno in parte, non arriveranno mai a cancellarne i tratti originari.<br />
La matrice della poetica dannunziana è POSITIVISTA E MATERIALISTICA , con in più un afflato mistico che conduce spesso l’autore ad una identificazione estatica con la materia stessa, nelle forme che essa assume nei corpi della natura, nei ritmi delle stagioni. Tutto quanto abbia a che fare con il corpo, dalla sensibilità alla sensualità fino alla malattia e al disfacimento della morte, diviene per il poeta un vero e proprio oggetto di culto e di esaltazione, che si riflette nel più ampio culto delle acque e dei boschi, delle spiagge e del sole, come manifestazioni meravigliose di una irrefrenabile energia vitale. Il poeta diviene il SACERDOTE LAICO che officia i riti di una religiosità pagana e amorale, depositario di un mistero che non ha nulla di metafisico: è il mistero della bellezza che si incarna nelle forze naturali positive, e che non sopporta vincoli di ordine etico o sociale.. la bellezza per D’Annunzio non va solo contemplata: al contrario essa va usata fino in fondo in una brama di possesso e di godimento estetico che non conosce limiti. <br />
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Agli albori della modernità italiana, tra Ottocento e Novecento, D’Annunzio scopre la cultura di massa e sa farsene interprete. Sempre aggiornato sui fenomeni più in voga, fonda sull’ imitazione la sua produzione letteraria, cogliendo abilmente di volta in volta gli umori del momento e rielaborando in modo originale. I modelli più disparati.<br />
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1.ESORDIO DI INFLUENZA CARDUCCIANA E NATURALISTA.<i></i></b> L’esordio poetico di D’annunzio con Primo vere (1879) e Canto novo (1882) è all’insegna di Carducci, rivisitato nella direzione di un’intima comunione con la natura che ispira sentimenti sensuali e vitalistici. I racconti giovanili sono ambientati in Abruzzo, terra d’origine del poeta rappresentata come luogo dalla natura ferina e istintiva, aspra e selvaggia; questi, confluiti nel volume unico Novelle della Pescara (1902), risentono l’influenza del Naturalismo francese (Flaubert e Maupassant) e del Verismo italiano (Capuana e Verga); si tratta essenzialmente di un’imitazione prevalentemente formale, poiché il D’Annunzio col suo temperamento sensuale è lontanissimo sia dalla concezione sana, operosa e virile di Carducci, sia dalla profonda moralità e pietà del Verga.<br />
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<b>2.DECADENTISMO ESTETIZZANTE.<i></i></b> Dagli esordi giovanili carducciani e naturalistici, i percorsi dannunziani andranno sempre più intrecciandosi. Sono questi gli anni, dal 1883 in poi, in cui il D’Annunzio diventa una celebrità nei salotti romani più importanti; diventa il celebre cronista mondano di riviste importanti “Cronaca bizantina”, “Capitan Fracassa”, la “Tribuna”, fa una fuga d’amore con la duchessina Maria Hardouin di gallese, sedotta per scopi pubblicitari, e poi sposata per obbligo di riparazione. Gli anni romani (1881-1891) sono fondamentali per al sua formazione letteraria e per la sua crescita ed evoluzione artistica: divora i libri di Flaubert, Zola, Maupassant, i versi parnassiani di Baudelaire ( in particolare I fiori del male) e Mallarmé, i romantici Keats e Shelley, il decadente Swinburne. La ricchezza di esperienze erotiche e la molteplicità delle letture alimentano non solo la narrativa di questi anni, ma anche le prove poetiche del D’annunzio romano. Il poeta infatti si orienta verso un calcolato kitsch (letteralmente: fare opera antica con materiale moderno), un indirizzo estetico di fine Ottocentoche consiste nell’accumulo di materiali eterogenei nello stesso componimento. Ciò che conta per il poeta è l’effetto strabiliante dell’insieme, e soprattutto la perfezione della forma, la cui assoluta priorità è affermata nella chiusa del primo romanzo di D’Annunzio, Il Piacere (1889) “O poeta, divina è la Parola….e il verso è tutto”<br />
Sull’esempio dei romanzi ciclici dell’Ottocento di Honoré de Balzac ( la commedia umana) DI EMILE Zola ( i Rougon Macquart), Verga (i vinti), il D’Annunzio si propose di scrivere un ciclo di romanzi distinti in tre trilogie: I romanzi della rosa, I romanzi del giglio, I romanzi del melograno a simboleggiare le tappe evolutive del suo spirito dalla schiavitù delle passioni alla vittoria su di esse. <br />
La contemplazione e il godimento della bellezza, insieme intellettuale e istintuale – L’ESTETISMO - cioè l’esaltazione della Bellezza “pura e inutile” contraddistingue i primi tre romanzi di D’Annunzio: Il Piacere (1889), L’innocente (1892), Il trionfo della morte (1894) - poi riuniti nel ciclo I Romanzi della rosa – hanno per protagonisti raffinatissimi intellettuali, mossi dal comune desiderio di una sfrenata ricerca del piacere, che si trovano a scontrarsi in vari modi con la forza travolgente e incontrastabile della sensualità e delle passioni, e ne escono sconfitti, pagando la loro inadeguatezza con la nevrosi (Andrei Sperelli, Il Piacere), con il delitto (Tullio Hermil, L’Innocente), con la morte (Giorgio Aurispa, Il Trionfo della morte). Il vero modello de Il Piacere va cercato nel romanzo fondamentale del Decadentismo europeo, A ritroso del francese K. Huysmans. I protagonisti dei ROMANZI DELLA ROSA, il fiore simbolo della voluttà, d, pubblicato nel 1884 e subito letto e ammirato da D’Annunzio. ella passione invincibile, rappresentano simbolicamente l’autore stesso, sono delle controfigure dell’autore che si muovono nello stesso frivolo mondo nella nobiltà romana nel quale si muoveva in quegli anni D’Annunzio e ne condivideva i gusti e le inclinazioni. Non a caso il D’Annunzio forgia proprio in questi anni il proprio gusto decadente tutto nutrito di edonismo e di prezioso estetismo. Ma i personaggi suddetti non possiedono ancora la sufficiente energia vitale e sovrumana, necessaria per sopravvivere ai devastanti effetti di una vita vissuta all’insegna del puro edonismo, della sensualità scatenata: una energia che D’Annunzio riteneva esclusivo appannaggio del cosiddetto Superuomo, il mitico prodotto finale di una darwiniana selezione naturale intenta a falcidiare i più deboli e inadeguati.<br />
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<b>LIRICA:</b> La ricchezza delle esperienze erotiche e la vastità delle letture, in particolare di opere francesi, alimentano non solo la prosa di questi anni romani, ma anche la POESIA. Al gusto estetizzante si ispirano le due raccolte<br />
Elegie romane (1883); Intermezzo di rime (1887-1892). In elegie romane il poeta esprime informe poetiche tradizionali (sonetti, madrigali, ecc.) ritratti femminili in un ambiente aristocratico e raffinato disfatto dall’eccesso di sensualità E’ evidente il queste opere la lezione dei Parnassiani francesi, in particolare di Th.Gautier,e di Charles Baudelaire (I fiori del male). I motivi fondamentali sono, ancora, la corrispondenza tra ARTE e VITA; il narcisismo edonistico, una forte componente sensuale che si esprime mediante un irrefrenabile godimento dei sensi; il nesso parnassiano tra la perfezione formale e la dissoluzione morale; la poetica del KITSCH.<br />
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3.FASE BONTA’: PERIODO NAPOLETANO (1891-93)<i></i></b> Nel 1891 D’Annunzio abbandona la vita gaudente romana e perseguitato dai creditori si trasferisce a napoli. Anche nel periodo napoletano lo studio delle letterature straniere orienta e condiziona la sua poetica. La lettura in traduzione francese dei narratori russi Tolstoj e Dostoevskij (I fratelli Karamazov) Nascono opere di impianto fortemente morale e psicologico che mirano alla condanna dell’uomo che si abbandona senza coscienza e senza ideali alla ricerca del piacere. I motivi sono, dunque, la poetica del pentimento e dei buoni sentimenti; il Simbolismo come trasfigurazione di oggetti ed emozioni nella musicalità del verso.<br />
Opere del periodo napoletano: I romanzi Giovanni Episcopo (1891) e L’innocente (1893); Il poema paradisiaco (1893).<br />
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<b>4.IL SUPEROMISMO (1892).<i></i></b> La seconda trilogia, I ROMANZI DEL GIGLIO fiore simbolo del superuomo, della passione che si purifica, si ispira al SUPEROMISMO DI NIETZSCHE. La conoscenza della filosofia di N. è databile intorno al 1892, anno in cui D’annunzio lesse Così parlo Zarathustra e ne rimase certamente colpito, tanto da segnare una svolta intellettuale destinata a dividere in due il percorso artistico dannunziano. Sarebbe tuttavia un errore ritenere che nel poeta l’idea del superuomo sia totalmente tributaria delle teorie nietzscheane: essa è infatti già presente nel forte Vitalismo che caratterizza la poetica dannunziana fin dal Canto novo. Dal superuomo di N., il superuomo dannunziano deriva il concetto della volontà di potenza creativa e della ricerca di una gioia nuova, derivata dalla capacità di non dubitare più di sé dinanzi al mondo. Al potere del superuomo si contrappone la banalità e la cieca passività della folla, cioè della massa della civiltà moderna che minaccia la singolare eccellenza dell’eroe, e che dunque deve essere sottomessa alla sua forza creatrice. Il superuomo dannunziano coincide con l’artista, un essere superiore che in virtù della propria vitalità intellettuale e del culto della Parola, ha il diritto di dominio assoluto sulla folla, semplice strumento della sua capacità di imprimere accelerazioni alla storia umana. L’autore si convince che è esattamente la parola, nei suoi valori tanto semantici quanto musicali, la garanzia del conquistato possesso del mondo da parte del poeta-superuomo (il poeta, accanto a Nietzsche, aveva scoperto anche la musica di Richard Wagner 1818-1888 teorico del cosiddetto dramma di parole e musica che realizza la perfetta compenetrazione tra canto e orchestra, parole e musica). Il suo estetismo di matrice materialista, reperisce i mezzi verbali più congeniali- volutamente straordinari- attraverso una assoluta ricerca inesausta di vocabolari, dizionari specializzati, lessici, attingendo a opere letterarie antiche e moderne, al punto da far incorrere D’Annunzio in numerose accuse di plagio. Si accentua in questa fase l’idea di una superiorità assoluta dell’artista e della sua sintonia con la natura. Una volta raggiunta la sicurezza della parola, una volta identificato in essa l’universo privilegiato del Superuomo, la vita stessa può farsi a sua volta parola, può manifestarsi attraverso una serie di gesti clamorosi ed eccentrici che recano in sé la finzione dell’arte: la vita come opera d’arte, vecchio sogno dei Scapigliati e dei bohemiens, ma anche dei Parnassiani e in generale dei decadenti francesi, può finalmente realizzarsi sotto l’egida del Superuomo, facendo di D’Annunzio un “caso” culturale assolutamente unico nella storia della letteratura europea moderna. <br />
Il superuomo di D’Annunzio è fondamentalmente assai lontano dal suo modello nietzscheano: privo di spessore filosofico e conoscitivo, tanto gaudente, vitale e ottimista quanto l’altro appare pessimista e funebre, il Superuomo dannunziano affida la propria onnipotenza alle armi della parola: al parossismo dei sensi e della materia si può sopravvivere solo grazie al culto della parola, solo a patto di poter forgiare un linguaggio sublime e divino che sia all’altezza dell’eccezionalità dei contenuti da significare e comunicare. <br />
I tratti distintivi del Superuomo possiamo riassumerli nelle parole del critico Carlo Salinari “culto dell’energia dominatrice, sia che si manifesti come forza o come capacità di godimento della bellezza; ricerca della propria tradizione storica nella civiltà pagana greco-romana e in quella rinascimentale; concezione aristocratica del mondo e disprezzo della massa; idea di una missione di potenza e di grandezza della nazione italiana da realizzarsi soprattutto attraverso la gloria militare; giudizio totalmente negativo sull’Italia postunitaria e necessità di energie nuove che la risollevino dal fango”. <br />
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Il tema del superuomo produce i suoi interessanti effetti sia in ambito poetico che, soprattutto, nel campo della narrativa. Se Il trionfo della morte (1894) è il romanzo che fotografa la graduale metamorfosi ideologica, il romanzo-manifesto della poetica del Superuomo è Le vergini delle rocce (1895) il primo e unico romanzo della trilogia “del giglio”.<br />
Tuttavia, il primo personaggio davvero vincente che si incontra nella narrativa dannunziana è il grande poeta Stelio Effrena, incarnazione di un ideale artistico eroico, protagonista de Il fuoco (1900). Questo romanzo, unico della TRILOGIA DEL MELOGRANO, rappresenta il culmine del romanzo superomistico dannunziano, il livello più alto del suo ottimismo creativo. Giunge qui a compimento anche il processo di dissoluzione delle strutture del romanzo realista, a avntaggio di effetti musicali ispirati dalla wagneriana.<br />
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<b>LIRICA </b>: Accanto al romanzo, il mito superomistico alimenta anche la poesia di D’Annunzio. In questo ambito lo scrittore è debitore non soltanto del Così parlò Zaratustra, ma anche della nascita della tragedia di Nietzsche, in cui il filosofo tedesco aveva posto le forme della spiritualità greca all’origine della civiltà occidentale. In ambito lirico il mito del superuomo si sposa con la riscoperta e l’esaltazione da parte del poeta della Grecia antica, patria del “sentimento dell’energia e della potenza elevato al sommo grado”: il mito del mondo antico capace di illuminare e riscattare la decadenza del presente, si concretizza in un viaggio condotto da D’Anninzio nei siti archeologici ellenici nel 1895. Così dopo anni di dedizione alla prosa e al teatro, in una lettera del giugno 1899 D’Annunzio annuncia: “In questi giorni mi sono riaccostato alla poesia: ho scritto alcune delle Laudi del cielo, del mare, della terra degli eroi” Nasce così sul finire del 1890 il progetto delle Laudi, dedicate alla suprema ambizione del poeta-superuomo intenzionato a cantare la bellezza del mondo visibile e la gloria dell’eroe attraverso il tempo. Non si tratta solo di poesia: il richiamo del titolo alle Laudes creaturarum di S.Francesco, allude alla volonta del D’annunzio di fondare una moderna religione anticristiana, basata sul ricongiungimento dell’individuo alla potenza creatrice della natura. Il progetto delle Laudi prevede sette libri, ognuno dedicato ad una stella delle Pleiadi. Nei fatti, D’Annunzio pubblica i primi tre libri, composti tra il 1896 – 1903 : Maia (1903); Elettra (1904); Alcyone (1904). I motivi che sostanziano la poesia delle Laudi sono temi cari al Superuomo: l’esaltazione del mito attraverso un itinerario mentale e reale sulle tracce della Grecia antica; esaltazione degli eroi ed episodi del passato alla ricerca dei segni della grandezza dell’Italia (poesia di intonazione civile di stampo patriottico e nazionalistico); concezione aristocratica del mondo; fusione panica con la Natura e metamorfosi dell’uomo; intenso rapporto a carattere dionisiaco del poeta-superuomo con la Natura, fonte di inesauribile energia creativa (Vitalismo); il culto della parola. Questa poetica si riflette anche sul piano stilistico La parola sublime e “divina” è orchestrata in vista della maggiore musicalità possibile, in grado di assecondare le invenzioni della sua fantasia nella forma originale della “strofa lunga”: i testi poetici sono infatti concepiti come partiture orchestrate su una metrica ora tradizionale, ora libera, ma sempre caoace di assecondare il flusso delle immagini. Il culto della parola conosce la sua più piena realizzazione proprio nei primi tre libri delle Laudi e in particolare nell’Alcyone (1903) concordemente ritenuto il capolavoro della poesia dannunziana. In Alcyone il poeta si abbandona alla libera celebrazione dell’estate e della sua forza vitale, rifondendo il materiale poetico del Canto Novo in direzione di una ricerca stilistica che diviene l’obiettivo supremo della creazione artistica. Particolarmente efficace risulta l’utilizzo della “strofa lunga” composta da una prolungata sequenza di versi liberi, cioè di misura variabile,, ma preferibilmente breve, così da conferire agilità allo schema metrico. . Alla suggestione musicale collaborano le scelte lessicali, auliche e talvolta semplici, ma sempre ricche di particolari effetti fonici, l’uso di assonanze, allitterazioni, similitudini, metafore sinestesie volte ad ottenere una lingua poetica fortemente analogica.<br />
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<i><b>5.NAZIONALISMO</b>.</i> Al rientro dalla Francia (1910-1915) D’annunzio manifesta di aver tradotto gli ideali superomistici di volontà di potenza in attivismo politico a base nazionalistica. Il superuomo dannunziano non veste più soltanto i panni dell’artista raffinato, ma diventa il banditore di una politica aggressiva, elitaria, antidemocratica, imperialistica. Diviene un poeta soldato, il vate d’Italia, si arruola nell’esercito italiano, combatte sul Carso, partecipa ad imprese militari marittime ed aeree ( in seguito ad un incidente aereo perde l’occhio destro, volo su Vienna; occupazione di Fiume). Alle impresa del poeta soldato fa eco sul piano letterario una poesia nazionalistica: le Canzoni delle gesta d’oltremare (1911-1912) scritte per esaltare la guerra di Libia e → confluite nel 4° libro delle Laudi dal titolo Merope; i Canti della guerra latina (1914-18) scritti per esaltare le gesta italiane durante la 1^ guerra mondiale e → confluiti nel 5° libro delle Laudi dal titolo Asterope (1932).<br />
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<b>6.FASE NOTTURNA.</b> PROSA LIRICA E MEMORIALE<i></i></b>. Dopo gli anni di attivismo bellico, lo scrittore, cieco da un occhio, si dedica ad una prosa non più veemente e narrativa, virile, bensì descrittiva, a carattere memoriale, diaristico incentrata sulla trascrizione della sua “vita segreta” .La nuova prosa dannunziana diviene sfumata, frammentaria, fatta di appunti, ricordi e folgorazioni; è una prosa fortemente lirica che mira a ricreare il mito di un D’annunzio superumano la cui vista creativa, piuttosto che indebolirsi si affina con la cecità. Il capolavoro della fase notturna è il Notturno, un libro nato proprio nel periodo della cecità e poi ampliato in vista della sua pubblicazione avvenuta nel 1921.<br />
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<b>BIBL: De Caprio Giovanardi, I testi della letteratura italiana; Antonelli-Sapegno, Il senso e le forme; appunti docente.</b><br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-30403202537083307092016-03-18T21:05:00.001+01:002016-03-18T21:05:57.092+01:00 G. PASCOLI (1855-1912) - IL FANCIULLINO<br />
Il <i>Fancilullino</i> è uno scritto teorico articolato in 20 capitoli , la cui composizione si svolge nell’arco di un decennio. Pubblicato inizialmente a puntate sulla rivista “Il Marzocco”, compare in edizione definitiva nel 1907 all’interno del volume “Pensieri e discorsi”. Il saggio costituisce la massima espressione della riflessione teorica del Pascoli sulla poesia; Il fanciullino si presenta come una lunga e dettagliata esposizione del programma poetico dell’autore, in cui è sviluppato il concetto prerazionale e intuitivo della poesia.<br />
LA POETICA DEL IL FANCIULLINO<br />
L’idea centrale della riflessione teorica è che il poeta è il solo privilegiato che riesce a dar voce al “fanciullo” – simbolo dell’irrazionale - che rimane nascosto in ognuno di noi; la poetica del fanciullino si collega al concetto di poesia intesa come “meraviglia”: come agli occhi puri e innocenti di un fanciullo il mondo appare meraviglioso e stupefacente anche nei suoi aspetti più comuni e banali, così il poeta deve saper cogliere LO STRAORDINARIO NELL’ORDINARIO, scavare nelle sensazioni fino ad isolarne tratti che sfuggono al senso comune ed esprimere quei tratti a parole, quasi come un novello Adamo che “mette il nome a tutto ciò che vede e sente”. Ma il fanciullo che è in noi è normalmente soffocato dalle esigenze della vita; esso è invece rimasto in vita nel poeta e parla e si esprime nei suoi versi. Il compito del poeta consiste nel comunicare il senso di stupore che nasce dalla conoscenza nuova e sempre diversa che hanno della realtà circostante coloro i quali possiedono la particolare facoltà di vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti, ma non è percepito dalla maggior parte degli individui.<br />
il Pascoli teorizza la sua poetica, intimamente connessa al Decadentismo, - la poetica del Fanciullino- all’incirca negli stessi anni in cui D’Annunzio elabora il mito del «superuomo. Questi i punti principali della poetica pascoliana: <br />
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<b> NATURA IRRAZIONALE E INTUITIVA DELLA POESIA.</b> Il poeta è quel fanciullino presente in un cantuccio dell’anima di ognuno di noi, un fanciullino che rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, anche quando nell’età più matura siamo distratti e impegnati in attività pratiche. Il fanciullino che è in ciascuno di noi arriva alla verità non attraverso il ragionamento, ma in modo intuitivo ed irrazionale, guardando tutte le cose con stupore, con aurorale meraviglia, come fosse la prima volta: Fanciullo, che non sai ragionare se non a modo tuo, un modo fanciullesco che si chiama profondo, perché d’un tratto, senza farci scendere a uno a uno i gradini del pensiero, ci trasporti nell’abisso della verità. Anche la poesia, per Pascoli, deve essere spontanea e intuitiva, come intuitivo è il modo di conoscere e di giudicare dei fanciulli. C’è in Pascoli, dunque, l’idea della poesia “pura”, genuina espressione del sentimento, immune da interferenze intellettualistiche e da ogni finalità pratica. <br />
La poesia tradizionale secondo Pascoli non sa di guazza e d’erba fresca: essa non ha la spontaneità e lo stupore della percezione fanciullesca, sovraccarica com’è di raffinatezza letteraria, di schemi retorici. La poesia, inoltre, deve essere pura e istintiva perché il fanciullo non s’intende di problemi politici o morali, né di lotte sindacali e di ideologie; una poesia che s’interessa programmaticamente di questi problemi è poesia applicata e si risolve in propaganda o retorica.<br />
<b> POTERE ANALOGICO E SUGGESTIVO DELLA POESIA.</b> Se il poeta-fanciullo arriva alla verità in maniera alogica e irrazionale, per folgorazioni intuitive, la poesia allora deve affidarsi all’intatto potere analogico e suggestivo dei suoi occhi, non ancora inquinati da alcuno schema mentale, culturale, storico. Gli occhi del fanciullo scoprono nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose; adattano il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario; impiccioliscono per poter vedere, ingrandiscono per poter ammirare, giungendo, immediatamente e intuitivamente, quasi per suggestione, al cuore delle cose, al mistero che palpita segreto in ogni aspetto della vita.<br />
<b> POESIA COME SCOPERTA e CONOSCENZA :</b> VALORE GNOSEOLOGICO DELLA POESIA. La poesia non è invenzione, ma conoscenza e scoperta : scoperta di una realtà ultrasensibile che solo che solo il poeta , grazie alla sua particolare sensibilità di “fanciullo”, sa cogliere e decifrare (A.Rimbaud, Lettera del veggente). Poesia è trovare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente, e serenamente di tra l’oscuro tumulto della nostra anima. La poesia ci mette in comunicazione immediata con il mistero che è la realtà vera dell’essere, essa è un mistico contatto con l’anima delle cose, è la forma suprema di conoscenza.<br />
<b> IL SIMBOLISMO.</b> Il fanciullo-poeta non riesce a cogliere i rapporti logici di causa ed effetto tra le cose, a fissarle in un insieme o sistema coerente. Gli oggetti vengono piuttosto percepiti in modo isolato e svincolato dal contesto, scatenando così l’immaginazione del poeta che li carica di significati nuovi, antichi ricordi o esperienze del proprio universo immaginario, e ne fa un simbolo. Ecco allora che l’”aratro dimenticato” in mezzo al campo diventa il corrispettivo di una vita solitaria, di uno stato d’animo pervaso di malinconia e di tristezza. L’«albero spoglio e contorto» diventa simbolo dell’angoscia dell’uomo; il «nido vuoto» simbolo della casa vuota delle presenze familiari; i «fiori» simbolo dell’inquietudine e del peccato, della incomunicabilità dell’esistenza umana, gli annunciatori della morte. Tutta la poesia pascoliana è intrisa di simboli, perché la realtà che essa rappresenta è il mistero insondabile che circonda la vita degli esseri viventi e del cosmo. Il poeta è teso ad esprimere i palpiti arcani, le rivelazioni delle cose, le illuminazioni dell’ignoto. Il simbolismo pascoliano – e in generale tutta la sua sensibilità decadente- come rileverà anche successivamente Eugenio Montale, pur avvicinandosi a quello europeo, resta ancora un atteggiamento ristretto provinciale, più istintivo che consapevole e programmatico, perché modesti furono in verità i contatti del poeta con la cultura europea, ridotte le sollecitazioni esterne. (Il simbolismo pascoliano non raggiunge la profonda coscienza, la medesima tensione visionaria, l’agonismo conoscitivo del Simbolismo francese).<br />
<b> LE UMILI COSE</b>. Se la poesia è nelle cose stesse, nel particolare poetico, allora anche i motivi della poesia non necessariamente devono essere grandiosi ed illustri, o avere il fascino dell’antico e dell’esotico, quel fascino che tanto ammalia i poeti del secondo Ottocento francese. Per il poeta, come per il fanciullo, sono degne di canto anche le piccole cose, umili, quotidiane, familiari, le piante più modeste, i piccoli animali, gli eventi del mondo naturale e campestre. La poesia del Pascoli canta l’umile fatica delle lavandare, la famiglia raccolta attorno alla tavola, i frulli d’uccelli, lo stormire dei cipressi, il lontano cantare di campane, il tuono, il lampo. La tematica, delle piccole cose è legata all’universo contadino, un mondo semplice e schietto intriso di sacralità e di arcana saggezza, da cui il Pascoli proviene e al quale sempre rimane fedele.<br />
<b> FUNZIONE CONSOLATRICE DELLA POESIA.</b> La poesia, oltre a rappresentare uno strumento di conoscenza della realtà ultrasensibile, svolge una suprema funzione civile e morale: Il poeta, se e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. E’ la poesia che persuade l’uomo ad accontentarsi del poco e del suo stato, perché pone un soave e leggero freno all’instancabile desiderio, quello di crescere socialmente. La poesia, dunque, invita alla fratellanza contro la comune infelicità, e non alla lotta di classe che divide; invita alla conciliazione delle contraddizioni, ad una comunione degli uomini nella rassegnazione per una impossibile felicità. Ma tale rassegnazione, è evidente, lascia regressivamente il mondo com’è, con le sue disuguaglianze, le sue miserie, le sue sopraffazioni.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-84987980073289164672016-02-25T23:04:00.001+01:002016-02-25T23:04:31.685+01:00G PASCOLI (1855-1912) (V.De Caprio - S.Giovanardi, I Testi della Letteratura italiana)<br />
G. Pascoli nasce nel 1885 a San Mauro di Romagna in provincia di Forlì, quarto di dieci figli di Ruggero e di Caterina Vincenzi Alloccatelli. Il padre, amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia, poteva garantire alla numerosa famiglia un’ agiata condizione economica. Dai sette ai quattordici anni Giovanni studia nel collegio dei Padri Scolopi di Urbino, particolarmente versati nell’insegnamento delle Lettere classiche. La vita del poeta fu segnata per sempre da una tragica catena di lutti che inizia fatalmente il 10 agosto 1867. Il quel giorno il padre Ruggero fu ucciso da una fucilata sulla via del ritorno a casa; l’anno successivo muore di tifo la sorella maggiore Margherita, seguita a pochi giorni di distanza dalla madre, colpita da un’improvvisa cardiopatia; più tardi , nel 1871, una meningite stronca il fratello Luigi. Infine muore di tifo anche il fratello Giacomo. Il Pascoli si ritrovò così a fronteggiare una situazione economica fattasi improvvisamente assai difficile.<br />
Nel 1873 Pascoli vince una borsa di studi che gli consente l’iscrizione alla facoltà di Lettre dell’Università di Bologna. Qui Il poeta aderì alle idee socialiste ed anarchiche e prese parte anche a manifestazioni studentesche di protesta; per questa ragione perde la borsa di studio e viene anche arrestato, rimanendo in carcere per tre mesi. Finalmente a 27 anni si laurea, discutendo una tesi sul poeta greco Alceo, e intraprende la carriera di insegnante liceale di latino e greco, carriera che lo porterà a stabilirsi dapprima a Matera, successivamente a Massa, poi a Livorno.<br />
A Massa, nel 1885, il poeta chiama a vivere con sé le due sorelle minori Maria (Mariù) e Ida, ricostruendo a finalmente quel “nido” che il destino aveva distrutto e inaugurando uno stile di vita non privo di aspetti morbosi, basato sul culto dei morti e sul tacito patto di non farsi una famiglia propria, rispettando una sorta di voto di castità ( “Il mio cuore è tutto pieno di Ida e Maria. Se a Livorno non guardo le donne, quando sono a Roma o a Firenze le guardo con orrore! Oh le mie due piccine! O Ida! O Maria! E mi addormmento col vostro nome, stringendo quella crocettina!” ). La riunione della famiglia, dopo tanti lutti, la faticosa ricostituzione del nido, è un momento di grande importanza per l’equilibrio psicologico del Pascoli.<br />
Il 1895 è un anno cruciale nella vita del Pascoli: la sorella Ida si sposa, e quel matrimonio è sentito da Giovanni e Maria come un vero e proprio tradimento che sconvolge ulteriormente i loro già fragili equilibri psichici ed esistenziali. Ancora, nel 1895 si stabilisce con la sorella Maria a Castelvecchio di Barga, in provincia di Lucca, che diverrà la sede definitiva del loro nido, pur mutilato dalla defezione di Ida.<br />
Nel 1898 Pascoli è nominato professore ordinario di letteratura latina all’università di Messina; successivamente viene chiamato dall’università di Pisa; infine nel 1905 è chiamato dall’università di Bologna a succedere a Giosué Carducci nella cattedra di letteratura italiana: il poeta accetta, ma l’insegnamento bolognese sarà sempre fonte di angosce per il difficile confronto con il predecessore, che pure era stato uno dei massimi estimatori della sua opera. Morì nella sua casa di Castelvecchio nel 1912.<br />
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<b>LA PRODUZIONE LETTERARIA</b><br />
A partire dagli anni Novanta, il Pascoli arriva a definire le principali linee della sua poesia in raccolte poetiche differenti e spesso parallele. Le maggiori raccolte poetiche di G. Pascoli sono: Myricae (1891), i Poemetti (1897)– divisi poi in Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909)- I Canti di Castelvecchio (1903), I poemi conviviali (1904), Odi e Inni (1906).<br />
Occorre tener presente che Pascoli , come Carducci, porta avanti in parallelo diversi generi poetici in cui articola l’insieme del suo lavoro poetico: <br />
una poesia prettamente lirica e di ispirazione “umile”, dedicata alla realtà contadina, alla quotidianità agreste evocata già nel titolo della sua prima opera, Miricae(cioè tamerici, piccoli arbusti sgraziati e assai diffusi) e poi ripresa e continuata idealmente nella raccolta I canti di Castelvecchio.<br />
una poesia a carattere narrativo, affidata a lunghi componimenti raccolti nei Poemeti<br />
una poesia di argomento classicistico e impegnativo, riversata nei Poemi conviviali<br />
una poesia a carattere civile e patriottico: Odi e Inni, Le canzoni di re Enzio, I poemi italici, I poemi del Risorgimento.<br />
In Pascoli abbiamo la copresenza di più “maniere” poetiche che egli frequentava contemporaneamente, mutando di volta in volta l’impostazione stilistica e le scelte tematiche di fondo. Le sue raccolte poetiche non si concludono in brevi spazi temporali, ma rappresentano un percorso stilistico prolungato nel tempo: ciò è testimoniato dalle numerose e successive edizioni che le caratterizzano. Le raccolte costituiscono cioè dei contenitori sempre aperti, che accolgono nel corso del tempo i vari prodotti poetici, a seconda delle loro caratteristiche. Lo stesso Pascoli era bel consapevole di ciò, tanto che pensò di contraddistinguere i diversi volumi delle sue opere con un motto tratto dai versi iniziali della IV Egloga di Virgilio(Sicelides Musae, paulo maiora canamus./ Non opmnes arbusta iuvant humilesque myricae). <br />
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<b></b> Pertanto le raccolte Myricae e Canti di Castelvecchio - ispirate al motivo georgico - recano il motto “Arbusta iuvant humilesque myricae”; PASCOLI DECADENTE<br />
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<b></b> i Primi e i Nuovi poemetti recano il motto “Paulo maiora”; <br />
<b></b> Odi e Inni “Canamus”; PASCOLI IDEOLOGICO - piccolo borhese<br />
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<b></b> i Poemi conviviali “Non omnes arbusta iuvant”. PASCOLI CLASSICISTA <br />
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<b>COMPONENTI CULTURALI IN PASCOLI</b><br />
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Il Classicismo, come modello di raffinatezza formale : il poeta fu un attento conoscitore della letteratura classica acquisita attraverso gli studi liceali e universitari (tesi di laurea sulla metrica del poeta greco Alceo) nonché della tradizione letteraria nazionale (Dante, Petrarca, Boccaccio, Tasso, Parini, Monti, Alfieri, Leopardi).<br />
Fu uno studioso e conoscitore, seppur modesto, delle letterature straniere da cui derivò la sua spiccata sensibilità decadente (fatta eccezione per Victor Hugo, Theophile Gautier, Edgar Allan Poe, Baudelaire, i romantici tedeschi, non abbiamo notizie di particolari contatti o sollecitazioni dalla cultura d’oltralpe). Altre rilevanti componenti sono il Positivismo e il Realismo, il Parnassianesimo, il Simbolismo.<br />
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TEMI DELLA POESIA PASCOLIANA<br />
<b> IL TEMA AGRESTE:</b> la realtà contadina è accuratamente descritta dal poeta in veri e propri dipinti poetici, quadretti di vita contadina ( l’aratura, la sfogliatura, il crocchio delle comari, la veglia serale) che procedono dalla descrizione esterna dei campi fino all’interno familiare. La realtà contadina è tanto più accuratamente descritta, quanto più Pascoli vi individua il luogo innocente e paradisiaco della propria infanzia, un mondo schietto, custode di saggezza atavica, di sentimenti autentici, di innocenti virtù. Da qui l’attenzione minuziosa del Pascoli per i dettagli paesaggistici che si ampliano di una suggestiva notazione fotografica, l’attenzione per i particolari anche minimi del mondo della campagna, con un raffinato gusto per il dettaglio che ha fatto parlare di “impressionismo” pascoliano. <br />
Sotto l’apparenza dell’idillio, del quadretto lirico di intonazione agreste, si muovono contenuti misteriosi e nascosti. Ecco che il mondo fenomenico, realisticamente e puntigliosamente descritto, si arricchisce in Pascoli di una potente carica simbolico – evocativa.<br />
Il motivo agreste ha dato vita a una poesia prettamente lirica e di ispirazione “umile”, dedicata alla realtà contadina, alla quotidianità agreste evocata già nel titolo della sua prima opera, Myricae(cioè tamerici, piccoli arbusti sempreverdi, sgraziati e assai diffusi) e poi ripresa e continuata idealmente nella raccolta I canti di Castelvecchio.<br />
<b>• Il motivo georgico </b>si esprime attraverso il TEMA DELLA NATURA: in Pascoli rivivono, in chiave simbolica, le incontaminate virtù del paesaggio della Garfagnana (dove il poeta visse dal 1895, in compagnia dell’ adorata sorella Maria) che si arricchisce di suggestioni simboliche e irrazionali (San Mauro di Romagna, custode di antichi e felici ricordi d’infanzia, Castelvecchio di Barga) <br />
<b>• PREVALENZA della MEMORIA,</b> del SOGNO, DEL SIMBOLO sulla realtà: ciò si realizza in Pascoli mediante la regressione inconscia del suo mondo psichico; si esprime attraverso la dimensione onirica e simbolica del RICORDO come della evocazione nostalgica del passato; il mito dell’infanzia come sogno di innocenti illusioni e di speranze di felicità.<br />
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<b>• VISIONE TRAGICA DEL MONDO</b> - TEMA DELLA MORTE E DEL DOLORE: la fuga dalla realtà, la regressione emotiva e psicologica dell’autore, il contrasto tra ideale/reale, il Simbolismo. Il sentimento della morte, che alimenta incessantemente la produzione artistica del Pascoli, in gran parte legato al trauma originario della morte del padre, si esprime mediante la descrizione di orfani, morti precoci di neonati, madri in lacrime. Il motivo funebre si fonde intimamente col TEMA AGRESTE e col tema della NATURA . La Natura si carica di un intrinseco e spiccato potere evocativo, di una accentuata valenza simbolica e diviene partecipe, attraverso dettagliati quadretti di vita rurale e domestica, del dolore immenso del poeta, del suo profondo disagio esistenziale. Paesaggio naturale e motivo funebre generano un Simbolismo fatto di descrizioni quotidiane, di segni appena percepibili, ma fortemente inquietanti che producono angoscia. Profondo legame tra vita psichica e vita cosmica: la natura magnanima e benevola, custode di un antico sogno di felicità, osserva con profonda commozione le sciagure umane, partecipa impotente alla disperazione del mondo “atomo opaco del male”.<br />
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<b>• IL TEMA DEL NIDO:</b> è il vero e proprio sottofondo psicologico non soltanto di Myricae e di Canti di Castelvecchio, ma di tutta la produzione letteraria del Pascoli. Il mito del nido, nel quale si organizzano il focolare domestico e il vincolo parentale , rappresenta un universo chiuso e protetto, un guscio protettivo riscaldato dall’affetto sincero e incondizionato dei cari. L’esaltazione costante che il pascoli fa del legame di sangue, conduce il poeta ad esaltare e a mitizzare un modello di società agraria e di tipo patriarcale, non contaminata dal progresso, né da ideologie utilitaristiche. Il Pascoli si fa nostalgico sostenitore di un modello di società antica, preindustriale, destinata, ad una lenta ed inesorabile dissoluzione, minacciata ormai dall’ombra della morte a causa della pressione della modernità urbana, che il poeta osserva con orrore e sgomento. Il nido, dunque, rappresenta un luogo psicologico protettivo, un rifugio ideale nel quale convivono il rimpianto di un eden antico (e ormai perduto) e la feroce ossessione dei legami con i familiari.<br />
IL TEMA DEL NIDO SI COLLEGA AD UN DESIDERIO DI REGRESSIONE INCONSCIA E DI FUGA DALLA REALTA’<br />
<b>• UMANITARISMO e NAZIONALISMO:</b> in Pascoli convivono una accentuata sensibilità decadente e una componente ideologica che portano il poeta ad esprimere la propria idea sociale improntata a un umanitarismo e ad una generica simpatica per le classi diseredate, i cui mali cesserebbero solo in una società contraddistinta dalla equa diffusione della piccola proprietà terriera.<br />
L’umanitarismo del Pascoli interpretava la visione sociale della piccola borghesia di provincia, saldamente legata ai valori della TERRA E DELLA FAMIGLIA.<br />
Accanto all’ideale umanitario, si sviluppa successivamente nel poeta anche un sentimento di entusiastica esaltazione patriottica. L’ambiente culturale italiano tra l’Ottocento e il Novecento è fortemente nutrito di spinte nazionalistiche e il Pascoli, ideologicamente fragile, non resta immune dal clima di generale ed entusiastica esaltazione patriottica. Ciò accade, in particolare, dagli inizi del 900, allorché nel 1905, dopo aver insegnato a Messina e a Pisa, il poeta succede nel 1905 a G. Carducci come docente di Letteratura italiana presso l’università di Bologna. Il nuovo ruolo accademico opprime il poeta di grandi responsabilità ufficiali: egli raccoglie dal grande predecessore l’eredità di poeta vate dell’Italia monarchica. <br />
Dunque, alla viglia della 1^ guerra mondiale in pascoli si registra un ulteriore, inevitabile, sviluppo del sua pensiero politico, una significativa involuzione ideologica: impressionato dalla minaccia dei conflitti generati dai contrapposti interessi delle nuove classi operaie e del capitalismo, egli passa da un atteggiamento umanitaristico di matrice socialista, vicino alle sofferenze degli umili e a un modello di società arcaica, ad un atteggiamento di adesione alla politica nazionalistica del tempo, in aperto sostegno della politica e della cultura imperialistica, sostenendo ad esempio, l’impresa coloniale dell’Italia ai tempi della guerra in Libia(1911-12). Basti pensare all’ultimo celebre Discorso ufficiale pronunciato dal poeta nel 1911 in onore dei morti e feriti italiani nella guerra contro i turchi per la conquista della Libia, “La grande proletaria si è mossa” (discorso ricco di enfasi oratoria, celebrazione della politica colonialista esaltazione della tradizione imperiale di Roma )<br />
L’involuzione ideologica del Pascoli, dal Socialismo al Populismo e al Nazionalismo non sarebbe rimasto un caso isolato. <br />
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Seguendo il complesso percorso artistico ed ideologico del Pascoli rileviamo una produzione poetica varia per stile e contenuti.<br />
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<b>• PASCOLI DECADENTE</b> (Decadentismo, Simbolismo, Naturalismo) → Myricae, Canti di Castelvecchio<br />
<b>• PASCOLI IDEOLOGICO: </b> POESIA ATTENTA ALLE TEMATICHE SOCIALI, DI ISPIRAZIONE UMANITARIA → i Poemetti (1897); Primi poemetti (1904); Nuovi Poemetti (1909) <br />
<b> POESIA CIVILE E PATRIOTTICA</b> → Odi e inni (1906); Canzoni di Re Enzio; i Poemi italici (1911) i Poemi del Risorgimento (1910-1912); Pensieri e Discorsi (1907)<br />
<b>• PASCOLI CLASSICISTA →</b> Poemi conviviali (1904)<br />
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<b>LINGUA E STILE IN PASCOLI</b><br />
Con Pascoli assistiamo al profondo sovvertimento della lingua poetica tradizionale; ciò si manifesta nella sua mirabile capacità di dar voce all’irrazionale e di gestire musicalmente le parole: sono queste le caratteristiche della poesia pascoliana che hanno agito durevolmente sulla tradizione lirica del Novecento. I più illustri critici di G.Pascoli - Renato Serra, G. Contini, Giacomo Debenedetti, Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini ) hanno evidenziato la carica innovativa della sua lingua poetica, collocando la produzione artistica del pascoli tra le più significative avanguardie artistico- letterarie del 900. Gianfranco Contini, in particolare, ha sottolineato<br />
<b>• IL POTERE EVOCATIVO DEL LINGUAGGIO ONOMATOPEICO</b> “AGRAMMATOCALE” O PREGRAMMATICALE, spesso usato accanto a termini tecnici e gergali con potenti effetti espressivi.<br />
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Lo Sperimentalismo linguistico si manifesta in Pascoli attraverso<br />
<b> IL FONOSIMBOLISMO: </b>organizzazione del suono in parole che richiamano alla mente immagini e sensazioni. Il Fonosimbolismo si realizza mediante lo strumento dell’ ONOMATOPEA: figura retorica per cui il suono della parola imita il suono dell’oggetto designato; i suoni delle parole possono dunque assumere significati evocativi autonomi, cioè possono significare di per sé, non solo in quanto si combinano a significare la parola. Es: “dlin…dlin” della bicicletta, “tri… tri” dei grilli; “cu… cu” del cuculo, il “chiù” dell’assiuolo.<br />
ANALOGIA: procedimento retorico forgiato dai più grandi poeti romantici che diventa la risorsa espressiva primaria dei Decadenti e dei Simbolisti. Consiste nella connessione fulminea tra due concetti o immagini, più rapida della similitudine e tutta fondata su uno scatto metaforico che conduce alla rapida sintesi di due elementi.<br />
ALLITTERAZIONE: figura retorica che consiste nella ripetizione degli stessi fonemi in due o più parole vicine.<br />
ASSONANZA: si ha quando due o più parole al termine del verso presentano le medesime vocali a partire da quella tonica.<br />
SINESTESIA: associazione espressiva di parole pertinenti a sfere sensoriali differenti.<br />
<b> LA PRECISIONE E NITIDEZZA LESSICALE : </b>uso di una lingua poetica nuova che abolisce i termini aulici della tradizione letteraria, perché ritenuti generici e vaghi, a favore di una sterminata nomenclatura specifica - uso di termini tecnici - per indicare con esattezza tecnica fiori, piante, animali, attrezzi da lavoro). Riscontriamo in ciò tracce della lezione del Positivismo e del Naturalismo.<br />
<b> L’IMPRESSIONISMO PASCOLIANO:</b> la precisione e la nitidezza lessicale SI TRADUCE in uno stile pittorico impressionistico, fatto di tocchi rapidi di denso cromatismo. Alcune delle più celebri liriche appaiono dei veri e propri quadretti descrittivi, vividi e accurati. La lirica “Patria” rappresenta uno dei culmini dell’impressionismo pascoliano. Così il poeta definisce le nuvole “bianche spennellate/in tutto il ciel turchino”. L’Impressionismo pascoliano è affidato a una rapida sequenza di immagini, a una successione di note visive accostate tra loro da un’interpunzione fitta, costituita prevalentemente da due punti e virgole, con un tocco rapido derivante dalla prevalenza di uno stile nominale “Siepi di melograno/ fratte di tamerice/ il palpito lontano/ d’una trebbiatrice / l’angelus argentino”.<br />
<b> PLURILINGUISMO→</b> USO DI TERMINI TECNICI E GERGALI, LATINISMI, VOCABOLI STRANIERI (vedi ad es. il poemetto Italy)<br />
<b> ESPRESSIONISMO LINGUISTICO:</b> il gusto del vocabolo preciso diventa in Pascoli una puntigliosa registrazione del parlato popolare che si introduce con forza espressiva nelle strutture della lingua poetica; contaminazione linguistica tra lingua poetica-modi linguistici tipici della Garfagnana .<br />
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Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-46735155189857105182016-02-25T22:56:00.005+01:002016-02-25T22:56:31.797+01:00DECADENTISMO (De Caprio-S.Giovanardi, I Testi della letteratura italiana)<br />
Il Decadentismo indica un importante fenomeno estetico letterario che, nato in Francia a partire dai primi anni Ottanta del secolo XIX ( in virtù del primato della cultura francese in questo periodo ) si diffuse in tutta l’Europa fin de siecle. Il Decadentismo indica, sul piano storico-culturale, la civiltà sorta dalla crisi del Positivismo<br />
L’origine del nome è denigratoria: la parola Decadentismo deriva da “decadent” termine usato in Francia con significato dispregiativo da alcuni critici polemici e ostili nei confronti di molti scrittori e artisti di nuova generazione che apparivano alla gente comune dissoluti e corrotti, sembravano cioè esprimere la decadenza morale dell’arte e della società. I giovani artisti decadenti, tra cui spiccano Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, Arthur Rimbaud, Tristan Corbiere, Moreas, Joris Karl Huysmans utilizzarono l’espressione con ostentazione, come vessillo di protesta contro la società borghese e la cultura ben pensante del tempo , richiamandola altresì nel titolo di una rivista “Le Décadent” pubblicata a partire dal 1886 per iniziativa di Anatole Baju.<br />
E’ probabile che sulla nascita del termine decadente abbia influito anche un sonetto di P.Verlaine “Languore” che comincia con il celebre verso “ Io sono l’impero alla fine della decadenza/ che guarda passare i grandi barbari bianchi/componendo acrostici indolenti dove danza/ il languore del sole, in uno stile d’oro””. Paul Verlaine identifica il proprio stato d’animo con una fase storica e culturale che ben lo identifica: la tarda età imperiale romana, espressione di una civiltà opulenta e raffinata, ma corrosa all’interno dal sopravanzante Cristianesimo e all’esterno dalle invasioni barbariche. La Roma del tempo non ha più né la forza militare, né la forza morale per opporsi al suo inesorabile declino, declino favorito dalla lenta ma inesorabile crisi dei valori etici che in età classica avevano reso Roma caput mundi.<br />
IL SONETTO DI VERLAINE COSTITUISCE IL MANIFESTO LIRICO DEL MOVIMENTO DECADENTE.<br />
Altra tappa fondamentale per seguire, in Francia, lo sviluppo della cultura decadente è la pubblicazione a partire dal 1883 di una antologia “Les poetes maudits” ( I poeti maledetti) curata da P. Verlaine. L’antologia conteneva scritti di Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, Arthur Rimbaud, Tristan Corbiere. <br />
Infine, nel 1884 Joris Karl Huysmans pubblica il celebre romanzo “A rebours” (A ritroso) il cui protagonista Des Esseints costituisce l’incarnazione dell’Estetismo decadente, inteso come culto di una bellezza raffinata ed elitaria, che pochi spiriti eletti riescono a cogliere e ad apprezzare. Des Esseints sintetizza in maniera maniacale l’odio per una cultura di massa, ubbidiente al principio di “utilità”, l’odio verso l’arrogante ascesa della borghesia capitalistica che ha sancito di fatto la vittoria del denaro, della produttività e della mentalità affaristica contro ogni principio di civiltà umana. La borghesia degli affari ha ormai scalzato irreversibilmente la vecchia aristocrazia e il clero attingendo “ tutti i loro difetti” e convertendoli in ipocriti vizi”. Des Esseints resta il simbolo dell’intellettuale otto-novecentesco perennemente deluso, solo, emarginato rispetto ad una società che più non rispecchia i propri ideali, ideali ai quali aveva attinto il movimento romantico risorgimentale, ideali che avevano approdato alla forza dilagante delle rivoluzioni europee del ‘48; una società che ha decretato nuovi paradigmi culturali e nuovi modelli di comportamento di natura materialistica ed economica, affidando al denaro, al progresso, all’industrializzazione selvaggia un primato assoluto e indiscusso. Des Esseints è il simbolo dell’intellettuale perennemente ( e fino ad oggi) in crisi a causa della marginalità nella quale la poesia, le arti e il pensiero sono relegati nell’epoca industriale. <br />
IL ROMANZO DI HUYSMANS COSTITUISCE UN ALTRO MANIFESTO DEL MOVIMENTO DECADENTE<br />
Il Decadentismo ebbe il suo centro di irradiazione in Francia, a partire dalle intuizioni presenti nell’opera di CHARLES BAUDELAIRE (1821-1868), grande precursore del Decadentismo e fondatore della lirica moderna.<br />
Un impulso decisivo alla nascita e allo sviluppo del D. derivò, inoltre, dalla lezione del PARNASSIANESIMO. Il movimento parnassiano, sorta di moderno classicismo letterario, dichiara il rifiuto del presente, identificato con il progresso, e del sentimentalismo romantico a vantaggio di un’impassibilità emotiva raggiunta attraverso il ritorno all’antichità classica; la liberta assoluta dell’arte, non condizionata dal criterio di utilità, tipicamente borghese: l’arte doveva risultare svincolata da interessi utilitaristici o politici, da impegni sociali o ideologici. Unico obiettivo del poeta parnassiano è quello di perseguire la Bellezza assoluta, raggiungibile attraverso la perfezione della forma metrica e stilistica. I Parnassiani riprendono la lezione di del poeta francese Theophile Gautier (1811-1872) che, già nel 1835, scagliandosi contro il principio utilitaristico dell’arte, aveva scritto. “Non c’è niente di più bello di ciò che non serve a nulla; tutto ciò che è utile è anche orribile”; Sua è la celebre formula dell’”Arte per l’Arte”, cioè il culto dell’arte come valore supremo, con una connotazione polemicamente antiborghese. I componimenti dei poeti parnassiani confluiscono in una antologia dal titolo “Il Parnaso contemporaneo” (1866) da cui la denominazione di “Poeti parnassiani”. Ne “Il Parnaso contemporaneo” troviamo infatti scritti dei giovani Verlaine e Mallarmé, nomi che tornano a congiungersi nel 1883, nella pubblicazione della prima serie dei Poeti maledetti.<br />
Anche CHARLES BAUDELAIRE accolse la lezione del Parnassianesimo. La sua più celebre opera “Fiori del male” (1857) si colloca nel pieno solco della sensibilità parnassiana: comuni appaiono il disprezzo per la banale quotidianità, il rigetto del sentimentalismo romantico, la cura ossessiva della forma. In B., tuttavia, il tema della fuga dalla realtà ( che nei Parnassiani si risolve nella evocazione dell’antichità classica) sfocia nella contemplazione dei cosiddetti “Paradisi artificiali”, cioè dell’evasione indotta dall’alcol o dalle droghe. La poesia di Baudelaire, padre del Decadentismo, esprime in pieno i motivi della sensibilità decadente: la consapevolezza della lenta, ma inesorabile decadenza della civiltà contemporanea, il disprezzo per il presente, la suggestione della malvagità, il gusto di tutto ciò che è al di fuori dei canoni della normalità, la suggestione dell’esotismo, la noia esistenziale (Spleen). Lo spleen, ovvero la noia esistenziale che sfocia spesso in angosciosa disperazione, diventa il tratto caratterizzante del poeta moderno, lo stato d’animo costante dello spirito elevato, secondo una linea di pensiero che risale a A. SCHOPENHAUER, il quale nel suo capolavoro “Il mondo come volontà e rappresentazione” (1819) aveva definito la noia quale condizione tipica dell’uomo moderno. La percezione dello spleen, e la necessità si spezzarne il cerchio, è una delle grandi eredità di Baudelaire a tutti i poeti successivi, i poeti maledetti: Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, Arthur Rimbaud, fino ai poeti del Novecento.<br />
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TEMI DELLA POESIA DECADENTE</b><br />
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<b> IRRAZIONALISMO- CRISI DEL POSITIVISMO- DIMITIZZAZIONE DEI VALORI RISORGIMENTALI (libertà, patria, progresso)</b><br />
Esasperazione del soggettivismo romantico → INDIVIDUALISMO ASSOLUTO, SOLIPSISMO<br />
SENSO DI SOLITUDINE ED EMARGINAZIONE DEL POETA NELLA SOCIETA’ AFFARISTICA E BORGHESE DI FINE SECOLO<br />
SENTIMENTO DELLA NOIA ESISTENZIALE E FUGA DAL CONFORMISMO BORGHESE ATTRAVERSO ESPERIENZE ESTREME: non si accetta la prosaicità del vivere<br />
CRTICA AL CONCETTO DI “UTILE” - ARTE PRIVA DI FINALITA’ ETICO-CIVILI, COMUNICATIVE, DIDASCALICHE : L’ARTE PER L’ARTE (Theophile Gautier)<br />
ARTE INTESA COME RAFFINATO CULTO DELLA BELLEZZA ASSOLUTA → ESTETISMO<br />
IDENTIFICAZIONE ARTE=VITA; Se nel Romanticismo la vita era travasata nell’arte, nel Decadentismo (ma anche nella Scapigliatura) arte e vita coincidono. L’ESTETISMO RAPPRESENTA L’ASPIRAZIONE AD UNA SINTESI SUBLIME TRA ARTE E VITA<br />
COMPLEMENTARIETA’ TRA LE VARIE MANIFESTAZIONI ARTISTICHE : LETTERATURA (in particolare la Poesia) - ARTE- MUSICA; Predilezione per le fasi storiche di decadenza culturale: età alessandrina, autori latini tardo-imperiali, età barocca<br />
ARTE COME DECIFRAZIONE DI SIMBOLI ED EVOCAZIONE DI UNA REALTA’ OSCURA, CHE SFUGGE A RAZIONALI CLASSIFICAZIONI e che pochi spiriti eletti riescono a comprendere.<br />
CONCEZIONE DEL POETA “VEGGENTE”(secondo la definizione di Rimabaud), IN GRADO DI COGLIERE LE SEGRETE RELAZIONI FRA LE COSE E DI SCAVARE NELL’INCONSCIO.<br />
(INCONSCIO-ES: SFERA PIU’ PROFONDA DELLA PSICHE DOMINATA DA PULSIONI PRIMARIE –autoconservazione, riproduzione- CHE TROVANO LIBERO SFOGO NELLE FUGHE ONIRICHE, NELLA FANTASIA, NELL’ESPRESSIONE ARTISTICA).<br />
L’intellettuale decadente, accogliendo i nuovi orientamenti scientifici in ambito neurologico (vedi la nascita della Psicanalisi con Freud), è consapevole che l’uomo moderno non è padrone assoluto della propria natura, del proprio IO, ma è in parte schiavo di pulsioni incoercibili e insopprimibili ( le pulsioni primarie dell’ES), solo parzialmente filtrate dal SUPER-IO.<br />
IL POETA VEGGENTE SI ESPRIME MEDIANTE UN’ARTE SIMBOLISTA<br />
STILE<br />
Ampia utilizzazione DELL’ANALOGIA, DELLA SINESTESIA, DELLA METAFORA<br />
Rifiuto del discorso logico (il discorso fondato sulle categorie logiche tradizionali: spazio-tempo-causalità) a favore di un’arte che proceda per libere associazioni analogiche, che risponda solo alla logica stravolta del DELIRIO o della VISIONE ONIRICA<br />
Linguaggio fortemente evocativo, denso di simboli e di immagini ambigue.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-78113423434923992862016-01-08T20:11:00.000+01:002016-01-08T20:11:47.566+01:00IL VERISMO : GIOVANNI VERGA, LUIGI CAPUANA (V.De Caprio-S.Giovannardi, I testi della letteratura italiana, L'Ottocento)<br />
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Dopo il <b>1870</b> <b>Luigi Capuana </b>dà vita a Milano, insieme a <b>Giovanni Verga (1840-1922) </b>al movimento verista, che si prefigge di riproporre in Italia la poetica del Naturalismo francese. Il movimento verista nasce nella seconda metà degli anni settanta a Milano, città che era divenuta, grazie al rapido sviluppo industriale, uno dei centri culturali più vivi e ricettivi della nazione, come dimostrava il recente fenomeno della Scapigliatura. L’evento decisivo è l’uscita nel <b>1877 del romanzo L’Ammazzatoio di Emile Zola,</b> subito recensito da Luigi Capuana sul “Corriere della Sera”. Di lì a pochi mesi Luigi Capuana, insieme all’amico catanese Giovanni Verga, allo scapigliato Roberto Sacchetti e a Felice Cameroni, decidono di tentare anche in Italia una poetica ispirata ai principi del Naturalismo.<br />
<b> La poetica del Verismo si fonda taluni principi fondamentali:</b><br />
<b>L’ARTE COME INVESTIGAZIONE SCIENTIFICA DELLA REALTÀ SOCIALE </b><br />
<b>IL ROMANZO DIVIENE UN “DOCUMENTO UMANO”</b> : Il romanzo come genere letterario che fotografa, con spietato realismo, i comportamenti individuali e sociali. <br />
Il fattore ereditario e l’ambiente sociale come fattori condizionanti della vita dell’uomo. Alla luce di queste teorie anche i fenomeni psichici rientrano, come tutti i fenomeni biologici, nelle leggi del “Determinismo scientifico” che impone una spietata lotta per la sopravvivenza.<br />
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<b>CANONE DELL’IMPERSONALITA’. ECLISSI DEL NARRATORE.</b><br />
(NARRATORE ESTERNO- FOCALIZZAZIONE ESTERNA/ FOCALIZZAZIONE INTERNA VARIABILE) <i>“..la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé” </i>(Prefazione de “L’amante di Gramigna”, di G. Verga, da "Vita dei campi" , 1880). La focalizzazione interna si manifesta soprattutto nella presenza del “Narratore popolare”: il narratore assume il punto di vista dei vari personaggi della vicenda, di cui riporta pensieri, espressioni tipiche del parlato quotidiano, proverbi ed espressioni gergali (“In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina bona”) , similitudini e metafore tratte dal mondo contadino. Tra gli artifici a disposizione del Narratore popolare, ricordiamo l’uso sistematico del “Discorso diretto libero” ( Il narratore riporta i pensieri o le espressioni tipiche dei personaggi senza introdurli attraverso verbi dichiarativi ( “Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo”= Rosso Malpelo diceva che egli invece era stato sano e robusto…) <br />
<b>LA MIMESI LINGUISTICA – REGRESSIONE LINGUISTICA DEL NARRATORE: </b> l’arte del Naturalismo francese, e successivamente del Verismo , cerca di adattare la lingua della narrazione alla realtà popolare rappresentata, mediante la tecnica del “Discorso indiretto libero” e mediante il calco del gergo tipico delle desolate campagne siciliane nella seconda metà dell’Ottocento. La mimesi del linguaggio, ottenuta attraverso l’acquisizione dei tratti stilistici del parlato quotidiano, si realizza nella presenza di squarci dialettali, di espressioni proverbiali in dialetto siciliano. Nei romanzi veristi è evidente la ripresa di strutture sintattiche e di espressioni tipiche del linguaggio parlato, come per esempio l’ uso pleonastico del pronome; l’uso di forme pronominali dialettali (ste belle notizie), la ripetizione enfatica (voleva trargli fuori le budella dalla pancia, voleva trargli).<br />
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IL VERISMO, tuttavia, sin dal suo sorgere presenta differenze sostanziali rispetto al Naturalismo francese. <br />
La prima sostanziale differenza risiede nel metodo di rappresentazione della realtà. Il metodo d’indagine verista non è più tanto quello fotografico, bensì quello dell’osservazione, dell’introspezione psicologica: il personaggio verista vive di luce propria, e lo scrittore alimenta questa luce attraverso il metodo conoscitivo legato ai particolari della realtà.<br />
<b>Nel rapporto ESSERE UMANO –NATURA prevale sempre l’essere umano.</b> Quest’ultimo è analizzato costantemente nei suoi rapporti con le strutture sociali, ma l’oggetto vero di indagine letteraria resta pur sempre l’uomo (vedi Realismo romantico), non più inteso come soggetto patologico, bensì come creatura umana, analizzata nono soltanto negli aspetti concreti, ma anche nei risvolti morali e psicologici. <br />
Nel Naturalismo è la Natura che sovrasta il mondo ed è causa determinante anche dei valori morali dell’uomo (responsabilità morale della natura); nel Verismo, invece, emerge sempre la figura dell’uomo, in cui lo scrittore si perde del tutto. <br />
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<b>METODO FOTOGRAFICO INDAGINE PSICOLOGICA<br />
SOGGETTO PATOLOGICO ESSERE UMANO<br />
UOMO – NATURA UOMO - NATURA<br />
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<b> L’arte verista resta comunque un’arte impersonale poiché lo scrittore verista non deve dimostrare attraverso il suo personaggio delle particolari verità o tesi, sono i personaggi che intessono essi stessi il racconto e vivono di luce propria : “l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé” (Prefazione <i>“L’amante di Gramigna”)</i><br />
</b> <b> I PERSONAGGI </b>dell’opera verista non sono consapevoli della realtà in cui essi si trovano ad agire, non ne comprendono in pieno la matrice storica, politica e sociale. Essi sono immersi nella secolare immobilità culturale e sociale della Sicilia borbonica , ancorati saldamente ad un arcaico codice di valori tradizionali che regolava i rapporti interpersonali e sul quale si fondava la sacra etica familiare. I personaggi dei racconti e dei romanzi veristi sono umili contadini, pescatori, minatori, prostitute, carrettieri, briganti, pastori, personaggi emarginati dalla comunità; tutti destinati a soccombere in una società regolata dal principio darwiniano della “lotta per la sopravvivenza”; la maggior parte di essi appaiono rassegnati all’accettazione del loro status e del pregiudizio popolare con atteggiamento disincantato, nella pessimistica consapevolezza dell’inesorabilità delle leggi di natura ( nessuno può sfuggire al proprio destino). All’ottica idealizzata e ottimistica, alla visione provvidenzialistica che aleggia nei Promessi Sposi, si sostituisce una visione profondamente pessimistica e disincantata della realtà umana, fatta di sofferenze e prevaricazioni, alla quale nessuno può sfuggire. <b> IL PESSIMISMO DI VERGA</b> (espresso pienamente nei romanzi del ciclo dei "vinti" : <b>I Malavoglia 1881, Mastro Don Gesualdo 1889<i></i></b>) risiede nell’accettazione fatalistica della realtà ostile, che nulla vale a mutare o a consolare.<br />
Se gli umili del Manzoni rappresentavano una realtà inevitabilmente deformata e idealizzata dall’ottica onnisciente del narratore borghese, nutrivano fede in Dio, fonte di speranza in un futuro di giustizia e di riscatto morale; apparivano rassegnati, e allo stesso tempo fiduciosi nell’intervento provvidenzialistico divino, gli umili di Verga accettano fatalmente e con rassegnazione eroica e disincantata il loro destino di miseria e di emarginazione, e qualora tentano di risalire la scala sociale alla ricerca del successo e del benessere, rimangono vittima di una sorte avversa e ostile. Nei personaggi di Verga vi è la rassegnazione fatalistica, aliena da ogni sentimento di conforto che possa scaturire dalla fede in Dio.<br />
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<b>TEMI E CONTENUTI DELLE OPERE DEL VERGA</b><br />
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<b>- LA LOTTA “DARWINIANA” PER LA SOPRAVVIVENZA </b><br />
<b>- IL MITO DEL SUCCESSO ECONOMICO – LA LOGICA ECONOMICA</b> che prevale necessariamente sugli affetti familiari. Il tema della “roba”.<br />
<b>- LA RELIGIONE DELLA FAMIGLIA</b><br />
Il personaggio verghiano è legato alla terra nel senso della conservazione dei valori della tradizione: egli mostra un tenace attaccamento alla terra d’origine – la Sicilia - nonostante essa appaia teatro di miserie e di immobilismo sociale, modello di rassegnazione ad un destino di esclusione e sconfitta. Tale attaccamento, morboso e conflittuale, si manifesta nella rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti e di soprusi. La “terra” è presente attraverso un ampio bagaglio di simboli e metafore tratte dall’universo contadino. La Sicilia che emerge nei racconti di verga è quella rurale e arretrata della seconda metà dell’ottocento, con il suo immobilismo culturale, con il suo codice di valori arcaici sul quale si fondava l’etica familiare e i rapporti interpersonali. Le novelle e i romanzi veristi sono tutti ambientati in Sicilia, una terra che diviene l’emblema di una irriducibile diversità, il simbolo del fallimento degli ideali nazionali, fino a farsi metafora, con i suoi paradossi , della sconfitta in cui incorre costantemente la ragione umana allorché confida in false illusioni e falsi miti. (Concezione pessimistica del Progresso e dei rapporti umani).<br />
<b>L’AMORE </b>inteso come puro istinto sessuale che travolge ogni valore morale; l’eros come degradazione a livello ferino. L’assimilazione allo stato bestiale dell’amore è sostenuta da frequenti similitudini, metafore e proverbi che rimandano simbolicamente alla civiltà contadina .<br />
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<b>LA DISTORSIONE DEI VALORI, IL RELATIVISMO DEI VALORI</b> rappresentato mediante l’artificio dello “straniamento”, dove cioè i giudizi della comunità, palesemente distorti o infondati ,vengono presentati come del tutto oggettivi e normali (Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non costavano nulla”)<br />
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LUCI ED OMBRE DEL PROGRESSO – MATERIALISMO E PESSIMISMO- MORTE COME UNICO RIMEDIO AL MALE: Verga assume un atteggiamento critico rispetto alla nozione positivista di progresso, cioè l’idea, propria della cultura del tempo, di un graduale miglioramento delle condizioni materiali e spirituali dell’intera umanità. Verga non nega questa questa convinzione, ma sottolinea come le grandi conquiste collettive facciano passare sotto silenzio le miserie e le nefandezze, le ipocrisie e gli egoismi individuali che al progresso si accompagnano: “Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguarsi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono;” (Prefazione de “I Malavoglia”). Emerge così in modo netto come il materialismo verghiano sia legato ad una concezione fortemente pessimistica della realtà. L’autore riconduce ogni azione umana a desideri e ambizioni di natura egoistica, escludendo così di fatto che gli uomini possano essere mossi da aspirazioni moralmente elevate.<br />
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Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-13582319415903232912016-01-08T19:59:00.000+01:002016-01-08T19:59:52.697+01:00REALISMO E NATURALISMO NELLA CULTURA EUROPEA (V.De Caprio- S.Giovanardi, I testi della letteratura italiana, L'Ottocento)<br />
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Dare una definizione di “realismo” non è operazione semplice, a causa della molteplicità di accezioni che questo concetto implica. IN SENSO PROPRIAMENTE LETTERARIO ogni opera narrativa o poetica che dimostri la volontà dell’autore di descrivere e rappresentare elementi propri della vita reale ha in sé caratteri di realismo. In questa direzione si è mossa la ricerca del filologo e critico letterario tedesco <b>Erich Auerbach (1892 –1957), </b>che in una sua celebre raccolta di saggi dal titolo <i>Mimesis</i> – Il realismo nella letteratura occidentale ha individuato i segni di un atteggiamento “realista” in opere di genere ed epoche assai differenti. Se è vero che tali segni nella letteratura sono sempre stati presenti, prendiamo come caso emblematico il realismo dantesco nella Commedia, è però altrettanto vero che soltanto a partire dalla prima metà dell’Ottocento si è affermata in Europa una corrente narrativa coerentemente realista, impegnata in una sorta di analisi- rispecchiamento del panorama sociale. Nel corso del XIX sec., l’esigenza di realismo, favorita da particolari condizioni politiche e culturali (i sommovimenti suscitati in Europa dalla rivoluzione francese e, sul piano culturale, dalla rivoluzione romantica), si lega soprattutto alla diffusione del ROMANZO, come genere letterario di più largo consumo, che intende proporsi quale affresco della realtà contemporanea. NEL CORSO DELL’OTTOCENTO <b>IL ROMANZO SI RIVELA COME LA FORMA PIÙ ADATTA A COGLIERE LA REALTÀ UMANA E SOCIALE IN TUTTA LA SUA PIENEZZA E VARIETÀ; IL ROMANZO, PIÙ DI OGNI ALTRO GENERE LETTERARIO, SI PRESTA A RAFFIGURARE LA MULTIFORMITÀ DEL REALE. <br />
</b>Nei decenni a cavallo tra Settecento e Ottocento il sovvertimento di monarchie secolari, lo sconvolgimento di un ordinamento sociale rimasto sostanzialmente immutato dal Medioevo, il mutamento repentino delle condizioni di vita di intere masse di individui impongono di riconsiderare la condizione dell’uomo alla luce di parametri culturali nuovi e più ampi. Mentre l’illuminismo aveva nutrito la convinzione che la natura e la ragione umana non fossero soggette a un perenne divenire, nel corso dell’Ottocento si fa invece strada l’idea che L’UOMO SIA IL PRODOTTO DELLA STORIA COLLETTIVA e che anche nel presente egli sia sottoposto a modificazioni continue. Sul piano letterario questa CONCEZIONE STORICISTICA ha un’importanza straordinaria. Infatti ogni personaggio non può più essere definito attraverso statiche caratterizzazioni morali o psicologiche, ma va presentato come entità che subisce i condizionamenti di una sfera sociale e un’epoca precise. La sua personalità e l’idea che egli ha di sé devono trovare giustificazione nel contesto in cui egli è costretto ad agire, e l’ambiente storico sociale che lo circonda va quindi descritto in modo ampio e ben documentato. La capacità di comprendere e di ricostruire la “realtà, in una parola il “realismo” diviene quindi un fattore indispensabile per l’elaborazione di un testo narrativo. Questa nuova forma di impostare e sviluppare il racconto, trova nel romanzo il suo esito più congeniale.<br />
<b> In Francia</b> l’esigenza di realismo in letteratura si afferma più palesemente dopo la caduta di Napoleone, e raggiunge livelli assai elevati in scrittori quali <b>Stendhal </b>(pseudonimo di Henry Beyle, 1783-1842), <b>Honoré de Balzac </b>( 1779-1850), <b> Gustave Flaubert </b>(1821-1880); sulle opere di questi grandi maestri del Realismo, si innesta la tradizione del romanzo naturalista che raggiunge la sua piena maturazione in scrittori come i fratelli <b>Edmond (1822-1896 ) e Jules Goncourt </b>( 1839-1870), <b>Emile Zola </b>(1840-1902), <b>Guy de Maupassant </b>(1850-1893), ritenuti i più significativi maestri del movimento letterario noto come NATURALISMO. <br />
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<b>Il NATURALISMO,</b> sviluppatosi in Francia nell’ultimo trentennio dell’Ottocento, rappresenta l’espressione letteraria della cultura del <b>POSITIVISMO,</b> che svolge un ruolo di primo piano nell’Europa della seconda metà del secolo. <br />
Il Positivismo ha le sue origini nella Francia dell’età di Luigi Filippo (1830-1848), diviene nella seconda metà del secolo la filosofia egemone in Europa: sostiene la necessità di ricercare leggi oggettive in tutti i campi del sapere, utilizzando i metodi delle scienze positive, fondate su dati reali, tangibili, empiricamente osservabili, e su verifiche certe. Il Positivismo fu innanzitutto un indirizzo filosofico che giudicava la conoscenza scientifica e il metodo di ricerca analitico-sperimentale come i soli strumenti validi per giungere ad una esaustiva interpretazione della realtà. Presto il Positivismo viene esteso ad ogni ambito disciplinare, dall’arte all’economia, alla politica, comprese le scienze umane, e finisce per influenzare direttamente anche la letteratura e la critica letteraria. Sorgono e si sviluppano nuovi campi disciplinari, come la sociologia, l‘etnografia e l’etnologia, poiché anche la società viene analizzata e descritta secondo il metodo sperimentale. <br />
Teorici del Positivismo furono il filosofo e sociologo francese <b>Auguste Comte (1798 –1857; </b>discepolo di Henri de Saint-Simon, è generalmente considerato l'iniziatore del Positivismo: « L'Amour pour principe et l'Ordre pour base; le Progrès pour but »: “L'Amore per principio e l'Ordine per fondamento; il Progresso per fine » Auguste Comte, Sistema di politica positiva) e il filosofo inglese <b>Herbert Spencer (1820-1903). </b>Quest’ultimo fu primo a tracciare i lineamenti di una “scienza della società”, ossia della moderna sociologia. Grazie alla scoperte scientifiche e mediche, cambia anche la visione del mondo: l’essere umano appare sempre più come una macchina “conoscibile” e “indagabile”, non soltanto nei suoi aspetti clinici, ma anche in quelli psicologici. In pieno clima positivista si colloca la teoria evoluzionistica del naturalista inglese <b>Charles Darwin (1809-1882), </b>che nel 1859 pubblica un’opera dal titolo “L’origine della specie” (1859); in questo saggio Darwin formulò, sulla base di lunghe osservazioni scientifiche condotte sul mondo animale, una compiuta teoria dell’evoluzione degli esseri viventi, basata sul principio della selezione naturale e della lotta per la sopravvivenza. Sebbene il principio della selezione naturale poteva prestarsi, come di fatto accadde, ad una interpretazione pessimistica delle dinamiche sociali (nei rapporti tra gli individui e fra le classi) determinate e regolate dalla legge del più forte, le teorie darwiniane apparvero, allora, come la garanzia ottimistica di un progresso indefinito della specie umana. Ben presto le teorie di Darwin vengono applicate da Herbert Spencer alla società umana. Secondo Spencer anche la società è oggetto di un processo evolutivo che ne determina le trasformazioni interne(riguardanti la struttura gerarchica, l’economia, il lavoro) e che implica una lotta per la sopravvivenza e una necessaria selezione di cui sono vittima gli individui più deboli, ovvero quelli appartenenti agli starti sociali più bassi.<br />
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Il primo ad estendere le concezioni del Positivismo e dell’evoluzionismo darwiniano alla letteratura è il critico inglese <b>Taine (1828-1893), </b>che è anche il primo a utilizzare in un suo libro su Balzac del 1858 l’aggettivo “naturalista”. Nella prefazione alla sua "Storia della letteratura inglese" (1863), Taine attribuisce alla letteratura il compito di indagare scientificamente la realtà sociale, mediante l’esame dei tre fattori che, a suo giudizio, determinano il comportamento e la psicologia umana: il fattore ereditario, l’ambiente sociale, il momento storico. Il destino dell’uomo viene ad essere il risultato dell’interazione tra questi tre fattori: “il vizio e la virtù- osservava Taine – non sono che dei prodotti, come lo zucchero e il vetriolo”.<br />
<b>L’opera letteraria, in particolare il romanzo, diviene così un documento scientifico: </b>un’indagine condotta con metodo distaccato e rigoroso sulla società umana. Lo scrittore naturalista deve riprodurre la realtà in modo oggetivo, senza alcun compiacimento estetico, evidenziando le componenti storiche, ambientali, sociali che, secondo la lezione del Taine, determinano le azioni umane.<br />
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SUL PIANO STORICO-POLITICO, il Positivismo fu, nella seconda meta dell’Ottocento, l’ideologia tipica della Borghesia in ascesa. Esso fu assunto come base culturale del progressismo democratico e concorse - in parte- alla formazione della ideologia socialista. In Italia furono positivisti grandi studiosi di scienze sociali, come Cesare Lombroso (1835-1909), ma anche molti filologi e storici, come Pasquale Villari ( 1826-1917). Nelle sue diverse espressioni, il POSITIVISMO contribuì potentemente ad alimentare la fiducia nel progresso dell’umanità e a sostenere la convinzione di poter controllare, grazie alla scienza, il corso della natura e degli stessi processi sociali. Questo diffuso ottimismo poggiava, particolarmente, su due fenomeni storico sociali: lo sviluppo economico successivo agli anni 1946-47, e le recenti conquiste della scienza.<br />
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<b>INDUSTRIA E SCIENZA</b> - In tutta l’Europa più progredita l’industria promuove la ricerca scientifica e, nello stesso tempo, le scoperte scientifiche e le loro applicazioni in ambito tecnologico fanno avanzare le industrie. <br />
I risultati più consistenti si ebbero proprio nel settore della produzione industriale che , fra il 1850 e il 1873, fece registrare un incremento rilevante che avvantaggiò, in particolare, le nuove potenze industriali: la Francia del Secondo Impero e la Germania, consentendo loro di ridurre il divario che le separava dalla Gran Bretagna. Lo sviluppo industriale si fondò essenzialmente sull’espansione dei settori siderurgico e meccanico. Per i Paesi di più recente industrializzazione furono questi settori a svolgere il ruolo trainante che in Inghilterra era stato proprio dell’industria tessile. Si trattò di uno sviluppo imponente sia dal punto di vista quantitativo (l’industria siderurgica tedesca crebbe per tutto il ventennio 1850-70 ad un tasso medio annuo del 10°/.), sia dal punto di vista qualitativo, reso possibile da alcuni fattori particolari.<br />
Tra questi non possiamo non far riferimento in primo luogo alla diffusione di macchine tecnologicamente avanzate: la macchina a vapore che si sostituì definitivamente alla ruota idraulica, i filatoi e i telai meccanici che soppiantarono gradualmente quelli manuali, il combustibile minerale (carbon coke) che si sostituì sempre più a quello di legna; non meno importante la maggiore disponibilità di materie prime (minerali ferrosi e soprattutto il carbon coke) conseguente alla scoperta e allo sfruttamento di nuovi giacimenti minerari nell’Europa continentale ( Pas de Calais in Francia, il bacino della Ruhr in Germania); la rimozione di antichi vincoli giuridici che ostacolavano le attività economiche (ordinamenti corporativi, leggi che proibivano il prestito ad interesse, condanne per debiti o per fallimenti; si diffuse sempre più l’uso della carta moneta e degli assegni); il trionfo del libero scambio, con lo smantellamento delle numerose barriere che si frapponevano alla libera circolazione delle merci: imposte sul traffico delle vie d’acqua, dazi interni e soprattutto di entrata e di uscita ai confini fra gli Stati. Una fitta rete di trattati commerciali finalizzati ad una congrua riduzione delle tariffe doganali, fu stretta tra le principali potenze europee, Russia compresa. Il libero scambio favorì in primo luogo la Gran Bretagna che, grazie alla sua collaudata struttura industriale, poteva offrire i suoi prodotti a prezzi competitivi; ma finì col giovare anche agli altri Paesi europei, poiché provocando la scomparsa delle imprese meno attrezzate per sostenere la concorrenza, favorì, in generale, la modernizzazione dell’apparato produttivo.<br />
I costi crescenti degli impianti industriali e l’accresciuta concorrenza diedero un forte impulso alla tendenza verso l’aumento delle dimensioni delle imprese e verso le concentrazioni aziendali. Si moltiplicarono, così, le Società per azioni, che consentivano agli imprenditori di ridurre il rischio negli investimenti e di sopperire al bisogno di capitale . L’eccesso di fiducia nelle capacità espansive del mercato fu all’origine di due crisi scoppiate nel 1857-58 e nel 1866-67, che interruppero momentaneamente il corso positivo dell’economia mondiale. <br />
Alcune importanti invenzioni modificano la percezione dello spazio e del tempo. Tra queste, la rivoluzione dei trasporti e dei mezzi di comunicazione. Grazie all’espansione della ferrovia, il treno, realizzato agli inizi dell’Ottocento, accelera e intensifica gli spostamenti, diventando un simbolo di progresso: all’inizio del 1850 esistevano in tutto il mondo circa 40.000 ferrovie; dieci anni dopo, l’estensione della rete ferroviaria era quasi triplicata, con 110.000 Km, di cui più della metà nel Nord America; nel 1854 fu inaugurata la prima linea transalpina, la Vienna-Trieste. Rilevanti progressi si registrarono anche nell’ambito della navigazione a vapore ; infine, l’invenzione del telegrafo (1844) e, successivamente, quella del telefono (1871) consentono di comunicare in tempo reale da luoghi tra loro remoti. La scienza diventa un mito: si pensa che un destino di inarrestabile progresso attenda l’umanità.<br />
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Questi nuovi fermenti si traducono, in <b>AMBITO LETTERARIO, nel movimento noto come NATURALISMO</b>, che cercò di applicare in letteratura le vie “scientifiche” affermate dal Positivismo e dal darwinismo.<br />
In Italia il Naturalismo inizia diffondersi a partire dalla metà del 1870, grazie ad una serie di articoli del critico <b>Felice Cameroni (1844-1913) </b>e dello scrittore <b>Luigi Capuana (1839-1915) </b>che nel 1877 recensisce il romanzo di <b>Emile Zola (1840-1902)</b>, L’ammazzatoio e due anni dopo dedica allo scrittore francese il suo romanzo Giacinta. Proprio in questi anni (dopo il 1870) Luigi Capuana dà vita a Milano, insieme a Giovanni Verga (1804-1922) al <b>movimento verista</b>, che si prefigge di riproporre in Italia la poetica naturalista. <br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-56653916389564635902015-12-02T22:02:00.002+01:002015-12-02T22:02:43.787+01:00 G.Leopardi, LA GINESTRA o IL FIORE DEL DESERTO (1836). Bibliografia: V. De Caprio - S.Giovanardi, I testi della letteratura italiana, L'ottocento.<br />
Composto nel 1836 a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, dove il poeta era ospite di parenti dell’amico Ranieri, il canto è tradizionalmente considerato il testamento spirituale del poeta, che gli attribuisce il valore di un’ideale conclusione della sua lunga e travagliata ricerca: è lo stesso Leopardi che chiede esplicitamente a Ranieri di collocare la composizione come ultimo dei Canti nella edizione definitiva. Riprendendo il filo tematico e metaforico del “deserto”, già presente nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e poi approfondito in <i>“Amore e morte”</i> (seconda lirica del “Ciclo di Aspasia”), il poeta costruisce una lunga e complessa allegoria a partire dalla ginestra, “fiore del deserto”. Se in “Amore e morte”, senza la presenza fisica dell’amata, l’esistenza umana si trasforma in un arido deserto, qui la semplice e umile ginestra simboleggia la vita che sa resistere stoicamente all’inospitalità dell’ambiente, negazione di ogni vita, e diviene metafora del poeta stesso.<br />
La sua inusitata ampiezza (317versi), il confluire in esso di tutti gli elementi della visione del mondo elaborata da Leopardi nell'ultima fase della sua esistenza (1824-37), la solennità dell'andamento stilistico, la stessa epigrafe tratta dal vangelo di Giovanni, sembrano conferire al canto l'aspetto definitivo ed estremo di quella “Lettera a un giovane del ventesimo secolo” che il poeta progettava fin dal 1827 e che non scrisse mai.<br />
L’occasione della poesia è offerta dalla viva impressione suscitata in Leopardi dalla fioritura della ginestra sulle pendici del Vesuvio. Il fragile fiore, sbocciato sulla lava che nel 79 d. C. distrusse Pompei, Ercolano e Stabia, è polemicamente contrapposto allo sciocco orgoglio degli uomini dell’Ottocento (<i>“secol superbo e sciocco”</i>) e alla loro ridicola, nonché ingenua illusione di ritenersi padroni dell'universo, mentre basta un improvviso movimento tellurico per distruggere, in un attimo, un’intera civiltà. Di qui la polemica contro l'idealismo progressista (già espressa nella <i>Palinodia al marchese Gino Capponi</i> e ne <i>I nuovi credenti</i>, opere composte tra il 1835 e il 1836): in nome di una cieca e ottusa fiducia nella centralità dell'uomo (Antropocentrismo) e nella perfettibilità dell'universo, il secolo XIX avrebbe voltato le spalle alla linea di pensiero che dal Rinascimento aveva condotto alle conquiste civili del secolo dei lumi (la civiltà contemporanea è descritta sarcasticamente come trionfo dell’oscurantismo per i falsi miti del progresso e della religione) . Al contrario, il genere umano dovrebbe prendere coscienza della propria fragilità, dell'infima consistenza di quel granello di sabbia che è la Terra in confronto all'immensità dell'universo, e unire tutte le sue forze contro la Natura “matrigna”, ostile e indifferente, impegnata in un ciclo perenne di autoperpetuazione. Solo da una loro partecipe solidarietà nella sconfitta, gli uomini potranno creare ordinamenti civili, finalmente giusti. L’ impressionante rievocazione dell'eruzione vulcanica mira a confermare la miseria della condizione umana: ecco allora l'apprensione del viandante che scruta la vetta fumante de Vesuvio, e il panico della gente che, non appena sente gorgogliare l'acqua nel pozzo, afferra frettolosamente le proprie cose e fugge lontano per sottrarsi all'empia furia della natura eternamente rigogliosa e incurante delle misere fatiche degli uomini. Se la tenera ginestra, conclude il poeta, soccomberà prima o poi dinanzi alla forza del vulcano, lo farà secondo un destino naturale, altrettanto naturalmente accettato, senza servili sottomissioni, ma anche senza orgoglio di chi si giudica immortale, riponendo un’ingenua ed eccessiva fiducia nel progresso.<br />
Il quadro delle problematiche disegnate dal canto ha dato adito alle più svariate interpretazioni e ai giudizi critici più contrastanti: svalutato da <b>Benedetto Croce</b>, in quanto prevalentemente “non poetico” per le ampie manifestazioni di “pensiero” che ne inficerebbero la purezza lirica, fu poi usato da<b> Cesare Luporini</b> nel saggio <i>“Leopardi progressivo” (1947)</i> come prova del progressismo del poeta, che avrebbe preconizzato una sorta di confederazione degli umili come unico possibile futuro per le istituzioni civili e pubbliche dell'umanità. In realtà, se anche vi si può cogliere qualche slancio di utopismo neoilluministico, Leopardi combatte, nella Ginestra, la pretesa umanistica di stabilire valori positivi per l’esistenza umana e per il suo destino sociale: l'errore del secolo XIX è consistito nel non tener conto dell'operazione distruttiva compiuta dall' Illuminismo delle verità negative che da quella scuola di pensiero sono emerse, mentre l’ “arido vero” rimane pur sempre l'assoluta e incontrovertibile verità della condizione umana.<br />
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Leopardi esprime, infine, l’appassionata difesa di una civiltà fondata sulla ragione come strumento interpretativo della realtà , e volta a perseguire l’unico progresso che cont, quello di una convivenza civile basata sulla giustizia e sulla solidarietà tra gli esseri umani. La poesia fu pubblicata nell'edizione postuma dei canti curata da Antonio Ranieri (Firenze,1845).<br />
<b>EVOLUZIONE DEL PENSIERO IN LEOPARDI – TERZA FASE (1824- 1837)</b><br />
- Sarcasmo nei confronti delle illusioni dei contemporanei (“secol superbo e sciocco”)<br />
- L’unica forma di moralità autentica consiste nell’accettare la condizione umana senza illusorii ottimismi, legittimità del desiderio di morte<br />
- Importanza della dimensione sociale dell’essere umano: gli uomini devono essere solidali fra loro ed unirsi coraggiosamente contro la natura, nemico comune.<br />
- Non più contrapposizioni, ma fusione tra Poesia e Filosofia<br />
- La nuova poesia riflette sui grandi, universali temi della condizione umana, sulla morte e sulla infelicità assoluta<br />
- Senso e funzione della poesia: indagare e comunicare agli uomini il “l’arido vero”.<br />
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<b>(vv. 1-86)</b>Qui sul fianco riarso del monte Vesuvio, tremendo annientatore, che nessun altro tipo di vegetazione rallegra, spargi i tuoi cespi solitari intorno, profumata ginestra, appagata dai deserti. Ti vidi anche un’altra volta adornare con i tuoi cespi le solitarie rovine che circondano la città che un tempo fu dominatrici di popoli (Roma), rovine che sembrano rendere al viandante, con il loro cupo e silenzioso aspetto, una testimonianza dell’antica potenza ormai perduta. Adesso torno a vedere in questo luogo te,o ginestra, che prediligi i luoghi tristi e abbandonati dalla gente, te che sei compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante, dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio;questi luoghi deserti furono un tempo villaggi prosperi e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, che offrirono gradita ospitalità al riposo dei potenti; e furono città famose (Pompei, Ercolano, Stabia) che il Vesuvio, lanciando torrenti di lava dal cratere che erutta fuoco, seppellì insieme agli abitanti. Oggi le rovine avvolgono il paesaggio desolato dove tu solo dimori, o fiore gentile e, quasi rivelando compassione per le altrui sciagure, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Chi ha l’abitudine di esaltare con stolido ottimismo la nostra condizione venga in queste campagne desolate e constati in che misura il genere umano stia a cuore alla natura che ci ama. E qui potrà anche giudicare opportunamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ più forti annientare del tutto. Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (IRONIA).<br />
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Vieni a guardare e a verificare le tue certezze in questi luoghi, secolo stolto e superbo, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e, volti i passi in opposta direzione, esalti il ritorno alle passate dottrine E chiami ciò progresso. Tutti gli intellettuali di cui il destino ingiusto ti rese padre esaltano il tuo ragionare infantile, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. Io non andrò sottoterra macchiato di una simile vergogna, ma avrò rilevato nel modo più esplicito il disprezzo che nutro verso di te, benché sia consapevole che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato ad essere dimenticato: nonostante io sappia che dimenticare preme chi alla propria età increbbe troppo. Dell’essere dimenticato, che con te sarà comune, fin da questo momento assai mi rido. O secolo sciocco e superbo elabori progetti di libertà politica e civile e nel contempo assoggetti a dogmi irrazionali quel pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto si avanza sulla strada della civiltà, la civiltà che sola rende migliore il destino della società. Non hai avuto la forza e il coraggio di accettare le conclusioni a cui era giunto il pensiero(il razionalismo illuministico), ossia che la natura ci ha assegnato una condizione dolorosa e infima nella gerarchia degli esseri. Per questo volgesti le spalle a quel pensiero filosofico che rese evidenti queste verità e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine (il materialismo illuministico) e, viceversa, chiami coraggioso colui che illudendo se stesso o gli altri, innalza, esaltandola, la condizione umana fino al cielo. <br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-80070397590508015532015-11-24T16:54:00.002+01:002015-11-24T16:55:01.023+01:00LEOPARDI, LE OPERE IN PROSA: LO ZIBALDONE, L’EPISTOLARIO, LE OPERETTE MORALI, I PENSIERI.<br />
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<b>Lo Zibaldon</b>e rappresenta una sorta di libro “parallelo” sul quale il poeta registrava quotidianamente il frutto delle sue riflessioni e dei suoi studi, nonché idee e figure, allo stato di abbozzo, della sua immaginazione poetica. Lo Zibaldone, dunque, costituisce un brogliaccio, una raccolta di appunti, una sorta di diario, di “colloquio con me stesso”, come lo definì il poeta, scritto dal Leopardi tra il 1817-1832. Il primo passo datato risale all’ 8 gennaio 1820, l’ultimo al 4 dicembre 1832. Lo Zibaldone appare una miniera preziosa di pensieri diversi che contengono in germe gli spunti tematici della maggior parte dei canti leopardiani; esso rappresenta un aspetto fondamentale e insostituibile di un incessante movimento di pensiero che poteva di volta in volta esprimersi nella forma sbrigativa dell’appunto “a penna corrente” o in quella elaborata e compiuta delle poesie e delle prose. Si può affermare che il Leopardi con lo Zibaldone abbia creato l’immenso repertorio meditativo dal quale avrebbe poi costantemente attinto una serie di “cellule” tematiche da sottoporre a un processo di formalizzazione letteraria. Si tratta dunque di un libro parallelo, che segue passo passo, come repertorio tematico e linguistico, la stesura delle opere vere e proprie e che risulta perciò di fondamentale importanza per comprendere i tempi e i modi della loro elaborazione: non a caso potremmo definire lo Zibaldone il “sottotesto” dei Canti.<br />
Il materiale dello Zibaldone arrivò ad occupare 4526 pagine, secondo la testimonianza dell’amico De Sinner; Il termine “Zibaldone”, che significa “mescolanza confusa di cose diverse”, fu utilizzato dallo stesso poeta allorché compilò un indice analitico degli argomenti contenuti in quei quaderni, che intitolò “Indice del mio Zibaldone di pensieri”. L’indice analitico,che richiese tre mesi di lavoro da parte del poeta, serviva al Leopardi per orientarsi nell’immensa selva da lui stesso costruita.<br />
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Lo Zibaldone fu pubblicato per la prima volta postumo, in 7 volumi, tra il 1798 e il 1900 in occasione del primo centenario della nascita del poeta, per decisione di una commissione governativa presieduta da Giosuè Carducci. Fu dato alle stampe con il titolo “ Pensieri da varia filosofia e di bella Letteratura”. Il Titolo Zibaldone comparve nelle edizioni successive.<br />
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L’EPISTOLARIO</b><br />
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L’epistolario del Leopardi è molto ricco: si compone, infatti di circa mille lettere composte tra il 1815 (Recanati) e il 1837 ( Napoli) che fanno a costituire quello che lo storico della letteratura Gianfranco Contini ha definito come uno “ fra i più bei libri della letteratura italiana”. . Rivolte soprattutto ad amici intellettuali e ai familiari (il padre Monaldo, i fratelli Carlo Carlo e Paolina), le lettere costituiscono una preziosa testimonianza non solo sugli eventi biografici del poeta, ma anche sugli sviluppi delle sue posizioni concettuali, della sua polemica, delle sue condizioni psichiche, delle sue scelte politico-culturali. L’Epistolario del Leopardi, non concepito per una sua pubblicazione, rappresenta un perfetto modello di stile colloquiale, costruito con una naturalezza che ben si adegua alla profonda sincerità di quanto viene espresso. L’edizione completa dell’Epistolario leopardiano uscì per la prima volta, in sette volumi, tra il 1934 e il 1941.<br />
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<b>LE OPERETTE MORALI</b><br />
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Le Operette morali sono una raccolta di 24 prose, la maggior parte di esse composte nel 1824 (gennaio-novembre) sotto forma di dialoghi satirici sul modello dei pungenti dialoghi di Luciano di Samosata (scrittore greco del II sec. d. C). In generale, oltre alla forma dialogica predominante, sono presenti operette in forma narrativa, altre ancora in forma narrativa e dialogica insieme. Furono pubblicate per la prima volta in un volume dal titolo Operette morali nel 1827, presso l’editore Stella di Milano. La terza edizione definitiva, uscita postuma nel 1845 e più estesa rispetto alle due precedenti, fu curata dall’amico del poeta, Antonio Ranieri, essa comprendeva 24 testi. <br />
Per il breve lasso di tempo entro il quale vennero redatte, le Operette morali appaiono nel complesso unitarie, sia sul piano tematico che sul piano stilistico: la scrittura è plasmata sul modello classico della prosa greca, ma allo stesso tempo appare innovativa sia per il lessico utilizzato che per lo stile. Gli argomenti affrontati nelle Operette morali delineano ampiamente il vasto orizzonte del pessimismo leopardiano, che include le riflessioni sulla felicità e l’infelicità dell’uomo, sulla meccanica ostilità della natura, sulle vacue ideologie del secolo XIX, sui puerili errori dell’antropocentrismo.<br />
Il critico letterario Giovanni Gentile ha voluto vedere nelle Operette morali lo svolgimento organico del pensiero filosofico del Leopardi, dalla constatazione degli aspetti negativi della vita della vita alla accettazione coraggiosa e virile di essa. A Questa tesi, si sovrappone quella più interessante che parla di unità sostanzialmente estetica, fondata su uno stile misto di ironia, umorismo, pietà per la presunzione di grandezza degli uomini del suo tempo, animati da filosofie spiritualistiche ed idealistiche.<br />
Sul piano letterario le Operette morali hanno un intento poetico. Tuttavia l’intenzionale poesia è talvolta insidiata dalla riflessione filosofica, da richiami eruditi e mitologici, da allegorie e personificazioni. Le migliori Operette risultano essere pertanto quelle in cui la riflessione filosofica e l’erudizione letteraria lasciano il predominio al sentimento e alla libertà espressiva.<br />
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<b>I PENSIERI</b><br />
I Pensieri furono preparati dal Leopardi negli ultimi anni della sua vita e pubblicati postumi da Antonio Ranieri. Sono 111 ed esprimono in forma concisa e lapidaria le considerazioni pessimistiche del poeta.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-85470615249909711792015-11-24T16:51:00.001+01:002015-11-24T16:51:03.276+01:00LO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA LEOPARDIANA : I CANTI (Firenze 1831; Napoli 1835; Firenze 1845)<br />
<b>NELLO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA LEOPARDIANA SI DISTINGUONO QUATTRO PERIODI:</b><br />
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<b>1° il periodo delle poesie giovanili, scritte anteriormente al 1818;<br />
2° il periodo delle canzoni civili e filosofiche e dei piccoli idilli, cha va dal 1828 al 1823;<br />
3° il periodo della composizione dei grandi idilli, che va dal 1828 al 1830;<br />
4° il periodo della composizione del ciclo di Aspasia e del soggiorno a Napoli, che va dal 1831 al 1837.<br />
A. IL PRIMO PERIODO (1818)</b><br />
Comprende i versi scritti dal Leopardi adolescente, anteriormente al 1818. Delle poesie scritte in questo periodo le più importanti sono incluse nei Canti: L'Appressamento della morte (1816) e due elegie, Elegia prima ( che nell'edizione dei Canti del 1831 è presentata col titolo Il primo amore), ed Elegia seconda, ambedue composte tra il 1817 e il 1818. Nell'edizione definitiva napoletana dei Canti del 1835 il Leopardi incluse soltanto l' Elegia seconda.<br />
Nell'Appressamento della morte il Leopardi, preso dal presentimento della morte,esprime il dolore di dover morire così giovane e di dover rinunciare alle sue dolci illusioni, soprattutto a quella della gloria.<br />
Le due elegie narrano la storia del suo amore, tutto intimo e segreto, per la cugina del padre Gertrude Cassi-Lazzari, giunta da Pesaro per accompagnare la figlia in un convento di suore ed ospite per tre giorni del Leopardi. Le poesie giovanili hanno un modesto valore poetico. Dal punto di vista formale, appaiono letterariamente elaborate e retoriche risentendo, forse eccessivamente, dell'imitazione dei poeti antichi e moderni, soprattutto dall'Arcadia e di Vincenzo Monti; sul piano del contenuto sono scopertamente autobiografiche, sentimentali e patetiche. Esse rivelano il primo dei limiti che insidia talvolta la purezza della poesia leopardiana, anche degli inni migliori: l'effusione eccessiva sentimentale e malinconica.<br />
L'altro limite, che appare più tardi, è la riflessione filosofica che tuttavia, se da una parte raffredda l'ispirazione dei canti migliori, essa ha il potere e il merito di elevare su un piano universale la poesia del Leopardi, liberandola dalla forte componente autobiografica. La riflessione filosofica fa sì che l'infelicità del poeta, di fronte al mistero dell'universo, si tramuti in infelicità, angoscia e solitudine di tutti gli uomini. Anche quando il Leopardi, nella fase della maturità artistica (La ginestra), assume l'atteggiamento titanico di sfida al destino, noi avvertiamo in esso la dignitosa e stoica accettazione da parte del poeta di un destino universale di dolore, piuttosto che l'atteggiamento romantico dell'individuo-eroe, che si eleva sulla massa degli uomini comuni.<br />
<b>B. IL SECONDO PERIODO (1818 al 1823)</b><br />
I motivi autobiografici, sentimentali e talvolta patetici scompaiono nelle canzoni civili e filosofiche, che appartengono, insieme ai piccoli idilli, al secondo periodo dello svolgimento della lirica leopardiana, periodo che si svolge dal 1818 al 1823. <br />
Le canzoni civili sono così chiamate perché presentano un’ ispirazione patriottica e oratoria, volta ad ispirare negli Italiani l'amor di patria e il ricordo di un passato di antiche glorie. Esse sono cinque: All'Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, Ad un vincitore nel gioco del pallone. Presentano tutte un identico schema, che resterà poi caratteristico della poesia leopardiana. In esse l’occasione è sempre offerta da una circostanza di cronaca (i soldati italiani morti nella campagna di Russia, per la canzone All'Italia; il monumento di Dante che si preparava a Firenze; la scoperta del De republica di Cicerone ad opera del Cardinale Angelo Mai; le nozze imminenti della sorella Paolina- esse poi non avvennero più per la rottura del fidanzamento -; la vittoria sportiva del recanatese Carlo Didimi), ma mirano ad esprimere la condanna del presente e la nostalgia del passato. Le canzoni civili rappresentano da un lato il frutto dell'amicizia col Giordani, di idee liberali, e della cosiddetta "conversione" politica del Leopardi, dall'altro, sono l'espressione della sensibilità romantica del poeta, il quale, soffocato dall'angustia e dalla meschinità delle vicende storiche contemporanee, vuole sopraelevarsi da esse trasferendosi idealmente nel passato, in un mondo storicamente remoto, eroico ed esemplare.<br />
In un primo momento questo passato si identifica per il Leopardi nell’età classica, l’età degli eroi greci e romani, le cui virtù morali e civili il poeta addita, come esempio ed incitamento, agli Italiani degeneri del suo tempo. Ma, a poco a poco, anche questo passati di virtù e di eroismo si offusca, perché il Leopardi vi proietta la sua tristezza e il suo dolore, scoprendo anche nel passato la vanità delle illusioni e il sentimento della umana infelicità. In tal modo, l’ideale esplorazione del mondo classico, iniziato con l’ammirazione e la nostalgia delle virtù eroiche degli antichi, si conclude col cupo pessimismo delle due canzoni filosofiche, il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo (dette anche le ‘’canzoni del suicidio’’), in cui i due suicidi, Bruto e Saffo, appaiono le vittime della tragica condizione dell’uomo: il passato della Grecia e di Roma ha ormai perduto agli occhi del Leopardi la sua esemplarità e viene assorbito nel comune destino di dolore del genere umano.<br />
Deluso quindi dall’età classica per effetto della proiezione del suo pessimismo nel passato, il Leopardi si rifugia idealmente in un’età ancor più remota, al tempo dei primordi del genere umano, anteriore alla amara scoperta della ragione. Nasce così la canzone Alla primavera, che evoca idealmente la primavera del genere umano, allorché la natura era madre benigna e pia dispensatrice di felicità e di illusioni agli uomini. Nell’Inno ai patriarchi, questo mitico periodo di felicità è portato al mondo biblico di Abramo e dei primi padri, quasi per dire che essa non è mai esistita e che gli uomini sono stati sempre e dovunque infelici. L’ultima canzone di questa fase, Alla sua donna, rispecchia nel contenuto il cosiddetto pessimismo cosmico col quale il Leopardi conclude la sua ideale esplorazione della storia umana, tracciata nelle canzoni civili e filosofiche. Il Leopardi vi esprime la vanità della più cara delle illusioni, quella dell’amore. Nella canzone non è rappresentata una donna reale,bensì l’immagine consolatrice della “donna che non si trova”, come scrisse il Leopardi: è la donna dell’immaginazione e della fantasia. Se una donna simile a quella sognata esistesse realmente, chi l’amasse sarebbe felice e si sentirebbe incitato a seguire la gloria e la virtù, e vivrebbe una vita divina, il che andrebbe contro le disposizioni del fato che ha destinato l’uomo all’infelicità.<br />
A questo svolgimento di contenuto della lirica leopardiana – dal vagheggiamento del passato, nella ricerca della felicità, al riassorbimento di tutto il passato nel dolore universale – corrisponde un analogo svolgimento della forma. Se infatti, nel complesso, le canzoni civili e filosofiche sono letterariamente assai elaborate, appesantite da elementi retorici, intellettualistici, eruditi, da una sintassi complessa, da un linguaggio ricercato e classicheggiante – è questa la <<poesia d’idee>> della poetica leopardiana – dalla canzone All’Italia alla canzone Alla sua donna assistiamo a una lenta, ma progressiva, purificazione della forma che tende a liberarsi dal peso della cultura letteraria e retorica per diventare più semplice, limpida, sobria ed essenziale, del tutto aderente al sentimento.<br />
Questa purificazione della forma è già in atto in un gruppo di liriche, che i critici sogliono chiamare i primi idilli o I PICCOLI IDILLI, per distinguerli dai grandi idilli, scritti dal Leopardi nel periodo più felice della sua ispirazione poetica (dal 1828 al 1830).<br />
Etimologicamente idillio significa in greco “piccola immagine”. In sede letteraria il termina venne usato per indicare un piccolo quadro di vita, un componimento breve, di argomento per lo più pastorale o agreste, ma anche cittadino, di intonazione realistica. Autorevoli rappresentanti di questo genere letterario, l’idillio furono i poeti greci Bione di Smirne, Mosco e soprattutto Teocrito. Ma l’idillio leopardiano è del tutto diverso dagli idilli della tradizione letteraria. Infatti, mentre l’idillio tradizionale ha carattere realistico ed oggettivo, perché ritrae la vita dei pastori o dialoghi fra cittadini, quello leopardiano assume anche un carattere soggettivo, personale, interiore. Il leopardi stesso definì i suoi idilli “situazioni, affezioni, avventure storiche (cioè sentimenti vissuti in un dato momento) dello spirito”, suscitate dalla contemplazione della natura, che così offre lo spunto o alla introspezione, e alla meditazione del poeta, o alla rievocazione del passato e delle illusioni giovanili. <br />
I piccoli Idilli sono: 1)La sera del dì di festa; 2)L’infinito; 3)Alla luna; 4)Il sogno;5)La vita solitaria; 6)Il frammento Odi, Melisso, pubblicato col titolo Lo spavento notturno. Essi costituiscono il primo tentativo leopardiano di una poesia pura – immune cioè da elementi intellettualistici, eruditi, retorici, o da intenzioni didascaliche e oratorie- ed espressione ingenua, semplice, limpida ed essenziale del sentimento.<br />
Dal 1823 ai primi mesi del 1828, il Leopardi non scrisse poesie, se si eccettua l’Epistola al conte Carlo Pepoli(1826), in endecasillabi sciolti che espone aridamente le sue convinzioni filosofiche. Durante questi anni egli scrive però, in prosa, le Operette morali, che hanno una grande importanza, come abbiamo detto, nello svolgimento del suo pensiero e della sua poesia in quanto segnano il passaggio dal pessimismo personale e soggettivo al pessimismo cosmico. Il Leopardi in esse medita non più sulle proprie dolorose vicende, ma sul dolore come patrimonio comune, eterno, irrimediabile di tutti gli esseri viventi, acquistando via via, attraverso questa certezza, una nuova condizione spirituale, più distaccata e quasi serena. In questa nuova condizione spirituale matura la poesia dei grandi idilli.<br />
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<b>C. IL TERZO PERIODO (1828 -1830)</b><br />
Fu nell’aprile del 1828, nel periodo felice del soggiorno a Pisa, che nel cuore del Leopardi si risvegliò la poesia. Lo stesso Leopardi fu così consapevole del suo nuovo stato di grazia poetica da annunziare subito alla sorella Paolina di aver scritto nei versi “con il cuore di una volta”. Egli descrive il nuovo stato d’animo nelle agili strofe metastasiane del Risorgimento, in cui parla del ritorno di quei sentimenti che giù un tempo lo avevano ispirato.<br />
Il Risorgimento apre, dunque, il nuovo ciclo dell’attività poetica del Leopardi, che si conclude nel 1830 e che comprende la composizione dei GRANDI IDILLI: 1) A Silvia; 2) Le Ricordanze; 3) La quiete dopo la tempesta; 4) Il sabato del villaggio; 5)Il passero solitario; 6 )Il canto notturno di un pastore errante nell’Asia.<br />
La struttura dei grandi idilli è analoga a quella dei piccoli idilli. Dal particolare realistico, con trapassi spontanei e naturali, la poesia si eleva alla rappresentazione del mistero e del dolore universale. Il contenuto universale dei grandi idilli è il risultato della meditazione filosofica delle Operette morali, che ha operato da filtro purificatore del sentimento leopardiano, liberandolo dagli elementi strettamente autobiografici, storici ed eruditi e trasformando il dramma individuale del poeta in dramma cosmico, coinvolgente l’universo intero.<br />
Il confronto tra La Sera del dì di festa, che appartiene ai piccoli idilli, e il Canto notturno è particolarmente significativo: tra l’uno e l’altro è passato il travaglio filosofico delle Operette morali. Nella Sera del dì di festa la meditazione del poeta verte sul suo dramma individuale di innamorato ignorato; poi, stimolata dal canto solitario dell’artigiano, risale al ricordo storico dell’impero romano, travolto dall’infinito scorrere del tempo, il che suggerisce al Leopardi il senso della vanità delle cose umane.<br />
Nel Canto notturno il Leopardi trascende del tutto le esperienze personali e i ricordi storici; egli contempla l’universo intero, di cui coglie con stupenda immediatezza il senso dell’infinito e del mistero.<br />
L’importanza dei grandi idilli non consiste solo nel loro contenuto universale, ma soprattutto nella felice attuazione di quella lirica pura, intesa come voce del cuore, che il Leopardi era venuto elaborando nella sua poetica. Ad attuare tale lirica concorrono, oltre al contenuto tutto rievocativo e sentimentale, immune cioè da elementi allotri, filosofici, polemici, storici, eruditi e letterari, anche la varietà e la libertà delle forme metriche (la canzone leopardiana assume pertanto una struttura lontanissima da quella petrarchesca) ed il linguaggio vago, indefinito, suggestivo, vibrante di risonanze interiori, quale il Leopardi aveva teorizzato nella sua poetica.<br />
Una caratteristica di questo linguaggio è che le forme lessicali e le strutture sintattiche sono assunte dal linguaggio colloquiale, impreziosite soltanto, qua e là, di qualche elemento della tradizione colta, fusi insieme nel ritmo libero e vario dei versi, creano un’armonia indimenticabile, vaga e suggestiva, tipicamente leopardiana.<br />
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<b> D. IL QUARTO PERIODO (1831 al 1837)</b><br />
Comprende le poesie del ciclo di Aspasia e quelle del periodo napoletano: va quindi dal 1831 al 1837, l’anno della morte del poeta. Esse sono generalmente svalutate dalla tradizionale critica letteraria per la loro eccessiva elaborazione letteraria o la presenza di elementi filosofici, polemici, sarcastici. Anche Francesco De Sanctis (Morra Irpina, 1817 – Napoli 1883; scrittore, critico letterario, politico, Ministro della Pubblica Istruzione) vi aveva notato “un filosofare troppo scoperto”, il segno del “morire della poesia nell’anima del Leopardi”. La critica storicistica, invece, per merito soprattutto di Walter Binni (Perugia, 1913 – Roma 1997 critico letterario, storico e antifascista italiano ) autore di un celebre saggio intitolato “La nuova poetica leopardiana”, la considera come l’espressione di una svolta della lirica leopardiana, l’espressione di una nuova poetica, la “poetica dell’anti-idillio”, diversa dalla più nota “poetica dell’idillio” . La poetica dell’idillio era incentrata sulle rimembranze, sulla rievocazione cioè del passato, della giovinezza perduta e della felicità sognata, fatta in tono sentimentale e malinconico, idillico, dandoci il profilo di un Leopardi assorto e nostalgico. Le liriche, invece, dell’ultimo periodo ci presentano un Leopardi diverso, aspro, ironico, energico e polemico, che non rievoca più malinconicamente il passato, ma si pone di fronte al destino in atteggiamento prometeico di sfida, fatto di fierezza e di dignità. Un Leopardi, insomma, che accetta titanicamente e stoicamente il proprio destino, che è quello di universale dolore e che torna ad essere, come nelle canzoni civili e filosofiche, maestro e apostolo di certezze e di verità. Un Leopardi che lancia agli uomini un invito alla fratellanza e alla solidarietà, per vincere il dolore e l’infelicità (nella Ginestra). Le poesie dell’ultimo comprendono innanzitutto cinque canti ispirati all’amore infelici di Leopardi per la signora Fanny Targioni-Tozzetti durante l’ultimo soggiorno fiorentino. Essi sono: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia. I primi tre rappresentano l’ebbrezza del sentimento amoroso; A se stesso rappresenta la caduta dell’illusione; Aspasia, composta a Napoli, rappresenta la vendetta del poeta contro la donna che lo ha deluso. Aspasia era una cortigiana di Mileto che, giunta ad Atene, era divenuta amante e poi moglie di Pericle (metà del V sec. a.C.). Aspasia è la signora Fanny Targioni-Tozzetti, che il Leopardi chiama così, per essere stata adescatrice scaltra e maligna del poeta. Altre poesie dell’ultimo periodo sono: la Palinodìa (ritrattazione) diretta al marchese Gino Capponi, in cui Leopardi finge ironicamente di ritrattare i suoi principi pessimistici e di accettare la teoria del progresso; I nuovi credenti, in cui polemizza contro le nuove correnti spiritualistiche del secolo; i Paralipòmeni della Batracomiomachìa, ossia aggiunte al poemetto attribuito ad Omero intitolato Batracomiomachia, battaglia delle rane e dei topi. In essi Leopardi schernisce i moti liberali napoletani del ’20 e del ’21. Ma le migliori poesie del periodo napoletano sono La ginestra o il Fiore del deserto e Il tramonto della luna.<br />
La Ginestra è variamente giudicata dai critici.<br />
Walter Binni l’ha definita “una sinfonia eroica”: il capolavoro della poetica del cosiddetto anti-idillio, che ispirò l’ultimo periodo della lirica leopardiana. Anche la critica marxista la giudica positivamente, per il forte messaggio sociale in essa contenuto: Leopardi si rivolge agli uomini invitandoli alla costruzione di una catena umana di solidarietà, per la costruzione di un nuovo mondo. La critica di Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 – Napoli 1952; filosofo, storico, scrittore e politico italiano) invece, e quella storicistica, pur apprezzando la novità del messaggio sociale, giudicano la ginestra notevole per l’abilità letteraria con cui è condotta, ma debole dal punto di vista strettamente poetico. In essa, infatti, coesistono confusamente elementi diversi – idillici, filosofici, storici, polemici, satirici, oratori – più giustapposti che fusi in armonica unità. Lo spinto iniziale, come negli Idilli, è dato da un particolare realistico, l’osservazione della ginestra che con i suoi cespi fioriti riveste il fianco del Vesuvio, simbolo della potenza distruttrice della natura. Dall’osservazione del particolare, il poeta passa alla meditazione dell’universale condizione di fragilità e di dolore della natura umana. La critica crociana e quella storicistica considerano Il tramonto della luna la migliore creazione dell’ultimo periodo della lirica leopardiana. Nuoce certamente al canto il lungo paragone iniziale che si distende per ben trentatré dei sessantotto versi che lo compongono: come nella notte la luna tramonta, lasciando il mondo nell’oscurità, così la giovinezza abbandona l’uomo, lasciandolo senza più illusioni e speranze. Ma, nonostante questo limite, il canto rinnova l’andamento lirico e la purezza dei migliori idilli leopardiani.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-79666470190171873872015-11-24T16:47:00.000+01:002015-11-24T16:47:20.321+01:00EI TEMATICI PRESENTI NELLA LIRICA DEL LEOPARDI ( BIBLIOGRAFIA : V. De Caprio- S.Giovanardi, Itesti della letteratura italiana, L’Ottocento, Einaudi Scuola; Appunti docente).<br />
Rilevante è l’idea leopardiana della CLASSICITA, espressa nel modo più compiuto nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818) Il poeta ha un’immagine idealizzata della classicità, considerata l’età della “primavera del genere umano” in cui l’uomo alla stregua degli animali e delle piante, si sentiva parte integrante di un sistema di fenomeni naturali dominato dal ciclo delle stagioni e dalle variazioni del clima. Gli antichi divengono per Leopardi il simbolo di una condizione armoniosa che è stata irrimediabilmente perduta nel momento in cui il legame tra individuo e natura è stato intaccato dall’avvento della religione cristiana e del razionalismo scientista che hanno rafforzato il senso di superiorità e alterità dell’uomo rispetto al resto del creato, inducendo negli individui un a stolida superbia. Scomparse le dolci illusioni dell’antichità classica, occorre ora, secondo Leopardi, sgombrare il campo dalle superbe e vane illusioni antropocentriche, come l’immortalità dell’anima, il progresso, la felicità, la ricchezza, il potere e la gloria. L’atteggiamento polemico del poeta riguardo al desiderio di gloria da parte dell’uomo poggia su due essenziali premesse: da una parte la collocazione periferica e in fondo irrilevante dell’uomo nell’universo, dall’altra la sua incapacità di prenderne atto.<br />
La proposta del Leopardi resa esplicita nella Ginestra, ma preparata da numerose riflessione nello Zibaldone, è in proposito piuttosto chiara: poiché è impossibile un ritorno alle “favole antiche”, l’uomo contemporaneo dovrebbe anzitutto rendersi pienamente consapevole del suo stato di vittima del sistema naturale e quindi liberarsi di tutti gli inganni perpetrati dall’intelletto per nascondere quell’unica e incontrovertibile verità. Soltanto dopo aver acquisito tale consapevolezza l’uomo potrà sviluppare quella solidarietà che nasce tra le vittime di una stessa tragedia, eliminando le lotte fra uomo e uomo e concentrando tutte le energie contro le avversità cui esso è fatalmente esposto.<br />
Al contrario, la storia umana è caratterizzata, a giudizio del Leopardi, da un progressivo accumularsi di errori e di inganni, che hanno raggiunto il loro culmine nel secolo XIX. L’odio per la propria epoca è infatti in Leopardi vivissimo e profondamente radicato. Le correnti di pensiero del progressismo idealista di marca liberale e dello spiritualismo cattolico (ambedue ampiamente rappresentate all’interno del movimento romantico) furono violentemente attaccate dal poeta sia nelle sue opere satiriche ( Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti, Paralipomeni della batracomiomachia), sia in alcuni passi di poesia e prosa di varia natura: Il pensiero dominante, La ginestra, Il dialogo di Tristano e di un amico.<br />
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Riguardo all’atteggiamento negativo di Leopardi nei confronti della propria epoca e, più in generale, al suo pessimismo, si è soliti distinguere due fasi.<b> Nella prima fase, che va all’incirca dal 1817 al 1821 ed è detta del “pessimismo storico”</b>, la natura viene considerata una sorgente di energia vitale e di consolanti illusioni, mentre i mali della dell’umanità vengono ricondotti al processo di corruzione indotto dalla civilizzazione. Questa concezione è legata al periodo “idillico”, che ha ispirato a Leopardi alcune tra le più belle e toccanti figurazioni paesistiche della nostra letteratura: descrizioni da “età dell’oro”, pervase da una quasi mitica serenità, che attraverso la “gran varietà delle illusioni” consolano l’uomo celandogli benevolmente la “vanità delle cose”.<br />
<b>Nella seconda fase (che appare già definita nel 1824 con le Operette morali), </b>sulla scorta degli studi degli illuministi francesi e in particolare di Voltaire e di D’Holbach, Leopardi perviene a una visione meccanicistica dell’universo naturale, visto ora come un sistema che tende all’autoperpetuazione,, in un ciclo di produzione e distruzione del tutto insensibile alle sofferenze umane. Questa concezione, detta del “pessimismo cosmico”, conduce Leopardi ad attribuire alla natura una intrinseca malignità, e viene espressa, nel modo più chiaro e definitivo, nell’operetta Dialogo della Natura e di un Islandese. Tracce di una considerazione negativa della natura sono peraltro riscontrabili già in alcuni passi della Sera del dì di festa, idillio scritto nel 1820-1821 (“e l’antica natura onnipossente / che mi fece all’affanno”) e in alcuni brani dello Zibaldone degli anni 1817-1820. Tuttavia, in questo caso, Leopardi avverte la crudeltà della natura soprattutto come causa di sofferenza individuale (simboleggiata per esempio dalla deformità di Saffo) e non come fonte di dolore universale.<br />
Insofferente verso l’idealismo e lo spiritualismo, Leopardi riprende dalle concezioni sensiste di matrice illuministica non solo l’idea meccanicistica della natura, ma anche il concetto secondo cui la molla principale dell’attività umana è la ricerca del piacere (la “teoria del piacere” è messa a punto per la prima volta in una ventina di pagine dello Zibaldone datate 12-23 luglio). Secondo il poeta, però, quel desiderio è <br />
impossibile da soddisfare essendo per sua natura infinito; avrebbe bisogno infatti di un piacere altrettanto infinito. Ma poiché questo non esiste se non nell’immaginazione, la soddisfazione di un desiderio è qualcosa che pertiene non al reale, bensì all’immaginario: il piacere, dunque, non è che immaginazione del piacere stesso, attesa indefinita di un’acquisizione che non avverrà mai.<br />
La mancata soddisfazione del desiderio nella realtà produce dolore e pena, che possono essere alleviati solo fuggendo dalla realtà stessa, attraverso le fantasticherie e il sonno. Piacere e realtà sono insomma per leopardi due princìpi incompatibili. Dal momento che la sua formazione illuministica gli impediva di mettere in dubbio il principio di realtà, era inevitabilmente il piacere ad essere destituito di ogni sostanza autonoma: infatti, “il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario” (Zibaldone, 19 aprile 1824).<br />
Ciò che noi chiamiamo piacere è dunque in realtà o l’attesa di un irraggiungibile piacere futuro, o la momentanea cessazione o attenuazione del dolore. Tale posizione risulta chiaramente espressa nei canti La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio, oltre che in molte delle Operette morali (si veda soprattutto il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare).<br />
Il dolore e l’attesa del piacere, in quanto poli su cui si concentra ogni moto dell’animo, sono comunque segno di energia vitale ; ben più temibile per Leopardi è la noia, che subentra ad occupare i “vuoti” causati dalla momentanea assenza di ambedue e che determina uno “stato d’indifferenza e senza passione”. La vita dell’uomo oscilla perciò tra il desiderio sempre deluso del piacere, il dolore che ne consegue e la noia. Si tratta di idee singolarmente vicine a quelle espresse dal filosofo tedesco Arthur Shopenhauer (1788-1860) nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), ma il nome di Shopenhauer non ricorre mai nello Zibaldone, ed è quindi assai probabile che Leopardi non lo conoscesse affatto. Il tema della noia è centrale nell’operetta morale Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, nonché nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.<br />
A partire dal 1823<b> “la teoria del piacere”</b> assume punte ancor più radicali: il piacere viene infatti identificato nello Zibaldone con “una privazione o una depressione di sentimento”, e giunge ad essere definito “quasi un’imitazione dell’insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita e alla privazione di essa, perché la vita per sua natura è dolore”; è questa l’ultima tappa di un itinerario di pensiero lucidamente negativo, che trova nel canto A se stesso la sua espressione poetica più sintetica e incisiva.<br />
Un posto di rilievo nelle considerazioni leopardiane sul piacere è occupato dal motivo dei ricordi e della memoria, un terreno che, sfuggendo in apparenza alle leggi del desiderio, sembra proporsi, almeno in una prima fase, come una forma alternativa di piacere. È questa infatti la posizione espressa negli anni 1819-1820, e in particolare nel canto Alla luna: il ricordo di una condizione trascorsa è di per sé piacevole, anche se la condizione ricordata è dolorosa. La memoria, in altri termini, produrrebbe uno stato d’animo contemplativo e malinconico, fatto di sensazioni il più delle volte indefinite e vaghe, che provoca nell’animo una forma particolare di “diletto”. Il diletto è poi tanto maggiore quanto più lontano (e quindi più indefinito) è il ricordo, sicché le memorie più piacevoli risultano quelle dell’infanzia e della prima adolescenza.<br />
La condizione umana oscilla all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA. Più che un piacere puro, tuttavia, quella offerta della memoria è una sorta di provvisoria consolazione, che non intacca il predominio del dolore e della noia su cui si fonda l’esistenza. Tanto è vero che in un secondo momento, all’altezza dei “canti recanatesi” del 1829, anche tale consolazione sembra venir meno al poeta: nell’ultima strofa del canto Le ricordanze l’evocazione dell’innamoramento adolescenziale per Nerina non ha più nulla di piacevole; al contrario essa si colora di un’acuta disperazione per il tempo irrimediabilmente trascorso, per cui il ricordo non può essere che “rimembranza acerba”. E su tale definitiva constatazione si consuma del tutto la disposizione “idillica” del poeta.<br />
<b><br />
IL LEOPARDI PUÒ ESSERE DEFINITO IL PRIMO INTELLETTUALE “MODERNO” DELLA LETTERATURA ITALIANA </b><br />
per il suo atteggiamento critico di fronte alla realtà, per il rifiuto di ogni facile consolazione di natura idealistica o spiritualistica, per la elaborazione di <br />
<b>• un concetto di “verità” negativa:</b> il “vero” di A Silvia, l’”arido vero” che ricorre spesso nelle <br />
Operette Morali, “acerbo vero” dell’epistola Al conte Carlo Pepoli si identifica con una realtà di morte <br />
e di dolore, con i “ciechi destini” dell’universo, con tutto ciò che resta incompreso o viene rimosso dal senso comune e dal desiderio di felicità degli uomini: la verità è per il Leopardi una verità rigorosamente negativa, che funziona da deterrente nei confronti di qualsiasi valore positivo proposto dall’esistenza e dall’istinto di sopravvivenza del genere umano. La forza poetica della produzione leopardiana deriva proprio dalla presenza costante, ora esplicita, ora implicita , di questo mito negativo (la verità intesa come realtà negativa), che proietta su un piano assoluto ed estremo tutte le contraddittorie manifestazioni dell’esistenza. <br />
Echi della poetica leopardiana, particolarmente in rapporto alla sua concezione essenzialmente e rigorosamente negativa del realtà, si colgono in “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale (1916) inclusa nella raccolta “Ossi di Seppia” :<br />
E andando nel sole che abbaglia<br />
sentire con triste meraviglia<br />
com’è tutta la vita e il suo travaglio<br />
in questo seguitare una muraglia<br />
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia<br />
In questa lirica, infatti il muro montaliano ha come illustre antecedente la siepe leopardiana de L'infinito: se quest’ultima, però, enfatizzava l'immaginazione di Leopardi nella misura in cui ne limitava lo sguardo, il muro del Montale lascia il poeta nell'ossessiva contemplazione della sua vana verticalità, del suo slancio verso l'alto, frustrato da quei cocci aguzzi di bottiglia in cui si riassume il senso dell'esistenza umana. <br />
L’idea del “nulla” come principio e fine di tutte le cose è presente fin dalle prime pagine dello Zibaldone, anteriori addirittura al 1820 ( “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”). <br />
<b>• Accanto all’idea del “nulla”, altro tema dominante nella poetica leopardiana è quello della “morte”,</b> valutata nei termini epicurei: ossia come un evento che pone fine a una vita attraversata dal dolore.<br />
Nonostante la loro vicinanza logica, i concetti di “nulla” e di “morte” inducono il pensiero del Leopardi a differenti conclusioni: mentre la morte è concepita dal Leopardi come un evento essenzialmente privato ed individuale, all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA, l’idea del nulla comporta invece una apertura universale, una proiezione cosmica: il “nulla” provoca perciò un sentimento di smarrimento e di sgomento, la contemplazione atterrita e allo stesso tempo affascinata di una dimensione indeterminata che l’intelletto non arriva a padroneggiare e che eguaglia per grandezza la “visione” mentale dl cosmo e degli spazi siderali.<br />
Tuttavia L’idea di infinito in Leopardi mantiene sempre un ancoraggio al dato empirico del “vedere”; anche le proiezioni astratte della mente, le visioni cosmiche, come quelle dell’Infinito, partono sempre da un dato visivo fisicamente riscontrabile nella realtà.<br />
<b>• Lo Stoicismo leopardiano.</b> Un elemento rilevante è l’atteggiamento “stoico”, la lucida e dignitosa fermezza con cui il poeta rifiutò sempre ogni facile consolazione, ogni “pietoso inganno” che potesse distoglierlo anche solo per un attimo dalla contemplazione del tragico destino dell’uomo. Nasce da qui, probabilmente, quella vena eroica che attraversa per intero la produzione del poeta, dalla canzone giovanile “ All’Italia” (1818) fino alla “Ginestra”. Se nel caso della canzone del 1818 la prospettiva eroica sembra limitata al sacrificio per la patria e per i propri ideali, nelle liriche successive la vena eroica assume caratteri complessi, tanto da essere all’origine, secondo molti critici, di una vera e propria svolta poetica. Il Leopardi in effetti nutriva un’alta considerazione di sé e un forte desiderio di gloria: egli era consapevole della propria geniale diversità (vedi “Lettera a Pietro Giordani”, “Lettera a Monaldo Leopardi”), ma anche della propria dolorosa ed estrema infelicità; pertanto si sentiva doppiamente isolato rispetto agli altri uomini e coltivava tale isolamento a volte con dolore, a volte con esaltazione virile di chi solo fra tutti va fieramente incontro al proprio destino. <br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-72805125947092883402015-11-24T16:41:00.002+01:002015-11-24T16:41:45.160+01:00A. MANZONI (1785-1873), Le Tragedie - Le Odi. Appunti del docente ( cfr. V.de Caprio- S.Giovanardi, I Testi della Letteratura italiana, L'Ottocento) )<b>LE ODI<i></i></b><br />
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Le odi testimoniano l’adesione del Manzoni alle tematiche del “vero”, la sua estrema attenzione agli avvenimenti politici che segnano la storia italiana del Risorgimento nella prima metà dell’Ottocento. L’ARTE DEL MANZONI , LUNGI DALL’ESSERE UNA STERILE E PEDANTESCA IMITAZIONE DI MODELLI CLASSICISTICI, VUOLE CONSEGUIRE PRINCIPALMENTE UNA FINALITÀ MORALISTICA ED EDUCATIVA (Dante Alighieri). Il poeta pur non avendo mai partecipato direttamente ai moti risorgimentali, contribuì con la letteratura alla costruzione di una coscienza nazionale ( concetto di “Rivoluzione incruenta”; vedi anche G. Verdi, Il Nabucco; G. Leopardi, All’Italia). Alcune delle sue opere divennero dei veri e propri manifesti risorgimentali, mirabili esempi di poesia civile. Tra queste ricordiamo le due Odi: <i>MARZO 1821 e il 5 MAGGIO. </i><br />
Le due liriche sono legate a particolari occasioni storiche: rispettivamente, le speranze in un intervento della monarchia sabauda nella persona di Carlo Alberto e di Carlo Felice in appoggio dei patrioti lombardi contro gli austriaci; l’improvvisa morte di Napoleone Bonaparte nell’esilio di Sant’Elena (1815). <br />
Componimenti politici lasciati incompiuti sono, invece, le due canzoni civili: Aprile 1814, composta sull’onda delle speranze indipendentistiche suscitate dalla abdicazione di Napoleone e dalla ritirata dei francesi dall’Italia; il Proclama di Rimini, entusiastico plauso all’utopistica spedizione di Gioacchino Murat.<br />
Oltre alle poesie espressamente civili, bisogna rilevare l carattere implicitamente politico di quasi tutta la produzione letteraria del Manzoni (le Tragedie, i Promessi sposi), volta sempre ad insegnare e ad esortare, a scuotere le coscienze.<br />
Le due Odi fondono efficacemente l’invocazione al riscatto della patria con l’universalità del messaggio cristiano: in questa ottica la liberazione dell’Italia dallo straniero assume il significato di un evento voluto da Dio stesso (concezione provvidenzialistica della storia), in nome di valori cristiani di giustizia, uguaglianza e fraternità fra gli uomini.<br />
La notizia della morte di Napoleone, pubblicata sulla “Gazzetta di Milano” il 16 dicembre 1821, fu appresa dal Manzoni nella sua villa di Brusuglio (avuta in eredità da Carlo Imbonati). Lo scrittore, che nel frammento di canzone Aprile 1814 aveva manifestato la propria ostilità politica all’Imperatore, fu colpito dalla sua improvvisa scomparsa, tanto più che, sempre secondo la “Gazzetta”, Napoleone era spirato con i conforti della religione cristiana. L’ode fu composta di getto in soli tre giorni, dal 18 al 20 luglio 1821..<br />
La prima stampa italiana dell’ode uscì a Torino nel 1823, tuttavia già nel 1822 Goethe l’aveva pubblicata in versione tedesca e anche in Italia ne circolavano esemplari manoscritti. L’ode valuta la figura di Napoleone alla luce di valori eterni ed universali e non di criteri storico-politici: per questo essa appare essenzialmente come una lirica a carattere religioso. Il Cinque maggio è definibile un vero e proprio “inno sacro”, al di fuori delle circostanze del calendario liturgico. Significativo è il legame del Cinque maggio con il principale degli inni sacri, la Pentecoste, a partire dalla presenza in entrambi di un identico verso “dall’uno all’altro mar” v.30. Ancor più stretto è poi il legame dell’ode con l’Adelchi, soprattutto con il suo secondo coro (La morte di Ermengarda, vv.61-66). Manzoni stesso parla dell’immensa emozione che presiedette alla composizione della lirica, in una lettera all’amico Cesare Cantù: “Che volete? Era una uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare; il maggior tattico, il più infaticabile conquistatore, colla maggior qualità dell’uomo politico, il saper aspettare e il saper operare. La sua morte mi scosse, come se al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale […]” .<br />
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<b>LE TRAGEDIE – La storia degli umili</b><br />
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Il Romanticismo cristiano del Manzoni indirizza il poeta verso l’indagine storica per ricostruire con nuovi criteri di interpretazione una storia mai scritta prima: una possibile storia degli umili e degli oppressi, in linea con le tendenze dello storico francese Augutin Thierry, che indagava la storia degli oppressi. <br />
La ricerca condotta dal Manzoni rappresentazione degli oppressi inizia concretizzarsi nelle Tragedie: Il Conte di Carmagnola (composta tra il 1816-19 e pubblicata1820), l’Adelchi (scritta tra il 1820-21 e pubblicata nel 1822). I grandi personaggi consacrati dalla tradizione letteraria (nobili di alto lignaggio, re e principi) appaiono in esse, seppur presenti, certamente smitizzati, delineati crudamente nella loro sete di potere e di violenza fratricida, di dominio terreno, di arroganza, che li conduce fatalmente alla perdita della felicità ultraterrena. Conquistare il mondo, conquistare il potere equivale a macchiarsi inevitabilmente di crimini terribili. I vincitori sono quelli destinati dalla Provvidenza e dalla giustizia divina alle sofferenze future; si salvano, invece, gli “umili”, coloro che la “provvida sventura” destina inizialmente alla sofferenza rendendoli vittima della legge del più forte. Per gli “umili” l’unica speranza resta la fede in un Dio di giustizia. Così, ad esempio, Carlo Magno, che salva la Chiesa dall’oppressione longobarda, è un uomo dominato dalla sete di potere e dalla ragion di Stato. Le conclusioni del principe Adelchi, morente, sono emblematiche: non c’è posto nel mondo per opere gentili ed innocenti, non resta che operare violenza / o patirla e rimanerne vittima(Adelchi, Ermengarda). L’anima stanca dell’eroe romantico anela solo di salire al cielo e ricongiungersi al re dei re, a Dio, che ripaga amorevolmente e a piene mani gli oppressi, per il sangue versato. LA STORIA DELL’UOMO APPARE INTRISA DI SANGUE E DI MALE.<br />
Tuttavia, la scoperta che è possibile una storia degli oppressi non conduce Manzoni ad una posizione di identificazione con essi e con i loro destini. Basti pensare alla figura di Renzo , nei Promessi Sposi: “Renzo è presentato dal Manzoni come un personaggio attivissimo, ma ha sempre bisogno di un direttore di coscienza che lo guidi, altrimenti sbaglia per ingenuità paesana, o per un’esigenza di farsi giustizia da sé, che per il Manzoni è una prova dell’immaturità della sua, pur fondamentalmente buona, coscienza etico-religiosa”. I limiti della formazione culturale di A. Manzoni, la sua estrazione sociale aristocratico - borghese, il suo cattolicesimo moderato trattengono il poeta sempre al di qua di una totale identificazione con i destini degli oppressi. Dunque la storia degli “umili”, che il Manzoni si propone di rappresentare colloca l’autore pur sempre in una posizione di pacato e lucido distacco da essi: sarà la divina Provvidenza, imperscrutabile e misteriosa forza - strumento della giustizia divina - , che provvederà a riscattare i tragici destini degli uomini e a guidare le azioni umane verso più elevati fini. Dunque nella ideologia manzoniana la “storia degli oppressi” non viene misurata dal poeta con la categoria dell’uguaglianza né già con la nozione di democrazia. Nella ideologia manzoniana gli “umili” appaiono come una massa ingenua e istintiva, talvolta perfino irrazionale e feroce (vedi i tumulti di S.Martino, nei Promessi Sposi) che necessita di una guida etico-politica superiore e che ispira al poeta a volte un amorevole sguardo paternalistico, altre sentimenti di diffidenza, di sfiducia, di amara rassegnazione.<br />
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Cfr. De Caprio-Giovanardi, I testi della letteratura italiana, vol. 3, ed. “Einaudi”; Antonelli – Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2b, “La Nuova Italia”;<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-35120174858799886382015-10-13T21:42:00.001+02:002015-10-13T21:42:24.454+02:00 ALESSANDRO MANZONI, la produzione letteraria: INNI SACRI. (Cfr. De Caprio-Giovanardi, I testi della letteratura italiana, vol. 3, ed. “Einaudi”; Antonelli – Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2b, “La Nuova Italia”; appunti del docente)<br />
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LA PRIMA FASE DELLA SUA PRODUZIONE LETTERARIA – PRECEDENTE ALLA CONVERSIONE , 1810-appare caratterizzata da una sostanziale adesione alla poetica e al gusto del Neoclassicismo , dal prevalere dell’ influenza di V. Monti e di G. Parini, ma soprattutto da un radicalismo giacobino (ideali libertari, ateismo anticleriacale), cioè da un atteggiamento di contestazione rispetto ad una realtà sociale contraddittoria, nella quale il poeta non si ritrova.<br />
A questa prima fase fanno riferimento le opere giovanili:<b> Il trionfo della libertà (1801),</b> una macchinosa celebrazione del valore della libertà contro ogni forma di superstizione e di tirannide; Urania , un poemetto mitologico dedicato alla funzione civilizzatrice della poesia; un sonetto-autoritratto di imitazione alfieriana; I Sermoni, quattro aggressive satire sul modello oraziano, contro il malcostume della società milanese, contrassegnata da false ipocrisie e da pseudo poeti . Questa fase culmina nel carme in endecasillabi sciolti, In morte di Carlo Imbonati (1806), nel quale rifacendosi a Parini, celebra il ruolo dell’intellettuale impegnato nel progresso civile.<br />
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Una svolta radicale nell’opera del Manzoni è generata dalla <b>CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO (1810)</b> , conversione che si configurerà anche come conversione letteraria, segnando un’ evoluzione sia sul piano etico che sul piano estetico. Il Manzoni abbandona la mitologia e le tematiche consuete della poetica neoclassica (repertorio culturale greco-romano) per sostanziare la propria lirica di contenuti religiosi, assumendo come repertorio di immagini e di metafore quello offerto dai testi sacri ( in particolare la Bibbia). Il nuovo patrimonio di cultura cristiano, tuttavia, non sostituisce, bensì affianca il consueto retroterra offerto dagli studi classici. La conversione- il ritorno alla fede e ai riti- operò in Manzoni su due piani. <br />
<b> Sul piano personale e biografico</b> non riuscì a sanare la sua nevrosi, anzi la ingigantì e la approfondì, contribuendo a formare in lui l’immagine di un Dio come forza tremenda, che opera in modo imperscrutabile negli avvenimenti umani. Il solo senso degli avvenimenti è fornito dalla presenza della DIVINA PROVVIDENZA , che corregge le ingiustizie e le storture della storia con un ritmo che trascende la comprensione umana.<br />
Intanto, il matrimonio con la giovane moglie appena sedicenne, Enrichetta Blondel “angelo di ingenuità e di semplicità”, già celebrato con rito calvinista, fu ricelebrato con rito cattolico e la famiglia Manzoni abbandonò definitivamente Parigi per stabilirsi definitivamente in Italia nella villa di Brusuglio, vicino Milano, dove lo scrittore trascorse gran parte della sua vita.<br />
<b> Sul piano letterario la conversione </b> produsse in Manzoni la convinzione che era necessaria una nuova poesia, svuotata da contenuti legati alla mitologia classica e volta a diffondere messaggi cristiani. La conversione produce conseguenze immediate essenzialmente sul piano tematico, mentre su quello formale, la poesia manzoniana continua ad essere legata alla tradizione classicistica. La conversione al cattolicesimo segna l’inizio del periodo di più intensa attività creativa del Manzoni.<br />
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INNI SACRI<br />
La conversione al Cattolicesimo segna l’inizio del periodo di più intensa attività creativa del Manzoni. IL CATTOLICESIMO DEL MANZONI, maturato al termine di un lungo percorso di studi e meditazioni filosofico - morali, non è un sentimento dogmatico, né fondato su astrazioni filosofiche; esso è un sentimento vivo, intenso e autentico, volto a cogliere il senso consolatorio dell’eterna presenza di Dio nella dolorosa vita degli uomini; un cattolicesimo che nasce dalla sintesi dialettica delle pregresse esperienze culturali e umane del poeta: progressismo illuminista, idealismo romantico, calvinismo, giansenismo, la filosofia morale di S. Agostino e di Blaise Pascal . <br />
Gli anni immediatamente successivi alla conversione risalgono gli Inni Sacri composti a partire dal 1812. Manzoni ne aveva progettato 12, ciascuno dei quali avrebbe dovuto celebrare le principale feste del calendario liturgico, ma riuscì a comporne solo cinque. Nel 1815 il Manzoni pubblicò i primi quattro Inni , La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale. Complessa la vicenda compositiva del quinto inno sacro : iniziata nel 1816, La Pentecoste subì ulteriori revisioni e fu data alle stampe solo 1822.<br />
Negli Inni sacri il poeta si rifà alla tradizione della poesia religiosa antica e medievale (Cantico delle creature; le laude di Jacopone da Todi; la Commedia dantesca; la Canzone alla Vergine del Petrarca), nella quale gli Inni erano destinati alla declamazione corale da parte dei credenti di fondamentali verità di fede, in un linguaggio piano e comprensibile a tutti (il sermo humilis). Anche il Manzoni intende esprimere il proprio concetto di fede secondo un punto di vista corale, rendendosi interprete del rapporto tra Dio e il suo popolo. Tuttavia sul piano formale il risultato al quale giunge il Manzoni è altalenante: non sempre l’autore riesce a rendere la solennità del contenuto, ricco di immagini bibliche, mediante una forma agevole; spesso la sintassi appare complessa e involuta, il lessico appare legato a una obsoleta tradizione letteraria.<br />
LA PENTECOSTE, ULTIMO INNO SACRO, È LA PIÙ VALIDA OPERA A LIVELLO POETICO: il contenuto tematico agisce prepotentemente sulla fantasia, che funge da filtro, e dona forma al contenuto poetico. Mentre negli altri inni sacri l’entusiasmo del neofita uccide la forma, nella Pentecoste il poeta realizza un perfetto equilibrio tra contenuto e forma: il contenuto – la discesa dello Spirito Santo e la nascita della Chiesa; la presenza del divino nelle cose umane; la divina Provvidenza . <br />
La Pentecoste (in greco, 50° giorno), celebra la legittimazione della Chiesa alla predicazione e alla divulgazione del messaggio evangelico, partendo dalla descrizione di “quel sacro dì” in cui avvenne la discesa dello Spirito santo sugli apostoli sotto forma di lingue di fuoco, infondendo in loro la forza d’animo necessaria a superare le persecuzioni e il dono della glossolalia, cioè la conoscenza delle lingue. Nella Pentecoste il Manzoni rappresenta un Dio pieno d’amore che partecipa costantemente alle vicende umane; UN DIO CALATO TRA GLI UOMINI che si manifesta sia attraverso i doni dello Spirito Santo, sia attraverso i segni della Divina Provvidenza. La divina Provvidenza è concepita dal Manzoni come una delle forze fondamentali che agiscono nella Storia determinandone il corso: l’uomo che ha ricevuto la forza e il dono dello Spirito Santo può trovare nella Divina Provvidenza una guida superiore, e affidarsi completamente alla volontà di Dio. Nella Pentecoste il Manzoni sottolinea, inoltre, l’uguaglianza degli uomini dinanzi a Dio: in essa si traducono poeticamente gli ideali manzoniani di libertà e fraternità in Dio e nel sacrificio di Cristo. Sotto questo punto di vista non è evidente alcuna frattura tra il Manzoni della prima esperienza e il Manzoni rinnovato, dopo la conversione. LA FEDE SI FA ACCOMUNATRICE DI TUTTI GLI UOMINI ATTRAVERSO I VALORI ILLUMINISTICI DI LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ.<br />
Il Manzoni, anche negli Inni sacri, testimonia di essere un autore calato perfettamente nella realtà del suo tempo. Egli analizza il dato reale con spirito analitico: ne evidenzia le contraddizioni, le ingiustizie, le sopraffazioni, le molteplici disarmonie. IL MANZONI AVVERTE IN MANIERA LUCIDA E DISINCANTATA IL PROFONDO CONTRASTO, TIPICAMENTE ROMANTICO, TRA REALE E IDEALE. LUNGI DAL RITENERE SUFFICIENTE L’APPORTO DELLA RAGIONE (la ragione da sola non garantisce più la felicità dell’uomo), EGLI DIMOSTRA COME LA SOFFERENZA UMANA PUÒ ESSERE SUPERATA MEDIANTE LA FEDE IN DIO, mediante la certezza che anche il dolore rientra in un disegno superiore e imperscrutabile (la provvida sventura), pertanto le pene di oggi troveranno una giusta ricompensa nella salvezza ultraterrena.<br />
Già negli Inni Sacri si manifesta la CONCEZIONE PROVVIDENZIALISTICA DELLA STORIA che troverà ampio riscontro nei Promessi Sposi: Dio guida le vicende della storia, partecipa alle sofferenze degli uomini, vive in tutti coloro che soffrono per diffondere ideali di giustizia. <br />
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Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-30261628885629508462015-10-13T21:25:00.001+02:002015-10-13T21:25:20.517+02:00 PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE , Giovanni Pascoli , Novembre - Miyricae (1891). Dall'elaborato di A. Greco II A (a.s. 2014-15).<i>Gemmea l'aria, il sole così chiaro <br />
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, <br />
e del prunalbo l'odorino amaro <br />
senti nel cuore... <br />
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Ma secco è il pruno, e le stecchite piante <br />
di nere trame segnano il sereno, <br />
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante <br />
sembra il terreno. <br />
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Silenzio, intorno: solo, alle ventate, <br />
odi lontano, da giardini ed orti, <br />
di foglie un cader fragile. E' l'estate <br />
fredda, dei morti. </i><br />
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La lirica “Novembre”, inclusa nella raccolta “Myricae” (1891), è una delle più suggestive di Giovanni Pascoli ed esprime il gusto del poeta per le sensazioni sfuggenti, per la visione di un reale ambiguo e non nettamente definito. <br />
Il componimento può essere suddiviso in tre quadretti descrittivi netti e ben distinguibili, e allo stesso tempo coesi e coerenti : la strofa iniziale presenta una giornata di apparente primavera, con un sole <i>“così chiaro”</i> e “gli albicocchi in fiore”; ma ecco che , osservando più attentamente, l'io lirico si accorge che le piante sono <i>“stecchite”</i>, il biancospino è “secco” ed il suono cupo dei passi riecheggia come se il terreno fosse vuoto: <i>"cavo al piè sonante sembra il terreno”.</i> Alla vivida sensazione di un’atmosfera primaverile (<i>Gemmea l’aria, il sole così chiaro</i>) fa dunque riscontro una realtà diversa (ma secco è il pruno): è autunno, il biancospino non è in fiore, ma secco; i rami degli alberi ormai spogli segnano nere trame; il terreno non è fecondo, ma indurito dal freddo e riecheggia sotto il passo degli uomini, come se fosse cavo. Infine l'ultimo “periodo” costituisce una riflessione sull'inganno ordito dalla natura: l'illusione della primavera in una particolare giornata di novembre evoca la precarietà dell'esistenza. La primavera era soltanto un’illusione e nella giovinezza è già preannunciata la morte. Nella terza strofa, infatti, l’atmosfera si delinea in tutta la sua naturale tristezza: il silenzio del paesaggio autunnale è appena interrotto dal vento che fa cadere dagli alberi le fragili foglie, metafora della precarietà e della finitezza umana. All’illusione della primavera, immagine e simbolo della giovinezza e più in generale della vita, si sostituisce un’atmosfera di morte: l’estate di San Martino <i>“E’ l’estate fredda dei morti”</i>.<br />
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Con la poesia, Pascoli vuole evidenziare la fragilità umana rispetto alla inesorabilità alla natura: sebbene nella giovinezza ci possa sembrare di avere tutta una vita davanti, un giorno ogni uomo diverrà “secco” e “stecchito” come il “pruno”. Il tema della precarietà della vita umana è sottolineato dall'espressione “di foglie un cader fragile”. L'immagine metaforica mette in relazione la vita umana e le foglie secche autunnali: la precarietà dell'uomo è come una foglia debolmente attaccata ad un ramo, che continua a resistere e a lottare contro la forza di gravità, ma prima o poi sarà vinta; allo stesso modo la morte incombe inevitabilmente sull'uomo.<br />
Nella lirica il poeta inserisce una lunga antitesi, che si estende per le prime due intere strofe. La figura semantica svolge un ruolo di particolare incidenza: allude metaforicamente alla vita, la gioia e la bellezza di una luminosa giornata primaverile, che è troncata bruscamente dalla morte e dall'aridità dell'inverno. Pascoli ricorre all'artificio per evidenziare una realtà bifacciale, tema portante del componimento, assieme alla riflessione sulla fragilità umana.<br />
Il tema della contrapposizione vita-morte è sottolineato dall'ossimoro in conclusione del brano: <i>“estate / fredda”. </i>L'espressione, non meno rilevante e suggestiva dell'antitesi, è evidenziata da un<i> enjambement.</i><br />
I campi semantici intorno ai quali ruota la lirica sono dunque la vita e la morte. Le espressioni che concorrono all'individuazione del primo campo semantico sono concentrate nella prima strofa: <i>“gemmea”,</i> <i>“sole chiaro”, “albicocchi in fiore” </i>ed è presente un topos letterario ben consolidato dalla tradizione: l'immagine del “cuore”, da sempre centro propulsore della vita. Al secondo campo, invece, fanno riferimento le espressioni “secco”, “stecchite”, “nere trame”, “vuoto” e “cavo”.<br />
Il componimento è ben ritmato, sono presenti cesure ed enjambement. La terza strofa, ad esempio, è caratterizzata dai segni d'interpunzione, che aumentano notevolmente rispetto alle strofe precedenti, alternandosi quasi con le parole, in modo da creare -mediante le cesure- un senso di solenne solitudine e di vuoto, collegati alla morte. <br />
A conferire musicalità alla lirica si aggiungono le figure metriche, come i molteplici esempi si sinalefe.<br />
Il registro stilistico solenne ed autorevole conferisce gravità ed intensità alla lirica, accrescescendo la sensazione di impotenza dell'uomo dinanzi alla morte e alla natura.<br />
A livello strutturale la lirica è composta da tre quartine di tre versi endecasillabi ed un quinario, che rimano secondo lo schema ABAb CDCd EFEf.<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-88068223043671821302015-10-13T20:24:00.000+02:002015-10-13T20:24:23.424+02:00 PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE - I CANTO DELL' INFERNO Marika Caruso III D (A.S.2013-14) <br />
Con il primo canto dell' inferno ha inizio il viaggio ultramondano che Dante afferma di aver compiuto nella sua opera maggiore, la Commedia, composta a partire dal 1303-1304 fino agli ultimi anni di vita dell'autore (1321). L'inizio è in <i>medias res</i>: nella notte tra il 7 e l '8 aprile Dante erra, tormentato dalla paura in una selva oscura senza sapere come ci sia giunto. Al mattino vede però un dilettoso colle davanti a sé, illuminato dai primi raggi del sole. Attratto da quella luce e sperando in essa la salvezza si avvia dunque per conquistarne la cima ma invano poiché tre fiere gli sbarrano la strada: sono una lonza prima, poi un leone e infine una lupa che gli fanno perdere la speranza di salire sul colle. La lupa, orrida a vedersi, spinge anzi di nuovo Dante verso il basso e lo riporta nell' angoscia del peccato, nell' esperienza buia della paura. Appare però al poeta un' ombra: è Virgilio che gli indica la strada per cui potrà salvarsi. Dante dovrà attraversare il regno della perdizione eterna e quello della penitenza poiché solo così potrà salire nel regno della luce. Inoltre Virgilio annuncia a Dante l'avvento di un Veltro che libererà la terra dalle tre fiere che dominano il mondo e in particolare saprà cacciare la lupa ingorda. Intanto Virgilio si offre di guidare Dante nel viaggio attraverso i regni ultramondani dell' inferno e del Purgatorio, poi lo affiderà a Beatrice, che accompagnerà il poeta in Paradiso. Il primo canto dell' inferno, ma in generale l' intera opera dantesca, è costituito da strofe di tre versi endecasillabi a rima incatenata. Talvolva l'unità metrica non coincide con l'unità sintattica, ossia il verso non corrisponde alla frase di senso compiuto, quindi in tale caso le strofe vengono ad essere legate l'una all'altra accelerando così il ritmo (esempi sono le strofe 5-6,8-9,13-14,14-15,17-18,19-20,44-45)La paranomasia presente al verso 36 "più volte volto" rimanda allo smarrimento di Dante alla prospettiva di ritornare nella selva oscura. Le caratteristiche della lupa vengono espresse attraverso un' <b>allitterazione della r</b> (versi 49-51) mentre quella della l nei versi descrittivi della lonza e della sua leggerezza creano quasi un effetto onomatopeico. Il poeta utilizza anche un' altra allitterazione con una sequenza degli stessi suoni duri per rendere l'idea dell'asprezza della selva. A ciò contribuisce anche il lessico che si conforma alla materia trattata, infatti come la sequenza degli aggettivi "esta selva selvaggia e aspra e forte" e la presenza della <b>figura etimologica </b>trasmettono l'idea della difficoltà del luogo così l' espressione "spalle vestite già de' raggi del sole" riferita al colle, lo rende cordiale, umanizzato. La lingua poetica del primo canto dell'inferno però oltre ad essere densa di realismo è anche carica di allegorie. Infatti nelle immagini della lonza, del leone e della lupa, tratte dai bestiari medievali, sono visibili le allegorie della lussuria o della frode, della superbia o della violenza e dell' avarizia come cupidigia. La verità di questi vizi è espressa attraverso il lessico e in particolare nella leggerezza rapida della lonza, nella fierezza spaventosa del leone e nella magrezza famelica e insaziabile della lupa. La natura crudele di quest' ultima viene delineata dalla <b>dittologia </b>"sì malvagia e rìa" (verso 97). Le stesse parole di Virgilio confermano il rapporto figurato che sussiste tra lupa e avidità, un vizio che esattamente come l'animale descritto dal poeta non si sazia mai di accumulare beni e dopo ogni successo è più affamato di prima. Inoltre il fatto che le tre bestie impediscano il cammino di Dante verso il colle inducendolo a tornare indietro è la rappresentazione allegorica di come le inclinazioni peccaminose impediscano la via dell' uomo verso la salvezza inducendolo a restare nel peccato. Sono rilevanti le <b>metafore </b>del "dilettoso colle", ossia la speranza della salvezza, e della "selva oscura" che rappresenta il peccato e quindi, lo smarrimento in essa indica la presa di coscienza dell' io narrante di trovarsi in uno stato di errore. Lo stesso sonno va inteso non come bisogno fisico ma come sonno della ragione, stordimento e ottenebramento della mente, figure tipiche del peccato nella Bibbia la cui influenza è evidente anche nell' espressione <i>"Miserere di me"</i> che è anche un latinismo, insieme al termine <i>"pelago"</i>. <br />
Il primo canto dell'inferno è denso di simbolismo e allegorie: prima fra tutte l'immagine di Virgilio, simbolo della ragione e del pensiero umani. Ciò è evidente nel suo discorrere pacato, nel suo trepido consigliare, nel suo paterno correggere e nel suo bonario decidere per l' allievo. Essendo Virgilio simbolo della ragione, il suo essere senza voce è metafora di come la voce della ragione abbia a lungo taciuto nell' uomo che viveva nel peccato. Anche l'avvicendamento delle due figure di Virgilio e Beatrice ha un significato simbolico cioè la sola ragione umana rappresentata dal poeta non è sufficiente per condurre l' uomo fino in Paradiso ma deve essere soccorsa dalla fede, rappresentata da Beatrice, che è superiore anche se complementare alla razionalità. Inoltre contribuiscono a trasmettere l'idea della difficoltà del luogo la similitudine tra il naufrago che si volge a rimirare le onde pericolose e il poeta che, ancora tutto inorridito, si volge a guardare la selva (versi 22-27) e <b>la similitudine</b> tra la disposizione d' animo di Dante che viene ricacciato nella selva dalla lupa e quella dell' avaro che perde tutto(versi 55-60). Inoltre la condizione di Dante che si volge indietro a rimirare la selva è a sua volta metafora dell' uomo che prende coscienza dei suoi errori e guarda alla vita passata con spavento. Numerosissime sono le <b>perifrasi:</b> "Nel mezzo del cammin di nostra vita" che apre l' opera, "Nel tempo de li dei falsi e bugiardi " (verso 72) ovvero in periodo pagano, la<b> perifrasi astronomica</b> "Temp' era dal principio del mattino" ed altre ai versi 30 e 60. Altre figure retoriche semantiche possono essere rilevate nel lungo discorrere tra Dante e Virgilio. Quest'ultimo, quando prende per la prima volta la parola, apre il suo discorso con un chiasmo e allo stesso tempo un' antitesi: "Non omo, omo già fui". Dante invece con le sue parole mette in evidenza la grandezza morale, intellettuale e in ambito retorico di Virgilio tramite l' endiadi "de li altri poeti onore e lume"(verso 82), <b>la metafora</b> ai versi 79-80 e l'apostrofe "famoso saggio" che sottolineano tutte la sua riverenza nei confronti di Virgilio. Altre figure retoriche, utilizzate frequentemente da Dante nella sua opera ed anche in questo canto, sono la sinestesia (" 'l sol tace" al verso 60), la metonimia (verso 109) e la personificazione ("animo mio ch' ancor fuggiva" al verso 25). A livello sintattico sono molto numerose le anastrofi (versi 12,15,33,49-50,80,95-96) ed è presente <b>un'anafora</b> ai versi 85 e 86 ("Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui...") con la quale Dante sottolinea ciò che Virgilio è stato per lui. <b>Senso di angoscia e speranza, peccato e desiderio di salvezza sono i temi dominanti</b> di questo primo canto introduttivo della Commedia: tali temi vengono interpretati con le immagini metaforiche del buio e della luce e, ancor meglio, mediante i quadri simbolici della <b>"selva oscura</b>" e del <b>"dilettoso monte"</b>. Virgilio mostrando a Dante l'altra strada, il viaggio attraverso i tre mondi, rende chiaro il messaggio: all'uomo la via diretta al Paradiso è preclusa e per raggiungere il cielo gli è necessario un percorso che comprende la coscienza razionale del peccato, il distacco da esso e la deliberata purificazione. Il viaggio attraverso i tre mondi è perciò metafora del percorso introspettivo di conoscenza razionale del peccato e pentimento, il solo che può condurre l' uomo alla salvezza. <br />
Marika Caruso IIID<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-42512356616243357332015-10-13T20:00:00.003+02:002015-10-13T20:01:02.798+02:00MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F (A.S.2012-13)MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F (A.S.2012-13)<br />
<br />
<br />
Iacopo da Lentini, Meravigliosamente<br />
Meravigliosamente<br />
un amor mi distringe<br />
e mi tene ad ogn'ora.<br />
Com'om che pone mente<br />
in altro exemplo pinge 5<br />
la simile pintura,<br />
così, bella, facc'eo,<br />
che 'nfra lo core meo<br />
porto la tua figura.<br />
In cor par ch'eo vi porti, 1 0<br />
pinta como parete,<br />
e non pare di fore.<br />
O Deo, co' mi par forte.<br />
Non so se lo sapete,<br />
con' v'amo di bon core: 15<br />
ch'eo son sì vergognoso<br />
ca pur vi guardo ascoso<br />
e non vi mostro amore.<br />
Avendo gran disio,<br />
dipinsi una pintura, 20<br />
bella, voi simigliante,<br />
e quando voi non vio<br />
guardo 'n quella figura,<br />
e par ch'eo v'aggia avante:<br />
come quello che crede 25<br />
salvarsi per sua fede,<br />
ancor non veggia inante.<br />
Al cor m'arde una doglia<br />
com'om che ten lo foco<br />
a lo suo seno ascoso, 30<br />
e quando più lo 'nvoglia,<br />
allora arde più loco<br />
e non pò stare incluso:<br />
similemente eo ardo<br />
quando pass'e non guardo 35<br />
a voi, vis'amoroso.<br />
S'eo guardo, quando passo,<br />
inver voi, no mi giro,<br />
bella, per risguardare.<br />
Andando, ad ogni passo 40<br />
getto uno gran sospiro<br />
che facemi ancosciare;<br />
e certo bene ancoscio,<br />
c'a pena mi conoscio,<br />
tanto bella mi pare.<br />
Assai v'aggio laudato,<br />
madonna, in tutte parti<br />
di bellezze ch'avete.<br />
Non so se v'è contato<br />
ch'eo lo faccia per arti, 50<br />
che voi pur v'ascondete.<br />
Sacciatelo per singa,<br />
zo ch'eo no dico a linga,<br />
quando voi mi vedrite.<br />
Canzonetta novella, 55<br />
va' canta nova cosa;<br />
lèvati da maitino<br />
davanti a la più bella,<br />
fiore d'ogni amorosa,<br />
bionda più c'auro fino:60<br />
«Lo vostro amor, ch'è caro,<br />
donatelo al Notaro<br />
ch'è nato da Lentino».<br />
<br />
<b>PRESENTAZIONE DEL TESTO</b> <br />
"Meravigliosamente" è una lirica composta da Jacopo Da Lentini (Siracusa, 1210 – 1260), notaio alla corte di Federico II di Svevia. Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio, vv. 55-57,come autorevole rappresentazione della Scuola Siciliana: "O frate, issa vegg'io, diss' egli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me riten ne di qua dal dolce stil novo ch'i odo !" Codificò le forme metriche della canzone, e fu probabilmente l'inventore del sonetto. La lirica "Meravigliosamente" affronta il tema, tipicamente provenzale, dell'innamorato timido che non osa esprimere all'amata i propri sentimenti. Questi, però, si rivelano egualmente attraverso gli sguardi, i sospiri e i pianti. Per placare la passione struggente che lo avvolge, il poeta dice di aver riprodotto dentro di sé l’immagine della sua donna , dal cui vagheggiamento deriva un’emozione di gioia pari a quella che uno spirito credente trae dalla fede. La figura interiore è così nitida e ben presente che il poeta incontrando la reale persona dell’amata, può anche fare a meno di guardarla, per eccesso di timidezza : la bellezza di lei è tanto grande che il cuore quasi non può sostenerla, e un tremore assale il poeta, il tremore che si prova di fronte alle cose che sembrano appartenere ad una realtà più grande di quella che comunemente viviamo. L'avverbio " meravigliosamente", che occupa per esteso il primo verso, per la sua posizione isolata che accentra vivamente su di sé l’attenzione e per il suo ritmo lentamente modulato, introduce un'atmosfera di eccezione, di fuor dell’usato, che corrisponde alla " nova cosa" del v. 56, nel congedo. Meravigliosamente rappresenta una delle liriche migliori di Giacomo da Lentini: un’intima e accorata confessione d’amore sotto forma di monologo interiore che si risolve nel dolce e malinconico vagheggiamento della donna amata.<br />
<b><br />
ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE (livello metrico - ritmico/ stilistico-retorico) </b><br />
Meravigliosamente è una “canzonetta” apparentemente leggera , sia per la leggerezza del ritmo, <br />
che per l’ umana verità del sentimento ; essa rappresenta, tuttavia, il nuovo modo di cantare l’amore, in cui i precedenti trobadorici sono rielaborati con raffinata leggerezza e spinti ad analizzare la questione amorosa principalmente in termini di indagine interiore e di affinamento spirituale: il poeta tende ad esprimere i risvolti psicologici e interiori dell’esperienza amorosa, il momento in cui essa è pura contemplazione e non osa manifestarsi. La lirica, una canzonetta di settenari ( schema ritmico "abc abc" nella fronte, "ddc" nella sirima; l'ultimo verso della fronte rima con l'ultimo della sirima) , si articola in tre principali nuclei tematici. Nella prima parte( vv. 1-45), il poeta svolge il motivo della contemplazione intima e sofferta della donna amata : attraverso un processo di interiorizzazione, il poeta “dipinge “ nel proprio cuore l’immagine della donna amata (“ così, bella, facc’eo, che ‘nfra lo core meo porto la tua figura”, vv.7-9) la cui bellezza gli appare come un miracolo, che suscita nell'animo un sentimento di stupefazione, come se il poeta si trovasse al cospetto di una creatura ultraterrena. Alla gioia della contemplazione, si alterna poi il dolore, la pena di non riuscire ad esprimere, per timidezza e per pudore, il proprio sentimento di ammirazione e di dolcezza, e di doverlo perciò tenere segreto e nascosto quando egli le passa accanto e non osa guardarla. Nella seconda parte della lirica, ( vv. 46-54), il poeta manifesta la sincerità del suo sentimento d'amore contro le insinuazioni dei calunniatori. Nella terza parte della lirica ( vv. 55-63), costituita dal "congedo", il poeta rivolge alla donna amata una preghiera franca, decisa, nella speranza che ella gli faccia dono del suo caro amore. <br />
La penultima strofa dichiara l'intento della canzone e riassume nel motivo della lode la ragione <br />
profonda che l'ha ispirata. Il "congedo", segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica: la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che " firma" così la sua composizione. <br />
La struttura della lirica si rivela semplice grazie all’uso del verso settenario e alla presenza di un lessico non particolarmente difficile o tecnicistico. Pur nella complessiva semplicità del tessuto retorico, sono presenti studiate simmetrie tematiche e strutturali, basti pensare al motivo guida della straordinarietà dell’esperienza amorosa, cui corrispondono il desiderio del poeta di immortalare l’intensità del suo sentimento mediante versi d’amore e il riferimento alla raffigurazione dell’oggetto amato. Nel componimento non mancano, tuttavia, artifici stilistici ben individuabili, come l’uso della tecnica coblas capfinidas che si manifesta nel legame tra la prima e la seconda stanza (“ ‘nfra lo cor meo porto la tua figura”, vv.8-9; ”In cor par ch’eo vi porti pinta como parete”vv.10-11 ) e tra le stanze quarta e quinta ( “quando pass’ e non guardo a voi vis’amoroso”, vv.35-36 ; ”S’eo guardo, quando passo, in ver’voi , non mi giro” vv.36-38 ). Con la ripetizione del verbo "parere" ai versi 10 e 13, la canzone ribadisce il concetto della donna amata impressa nel cuore, tema che avrà molta fortuna nella evoluzione della lirica d’amore, fino allo Stilnovo. ll riferimento alla fede "come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante" (vv 25-27) prelude alla splendida metafora del fuoco del v.29 (“com'om che ten lo foco") , simbolo di una passione amorosa incontrastabile, che arde e consuma l’animo. E’ questa la tematica, tipicamente provenzale, della sofferenza d'amore, sviluppata in un senso più propriamente "psicologico" nella quinta strofa e mediata dal motivo dello "sguardo”, motivo che si arricchirà, nella poetica del Dolce Stil Novo, di nuovi intrinseci sviluppi. <br />
Ancora, nella quarta e quinta strofa emergono i motivi della segretezza dell’amore e della timidezza dell’amante : il poeta è incapace di comunicare il suo amore e si limita ad ammirare l’oggetto del desiderio di nascosto, fingendo di essere indifferente ("pare che io vi porti dipinta proprio come realmente siete, e di fuori non si vede nulla") .<br />
<b>CONTESTUALIZZAZIONE - APPROFONDIMENTO</b><br />
<br />
“ Meravigliosamente” rappresenta una canzone di “transizione” in quanto contiene ancora elementi della tradizione provenzale rivisti e rielaborati alla luce della nuova sensibilità poetica. Nei provenzali il rituale d’amore è modellato sull’omaggio feudale, e s’incentra sul rapporto tra il servizio d’amore e l’attesa di una ricompensa, investendo sessualmente anche il corpo della donna. Nella poesia della scuola siciliana il corpo della donna scompare del tutto: si realizza un'assoluta separazione tra la “figura”, ovvero l’immagine che il poeta porta nel cuore, e la persona della dama che egli rinuncia a guardare. Sul piano linguistico, la Scuola Siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico fatto di volgare locale mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del Trobar Clus e del Trobar Leu. Più tardi, nell’ambito del Dolce Stil Novo, Dante criticherà l’eccessivo riferimento da parte dei rimatori della Scuola Siciliana alla produzione lirica francese Valentina Riccardelli, Matteo Marcaccio III FUnknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-20779968575994137022015-10-13T19:57:00.003+02:002015-10-13T21:27:19.727+02:00TIPOLOGIA A : analisi testuale. G. Da Lentini "Amor è un[o] desio", dagli elaborati di Serena Capodiferro, Mario Massimo Cappuccia III E (A.S.2012-13)<b> PRESENTAZIONE DEL TESTO- COMPRENSIONE </b><br />
<br />
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’<b>amore</b>, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei <i>tòpoi </i>presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della <b>“pintura”</b>: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’<b>amor de lonh,</b> afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso. <br />
<b> B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE</b><br />
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il <i>topos</i> della <b>“pintura”</b>, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne. <br />
<b> C – CONTESTUALIZZAZIONE-</b> APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il<b> servitium amoris (servizio d'amore), </b>tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta. <br />
<br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-77615212274171340422015-10-13T19:57:00.000+02:002015-10-13T19:57:24.877+02:00TIPOLOGIA A : analisi testuale. G. Da Lentini "Amor è un[o] desio", dagli elaborati di Serena Capodiferro, Valerio Massimo Cappuccia III E (A.S.2012-13)<b> PRESENTAZIONE DEL TESTO- COMPRENSIONE </b><br />
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In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’<b>amore</b>, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei <i>tòpoi </i>presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della <b>“pintura”</b>: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’<b>amor de lonh,</b> afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso. <br />
<b> B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE</b><br />
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il <i>topos</i> della <b>“pintura”</b>, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne. <br />
<b> C – CONTESTUALIZZAZIONE-</b> APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il<b> servitium amoris (servizio d'amore), </b>tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta. <br />
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Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-70063423564798219712015-10-13T19:45:00.001+02:002015-10-13T19:58:49.015+02:00MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F (A.S.2012-13)MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. ANALISI TESTUALE tratta dagli elaborati di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F<br />
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Iacopo da Lentini, Meravigliosamente<br />
Meravigliosamente<br />
un amor mi distringe<br />
e mi tene ad ogn'ora.<br />
Com'om che pone mente<br />
in altro exemplo pinge 5<br />
la simile pintura,<br />
così, bella, facc'eo,<br />
che 'nfra lo core meo<br />
porto la tua figura.<br />
In cor par ch'eo vi porti, 1 0<br />
pinta como parete,<br />
e non pare di fore.<br />
O Deo, co' mi par forte.<br />
Non so se lo sapete,<br />
con' v'amo di bon core: 15<br />
ch'eo son sì vergognoso<br />
ca pur vi guardo ascoso<br />
e non vi mostro amore.<br />
Avendo gran disio,<br />
dipinsi una pintura, 20<br />
bella, voi simigliante,<br />
e quando voi non vio<br />
guardo 'n quella figura,<br />
e par ch'eo v'aggia avante:<br />
come quello che crede 25<br />
salvarsi per sua fede,<br />
ancor non veggia inante.<br />
Al cor m'arde una doglia<br />
com'om che ten lo foco<br />
a lo suo seno ascoso, 30<br />
e quando più lo 'nvoglia,<br />
allora arde più loco<br />
e non pò stare incluso:<br />
similemente eo ardo<br />
quando pass'e non guardo 35<br />
a voi, vis'amoroso.<br />
S'eo guardo, quando passo,<br />
inver voi, no mi giro,<br />
bella, per risguardare.<br />
Andando, ad ogni passo 40<br />
getto uno gran sospiro<br />
che facemi ancosciare;<br />
e certo bene ancoscio,<br />
c'a pena mi conoscio,<br />
tanto bella mi pare.<br />
Assai v'aggio laudato,<br />
madonna, in tutte parti<br />
di bellezze ch'avete.<br />
Non so se v'è contato<br />
ch'eo lo faccia per arti, 50<br />
che voi pur v'ascondete.<br />
Sacciatelo per singa,<br />
zo ch'eo no dico a linga,<br />
quando voi mi vedrite.<br />
Canzonetta novella, 55<br />
va' canta nova cosa;<br />
lèvati da maitino<br />
davanti a la più bella,<br />
fiore d'ogni amorosa,<br />
bionda più c'auro fino:60<br />
«Lo vostro amor, ch'è caro,<br />
donatelo al Notaro<br />
ch'è nato da Lentino».<br />
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PRESENTAZIONE DEL TESTO "Meravigliosamente" è una lirica composta da Jacopo Da Lentini (Siracusa, 1210 – 1260), notaio alla corte di Federico II di Svevia. Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio, vv. 55-57,come autorevole rappresentazione della Scuola Siciliana: "O frate, issa vegg'io, diss' egli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me riten ne di qua dal dolce stil novo ch'i odo !" Codificò le forme metriche della canzone, e fu probabilmente l'inventore del sonetto. La lirica "Meravigliosamente" affronta il tema, tipicamente provenzale, dell'innamorato timido che non osa esprimere all'amata i propri sentimenti. Questi, però, si rivelano egualmente attraverso gli sguardi, i sospiri e i pianti. Per placare la passione struggente che lo avvolge, il poeta dice di aver riprodotto dentro di sé l’immagine della sua donna , dal cui vagheggiamento deriva un’emozione di gioia pari a quella che uno spirito credente trae dalla fede. La figura interiore è così nitida e ben presente che il poeta incontrando la reale persona dell’amata, può anche fare a meno di guardarla, per eccesso di timidezza : la bellezza di lei è tanto grande che il cuore quasi non può sostenerla, e un tremore assale il poeta, il tremore che si prova di fronte alle cose che sembrano appartenere ad una realtà più grande di quella che comunemente viviamo. L'avverbio " meravigliosamente", che occupa per esteso il primo verso, per la sua posizione isolata che accentra vivamente su di sé l’attenzione e per il suo ritmo lentamente modulato, introduce un'atmosfera di eccezione, di fuor dell’usato, che corrisponde alla " nova cosa" del v. 56, nel congedo. Meravigliosamente rappresenta una delle liriche migliori di Giacomo da Lentini: un’intima e accorata confessione d’amore sotto forma di monologo interiore che si risolve nel dolce e malinconico vagheggiamento della donna amata.<br />
<br />
ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE (livello metrico - ritmico/ stilistico-retorico) <br />
Meravigliosamente è una “canzonetta” apparentemente leggera , sia per la leggerezza del ritmo, <br />
che per l’ umana verità del sentimento ; essa rappresenta, tuttavia, il nuovo modo di cantare l’amore, in cui i precedenti trobadorici sono rielaborati con raffinata leggerezza e spinti ad analizzare la questione amorosa principalmente in termini di indagine interiore e di affinamento spirituale: il poeta tende ad esprimere i risvolti psicologici e interiori dell’esperienza amorosa, il momento in cui essa è pura contemplazione e non osa manifestarsi. La lirica, una canzonetta di settenari ( schema ritmico "abc abc" nella fronte, "ddc" nella sirima; l'ultimo verso della fronte rima con l'ultimo della sirima) , si articola in tre principali nuclei tematici. Nella prima parte( vv. 1-45), il poeta svolge il motivo della contemplazione intima e sofferta della donna amata : attraverso un processo di interiorizzazione, il poeta “dipinge “ nel proprio cuore l’immagine della donna amata (“ così, bella, facc’eo, che ‘nfra lo core meo porto la tua figura”, vv.7-9) la cui bellezza gli appare come un miracolo, che suscita nell'animo un sentimento di stupefazione, come se il poeta si trovasse al cospetto di una creatura ultraterrena. Alla gioia della contemplazione, si alterna poi il dolore, la pena di non riuscire ad esprimere, per timidezza e per pudore, il proprio sentimento di ammirazione e di dolcezza, e di doverlo perciò tenere segreto e nascosto quando egli le passa accanto e non osa guardarla. Nella seconda parte della lirica, ( vv. 46-54), il poeta manifesta la sincerità del suo sentimento d'amore contro le insinuazioni dei calunniatori. Nella terza parte della lirica ( vv. 55-63), costituita dal "congedo", il poeta rivolge alla donna amata una preghiera franca, decisa, nella speranza che ella gli faccia dono del suo caro amore. <br />
La penultima strofa dichiara l'intento della canzone e riassume nel <b>motivo della lode</b> la ragione <br />
profonda che l'ha ispirata. Il "congedo", segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica: la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che " firma" così la sua composizione. <br />
La struttura della lirica si rivela semplice grazie all’uso del verso settenario e alla presenza di un lessico non particolarmente difficile o tecnicistico. Pur nella complessiva semplicità del tessuto retorico, sono presenti studiate simmetrie tematiche e strutturali, basti pensare al motivo guida della straordinarietà dell’esperienza amorosa, cui corrispondono il desiderio del poeta di immortalare l’intensità del suo sentimento mediante versi d’amore e il riferimento alla raffigurazione dell’oggetto amato. Nel componimento non mancano, tuttavia, artifici stilistici ben individuabili, come l’uso della tecnica coblas capfinidas che si manifesta nel legame tra la prima e la seconda stanza (“ ‘nfra lo cor meo porto la tua figura”, vv.8-9; ”In cor par ch’eo vi porti pinta como parete”vv.10-11 ) e tra le stanze quarta e quinta ( “quando pass’ e non guardo a voi vis’amoroso”, vv.35-36 ; ”S’eo guardo, quando passo, in ver’voi , non mi giro” vv.36-38 ). Con la ripetizione del verbo "parere" ai versi 10 e 13, la canzone ribadisce il concetto della donna amata impressa nel cuore, tema che avrà molta fortuna nella evoluzione della lirica d’amore, fino allo Stilnovo. ll riferimento alla fede "come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante" (vv 25-27) prelude alla splendida metafora del fuoco del v.29 (“com'om che ten lo foco") , simbolo di una passione amorosa incontrastabile, che arde e consuma l’animo. E’ questa la tematica, tipicamente provenzale, della sofferenza d'amore, sviluppata in un senso più propriamente "psicologico" nella quinta strofa e mediata dal motivo dello "sguardo”, motivo che si arricchirà, nella poetica del Dolce Stil Novo, di nuovi intrinseci sviluppi. <br />
Ancora, nella quarta e quinta strofa emergono i motivi della segretezza dell’amore e della timidezza dell’amante : il poeta è incapace di comunicare il suo amore e si limita ad ammirare l’oggetto del desiderio di nascosto, fingendo di essere indifferente ("pare che io vi porti dipinta proprio come realmente siete, e di fuori non si vede nulla") .<br />
CONTESTUALIZZAZIONE - APPROFONDIMENTO : Cenni sulla Scuola Siciliana.<br />
“ Meravigliosamente” rappresenta una canzone di “transizione” in quanto contiene ancora elementi della tradizione provenzale rivisti e rielaborati alla luce della nuova sensibilità poetica. Nei provenzali il rituale d’amore è modellato sull’omaggio feudale, e s’incentra sul rapporto tra il servizio d’amore e l’attesa di una ricompensa, investendo sessualmente anche il corpo della donna. Nella poesia della scuola siciliana il corpo della donna scompare del tutto: si realizza un'assoluta separazione tra la “figura”, ovvero l’immagine che il poeta porta nel cuore, e la persona della dama che egli rinuncia a guardare. Sul piano linguistico, la Scuola Siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico fatto di volgare locale mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del Trobar Clus e del Trobar Leu. Più tardi, nell’ambito del Dolce Stil Novo, Dante criticherà l’eccessivo riferimento da parte dei rimatori della Scuola Siciliana alla produzione lirica francese Valentina Riccardelli, Matteo Marcaccio III FUnknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-64222808829235500962015-10-09T20:21:00.000+02:002015-10-09T20:21:34.944+02:00DANTE ALIGHIERI (1265-1321) - Biografia (cfr.V. de Caprio-S.Giovanardi, I Testi della Letteratura italiana, vol. 1)<b>PRIMA FASE: TEMPO DELLA GIOVINEZZA (1265- 1290).</b><br />
DANTE ALIGHIERI (diminutivo di Durante) nacque a Firenze nell'ultima settimana di maggio, o nella prima di giugno del 1265, da Alighiero II degli Alighieri appartenente alla piccola nobiltà cittadina appena agiata, e da Bella (forse degli Abati). Firenze, città guelfa per tradizione, stava allora per uscire dall’esperienza di sei anni di dominio ininterrotto della fazione ghibellina (dalla BATTAGLIA DI MONTAPERTI, 1260- alla BATTAGLIA DI BENEVENTO 1266) e si avviava a registrare, nei tre decenni successivi, una fioritura economica, uno sviluppo urbano e sociale, una evoluzione politica tali da trasformarne la fisionomia e la vita pubblica. Di tale trasformazione furono presto protagonisti i nuovi ceti emergenti: accanto al ceto magnatizio, si afferma gradualmente la ricca borghesia mercantile e bancaria, nata intorno all’industria e alla lavorazione della lana e organizzata nelle “Arti del Cambio”, “Arte di Calimala”, “Arte della Lana”; la ricca borghesia , ceto produttivo della città, confluiva nel “popolo grasso” che, con le arti medie e minori, trovava fonte di arricchimento nelle attività indotte dall’impresa capitalistica; c’erano infine le grandi masse di inurbati attratti dalla possibilità di guadagno. Dante degli Alighieri , che perse ancora bambino la madre e nel 1277 (12 anni) fu promesso in sposo a Gemma Donati (il matrimonio avvenne intorno al 1285), trascorse la sua adolescenza sullo sfondo di quella realtà pubblica in continua evoluzione e talvolta tumultuosa. Dopo i falliti tentativi di governo misto o "proporzionale", la vita politica di Firenze saldamente in mano guelfa (fazione politica filopapale), fu sempre più segnata dagli scontri, anche armati tra le famiglie magnatizie (I Magnati), sia di antica estrazione feudale, sia di origine borghese. L'antagonismo tra le famiglie magnatizie, male endemico dello scenario politico fiorentino, culminò più tardi con drammatica evidenza nel 1297 nella contrapposizione tra la famiglia dei Cerchi e quella dei Donati: i primi sostenevano una moderata autonomia nei confronti papali; al contrario, i Donati incoraggiavano l'espansione del potere temporale del Papa in Toscana e in Firenze. Intanto, la politica espansionistica della città si concretizzò nelle guerre contro le città nemiche di Arezzo e Pisa, nelle quali il giovane Alighieri prestò il suo servizio in armi, partecipamdo nell'estate del 1289 alla Battaglia di Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo (inf. canto XXI) e alla presa di torre Caprona,contro i Ghibellini di Pisa. Alla battaglia per la presa di Caprona, il poeta era uno dei quattrocento cavalieri e 2000 pedoni della milizia fiorentina che posero l'assedio alla piazzaforte pisana. L'Alighieri cita la circostanza nel XXI canto dell'inferno della Divina Commedia e si compiace ripensando ai ghibellini sconfitti, usciti dal castello tra le schiere dei vincitori. Dante trascorse l’ adolescenza e la prima giovinezza nelle occupazioni culturali consuete dei giovani del suo ambiente: studiò le ARTI del TRIVIO: GRAMMATICA, RETORICA, DIALETTICA; quindi le ARTI DEL QUADRIVIO: aritmetica, geometria, musica, astronomia. In Toscana, e in particola modo in Firenze, egli trovò il terreno fertile per la sua formazione culturale, attraverso la frequentazione di illustri maestri, primo fra tutti BRUNETTO LATINI. Negli anni della giovinezza trascorsi a Firenze Dante fu attratto dalla poesia, tipica esperienza culturale dei giovani dotti del tempo: da queste prime esperienze culturali nascono le RIME (avviate già a partire dal 1283 e continuate fino al 1307- 1308) le quali si modellano, specialmente all’inizio, sull’insegnamento di GUITTONE D’AREZZO, poeta toscano d’amore, di politica, di tematiche a carattere civile, di moralità, di religione. Non meno importante l’influenza sul giovane poeta di GUIDO CAVALCANTI, amico di Dante e di GUIDO GUINIZZELLI. A questo periodo (1283), risale l’incontro di Dante con Beatrice Portinari: alla giovinetta fiorentina egli dedicò un sentimento amoroso tanto forte e profondo che durò oltre la morte della donna avvenuta nel 1290, a soli 24 anni, segnando in maniera indelebile tutta la sua esistenza di uomo e di artista. Beatrice divenne la creatura angelicata più rappresentativa del Dolce Stil Novo, la scuola poetica di cui Dante, insieme con Guido cavalcanti, divenne il poeta più rappresentativo. A seguito della morte di Beatrice Dante entrò in una fase di profonda crisi spirituale, di traviamento interiore; riuscì a superare il difficile momento grazie allo studio della Filosofia che giudicò una scoperta illuminante e feconda, la sola dottrina capace di donare felicità e salvezza a chi la conquista. Studiò le opere di S. Agostino, di Cicerone ( in particolare il De Amicitia), di Boezio( il“ De consolatione philosophiae”). Inoltre, si avvicinò allo studio dei maggiori rappresentanti della FILOSOFIA SCOLASTICA medievale: studiò ARISTOTELE attraverso la decodificazione in chiave cristiana fatta nel Medioevo da San Tommaso d’Aquino. La filosofia aristotelico-tomistica costituirà il terreno più fecondo su cui poggia e si alimenta la sua produzione letteraria. Lo studio della filosofia aristotelica indusse il poeta ad acquisire una visione più razionalistica dell’esistenza umana e allo stesso tempo gli fece acquisire coscienza delle proprie responsabilità politico-civili. Frequentò le scuole filosofiche degli ecclesiastici: la Scuola dei Francescani in Santa Croce, dove si interessò alle dottrine platoniche, e la Scuola dei Domenicani in Santa Maria Novella orientata a studi aristotelici. Nel 1295 Dante sposò Gemma Donati, figlia di Manetto Donati, appartenente ad un ramo laterale della potente famiglia di Corso Donati, capo del partito dei Guelfi Neri. Dal matrimonio nacquero tre figli: Pietro, il primogenito, commentò in latino il poema paterno, Jacopo scrisse le chiose all’Inferno, Antonia divenne suora col nome di Beatrice. <br />
<b><br />
SECONDA FASE: TEMPO DELL’IMPEGNO POLITICO-CIVILE (1295-1302).</b> L’attività politica di Dante ha inizio nel 1295, allorché il poeta inizia ad interessarsi alle vicende cittadine, manifestando fin dall’inizio un carattere nettamente antimagnatizio. A Firenze si erano promulgati, nel 1293, Gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella ,di ispirazione popolare, che miravano a limitare la presenza magnatizia nel governo della città, escludendo molti illustri magnati e cavalieri dalle cariche pubbliche. Gli Ordinamenti, infatti, ponevano come condizione per chi volesse partecipare al governo cittadino l’iscrizione ad una corporazione di Arte; Dante iniziò la sua carriera politica iscrivendosi ala Corporazione dei Medici e Speziali. A Firenze i conflitti tra le famiglie dei Magnati, particolarmente evidenti nella contrapposizione tra i CERCHI e i DONATI, si esasperarono nella primavera-estate del 1300, con la divisione dell’intera cittadinanza in parte bianca, capeggiata da VIERI DE’ CERCHI e in parte nera capeggiata dal violento e fazioso CORSO DONATI. Dante, che vedeva nel prepotere dei Magnati e nell’ingerenza papale i due principali mali per la vita della città, si schierò dalla parte dei Guelfi Bianchi, che apparivano allora come i più moderati ed autonomi. Dal 15 giugno al 15 agosto 1300 Dante fu eletto tra i sei Priori di Firenze ( la più alta carica cittadina, i più alti magistrati del Comune) e a seguito dei sanguinosi scontri cittadini avvenuti alla vigilia di San Giovanni , egli fu costretto a comminare l’esilio ai capi delle due fazioni, che ancora attentavano alla sicurezza della città. Tra questi fu anche Guido Cavalcanti che pochi mesi dopo fu riammesso a Firenze, dove morì entro l’anno. Nel 1301 si verificano Firenze degli avvenimenti che imposero alla vita di Dante una scelta decisiva. I Bianchi, saliti al potere, accolsero con sospetto al discesa in Italia di Carlo d’Angiò chiamato dal Papa Bonifacio VIII a fare da paciere tra le due fazioni. Il sospetto dei Guelfi Bianchi era quello che il re francese, sollecitato dal Papa, si sarebbe alleato con gli esuli Guelfi neri al fine di riconquistare il potere della città. I Guelfi bianchi, allora, inviarono a Roma un’Ambasceria ( di cui faceva parte lo stesso Dante), con lo scopo di valutare meglio le intenzioni di Bonifacio VIII. I sospetti della fazione bianca erano fondati: nel novembre 1301,durante l’assenza di Dante, trattenuto a Roma dal Pontefice, le truppe di Carlo d’Angiò aiutarono i Neri a rientrare in città con la forza e a prendereil sopravvento. - I beni di parte bianca furono requisiti, e il 27 gennaio 1302 Dante e altri capi bianchi vennero condannati all’interdizione dai pubblici uffici e al pagamento di una multa di 5000 fiorini per l’accusa di “baratteria” (interesse privato in atti d’Ufficio e peculato); il 10 marzo 1302 la pena fu mutata in condanna al rogo e confisca dei beni. Da allora Dante, che forse era ancora sulla via del ritorno da Roma, non rientrò mai più a Firenze. <br />
<br />
<b>TERZA FASE: TEMPO DELL’ ESILIO (1302-1321).</b> Tra il 1302 e il 1304 Dante partecipò a numerosi tentativi di rientrare a Firenze con la forza delle armi, unendosi ai fuoriusciti ghibellini e agli esuli bianchi. Successivamente, venuto in contrasto per divergenze di vedute, si staccò da essi e fece “parte per se stesso”. Da allora cominciò a girovagare per le corti dei signori dell’Italia centro settentrionale in cerca di protezione e di sostegno economico: fu a Verona, ospite del potente Cangrande Della Scala, vicario imperiale (al quale il poeta dedicò il Paradiso, appena iniziato), in Lunigiana presso i Malaspina, a Ravenna, attratto dalla tranquillità di quella sede e dal prestigio del circolo letterario raccolto intorno al signore della città, Guido Novello da Polenta. Tra 1310-1313 la discesa in Italia del’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, condotta per sedare le guerre civili in Lombardia e in Toscana e per ripristinare l’autorità imperiale aveva alimentato in Dante forti speranze di poter finalmente rientrare in Firenze. Purtroppo l’impresa italiana di Arrigo VII fallì, e con essa anche le ultime speranze di Dante. Nel 1315 Dante rifiutò di approfittare di un’amnistia a condizioni indegne a favore degli esuli pentiti: la conseguenza fu la condanna a morte per Dante e i suoi figli maschi. Dante morì tra il 13 e il 14 settembre 1321. Guido Novello da Polenta volle per lui solenni funerali, e i poeti di Romagna fecero a gara per la composizione dell’epitaffio; fu sepolto a Ravenna, presso il convento della Chiesa di San Francesco. <br />
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<b>PRODUZIONE LETTERARIA - OPERE IN LINGUA LATINA. </b><br />
De Monarchia (trattato politico) 1313-1318; De vulgari Eloquentia (trattato sulla lingua e sullo stile della poesia)1304-1308; Epistole 1306-1317 ( di particolare rilievo è l’Epistola XIII a Cangrande della Scala, 1315-1317); Egloghe (poesie in esametri) 1319-1321; De situ et forma aque et terre (lezione di argomento scientifico) 1320; <br />
OPERE IN LINGUA VOLGARE Vita Nuova (prosimetro, primo esempio di “canzoniere” ) 1293-1294; Rime (componimenti sparsi) 1283…; Convivio (trattato filosofico scientifico, a carattere enciclopedico) 1304-1308; La Commedia (poema sacro) 1307? <br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-53489974012561559562015-10-09T19:59:00.002+02:002015-10-09T20:13:08.310+02:00DANTE ALIGHIERI (1265-1321) - Biografia <b>PRIMA FASE: TEMPO DELLA GIOVINEZZA (1265- 1290).</b><br />
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<b>DANTE ALIGHIERI</b> (diminutivo di Durante) nacque a Firenze nell'ultima settimana di maggio, o nella prima di giugno del 1265, da Alighiero II degli Alighieri appartenente alla piccola nobiltà cittadina appena agiata, e da Bella (forse degli Abati). Firenze, città guelfa per tradizione, stava allora per uscire dall’esperienza di sei anni di dominio ininterrotto della fazione ghibellina (dalla BATTAGLIA DI MONTAPERTI, 1260- alla BATTAGLIA DI BENEVENTO 1266) e si avviava a registrare, nei tre decenni successivi, una fioritura economica, uno sviluppo urbano e sociale, una evoluzione politica tali da trasformarne la fisionomia e la vita pubblica. Di tale trasformazione furono presto protagonisti i nuovi ceti emergenti: accanto al ceto magnatizio, si afferma gradualmente la ricca borghesia mercantile e bancaria, nata intorno all’industria e alla lavorazione della lana e organizzata nelle “Arti del Cambio”, “Arte di Calimala”, “Arte della Lana”; la ricca borghesia , ceto produttivo della città, confluiva nel “popolo grasso” che, con le arti medie e minori, trovava fonte di arricchimento nelle attività indotte dall’impresa capitalistica; c’erano infine le grandi masse di inurbati attratti dalla possibilità di guadagno. Dante degli Alighieri , che perse ancora bambino la madre e nel 1277 (12 anni) fu promesso in sposo a Gemma Donati (il matrimonio avvenne intorno al 1285), trascorse la sua adolescenza sullo sfondo di quella realtà pubblica in continua evoluzione e talvolta tumultuosa. Dopo i falliti tentativi di governo misto o "proporzionale", la vita politica di Firenze saldamente in mano guelfa (fazione politica filopapale), fu sempre più segnata dagli scontri, anche armati tra le famiglie magnatizie (I Magnati), sia di antica estrazione feudale, sia di origine borghese. L'antagonismo tra le famiglie magnatizie, male endemico dello scenario politico fiorentino, culminò più tardi con drammatica evidenza nel 1297 nella contrapposizione tra la famiglia dei Cerchi e quella dei Donati: i primi sostenevano una moderata autonomia nei confronti papali; al contrario, i Donati incoraggiavano l'espansione del potere temporale del Papa in Toscana e in Firenze. Intanto, la politica espansionistica della città si concretizzò nelle guerre contro le città nemiche di Arezzo e Pisa, nelle quali il giovane Alighieri prestò il suo servizio in armi, partecipando nell'estate del 1289 alla Battaglia di Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo (Inf. canto XXI) e alla presa di torre Caprona,contro i Ghibellini di Pisa. Alla battaglia per la presa di Caprona, il poeta era uno dei quattrocento cavalieri e 2000 pedoni della milizia fiorentina che posero l'assedio alla piazzaforte pisana. L'Alighieri cita la circostanza nel XXI canto dell'inferno della Divina Commedia e si compiace ripensando ai ghibellini sconfitti, usciti dal castello tra le schiere dei vincitori. Dante trascorse l’ adolescenza e la prima giovinezza nelle occupazioni culturali consuete dei giovani del suo ambiente: studiò le ARTI del TRIVIO: GRAMMATICA, RETORICA, DIALETTICA; quindi le ARTI DEL QUADRIVIO: aritmetica, geometria, musica, astronomia. In Toscana, e in particola modo in Firenze, egli trovò il terreno fertile per la sua formazione culturale, attraverso la frequentazione di illustri maestri, primo fra tutti BRUNETTO LATINI. Negli anni della giovinezza trascorsi a Firenze Dante fu attratto dalla poesia, tipica esperienza culturale dei giovani dotti del tempo: da queste prime esperienze culturali nascono le RIME (avviate già a partire dal 1283 e continuate fino al 1307- 1308) le quali si modellano, specialmente all’inizio, sull’insegnamento di GUITTONE D’AREZZO, poeta toscano d’amore, di politica, di tematiche a carattere civile, di moralità, di religione. Non meno importante l’influenza sul giovane poeta di GUIDO CAVALCANTI, amico di Dante e di GUIDO GUINIZZELLI. A questo periodo (1283), risale l’incontro di Dante con Beatrice Portinari: alla giovinetta fiorentina egli dedicò un sentimento amoroso tanto forte e profondo che durò oltre la morte della donna avvenuta nel 1290, a soli 24 anni, segnando in maniera indelebile tutta la sua esistenza di uomo e di artista. Beatrice divenne la creatura angelicata più rappresentativa del Dolce Stil Novo, la scuola poetica di cui Dante, insieme con Guido cavalcanti, divenne il poeta più rappresentativo. A seguito della morte di Beatrice Dante entrò in una fase di profonda crisi spirituale, di traviamento interiore; riuscì a superare il difficile momento grazie allo studio della Filosofia che giudicò una scoperta illuminante e feconda, la sola dottrina capace di donare felicità e salvezza a chi la conquista. Studiò le opere di <b>S. Agostino</b>, di <b>Cicerone</b> ( in particolare il De Amicitia), di Boezio( il“ De consolatione philosophiae”). Inoltre, si avvicinò allo studio dei maggiori rappresentanti della FILOSOFIA SCOLASTICA medievale: studiò ARISTOTELE attraverso la decodificazione in chiave cristiana fatta nel Medioevo da San Tommaso d’Aquino. La filosofia aristotelico-tomistica costituirà il terreno più fecondo su cui poggia e si alimenta la sua produzione letteraria. Lo studio della filosofia aristotelica indusse il poeta ad acquisire una visione più razionalistica dell’esistenza umana e allo stesso tempo gli fece acquisire coscienza delle proprie responsabilità politico-civili. Frequentò le scuole filosofiche degli ecclesiastici: la Scuola dei Francescani in Santa Croce, dove si interessò alle dottrine platoniche, e la Scuola dei Domenicani in Santa Maria Novella orientata a studi aristotelici. Nel 1295 Dante sposò Gemma Donati, figlia di Manetto Donati, appartenente ad un ramo laterale della potente famiglia di Corso Donati, capo del partito dei Guelfi Neri. Dal matrimonio nacquero tre figli: Pietro, il primogenito, commentò in latino il poema paterno, Jacopo scrisse le chiose all’Inferno, Antonia divenne suora col nome di Beatrice. <br />
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<b>SECONDA FASE: TEMPO DELL’IMPEGNO POLITICO-CIVILE (1295-1302).</b> L’attività politica di Dante ha inizio nel 1295, allorché il poeta inizia ad interessarsi alle vicende cittadine, manifestando fin dall’inizio un carattere nettamente antimagnatizio. A Firenze si erano promulgati, nel 1293, Gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella ,di ispirazione popolare, che miravano a limitare la presenza magnatizia nel governo della città, escludendo molti illustri magnati e cavalieri dalle cariche pubbliche. Gli Ordinamenti, infatti, ponevano come condizione per chi volesse partecipare al governo cittadino l’iscrizione ad una corporazione di Arte; Dante iniziò la sua carriera politica iscrivendosi ala Corporazione dei Medici e Speziali. A Firenze i conflitti tra le famiglie dei Magnati, particolarmente evidenti nella contrapposizione tra i CERCHI e i DONATI, si esasperarono nella primavera-estate del 1300, con la divisione dell’intera cittadinanza in parte bianca, capeggiata da VIERI DE’ CERCHI e in parte nera capeggiata dal violento e fazioso CORSO DONATI. Dante, che vedeva nel prepotere dei Magnati e nell’ingerenza papale i due principali mali per la vita della città, si schierò dalla parte dei Guelfi Bianchi, che apparivano allora come i più moderati ed autonomi. Dal 15 giugno al 15 agosto 1300 Dante fu eletto tra i sei Priori di Firenze ( la più alta carica cittadina, i più alti magistrati del Comune) e a seguito dei sanguinosi scontri cittadini avvenuti alla vigilia di San Giovanni , egli fu costretto a comminare l’esilio ai capi delle due fazioni, che ancora attentavano alla sicurezza della città. Tra questi fu anche Guido Cavalcanti che pochi mesi dopo fu riammesso a Firenze, dove morì entro l’anno. Nel 1301 si verificano Firenze degli avvenimenti che imposero alla vita di Dante una scelta decisiva. I Bianchi, saliti al potere, accolsero con sospetto al discesa in Italia di Carlo d’Angiò chiamato dal Papa Bonifacio VIII a fare da paciere tra le due fazioni. Il sospetto dei Guelfi Bianchi era quello che il re francese, sollecitato dal Papa, si sarebbe alleato con gli esuli Guelfi neri al fine di riconquistare il potere della città. I Guelfi bianchi, allora, inviarono a Roma un’Ambasceria ( di cui faceva parte lo stesso Dante), con lo scopo di valutare meglio le intenzioni di Bonifacio VIII. I sospetti della fazione bianca erano fondati: nel novembre 1301, durante l’assenza di Dante, trattenuto a Roma dal Pontefice, le truppe di Carlo d’Angiò aiutarono i Neri a rientrare in città con la forza e a prendere il sopravvento. - I beni di parte bianca furono requisiti, e il 27 gennaio 1302 Dante e altri capi bianchi vennero condannati all’interdizione dai pubblici uffici e al pagamento di una multa di 5000 fiorini per l’accusa di “baratteria” (interesse privato in atti d’Ufficio e peculato); il 10 marzo 1302 la pena fu mutata in condanna al rogo e confisca dei beni. Da allora Dante, che forse era ancora sulla via del ritorno da Roma, non rientrò mai più a Firenze. <br />
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<b>TERZA FASE: TEMPO DELL’ ESILIO (1302-1321).</b> Tra il 1302 e il 1304 Dante partecipò a numerosi tentativi di rientrare a Firenze con la forza delle armi, unendosi ai fuoriusciti ghibellini e agli esuli bianchi. Successivamente, venuto in contrasto per divergenze di vedute, si staccò da essi e fece “parte per se stesso”. Da allora cominciò a girovagare per le corti dei signori dell’Italia centro settentrionale in cerca di protezione e di sostegno economico: fu a Verona, ospite del potente <b>Cangrande Della Scala</b>, vicario imperiale (al quale il poeta dedicò il Paradiso, appena iniziato), in Lunigiana presso i Malaspina, a Ravenna, attratto dalla tranquillità di quella sede e dal prestigio del circolo letterario raccolto intorno al signore della città, Guido Novello da Polenta. Tra 1310-1313 la discesa in Italia del’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, condotta per sedare le guerre civili in Lombardia e in Toscana e per ripristinare l’autorità imperiale aveva alimentato in Dante forti speranze di poter finalmente rientrare in Firenze. Purtroppo l’impresa italiana di Arrigo VII fallì, e con essa anche le ultime speranze di Dante. Nel 1315 Dante rifiutò di approfittare di un’amnistia a condizioni indegne a favore degli esuli pentiti: la conseguenza fu la condanna a morte per Dante e i suoi figli maschi. Dante morì tra il 13 e il 14 settembre 1321. Guido Novello da Polenta volle per lui solenni funerali, e i poeti di Romagna fecero a gara per la composizione dell’epitaffio; fu sepolto a Ravenna, presso il convento della Chiesa di San Francesco. <br />
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<b>PRODUZIONE LETTERARIA - OPERE IN LINGUA LATINA. </b><br />
<i><i>De Monarchia</i> </i>(trattato politico) 1313-1318; <b>De Vulgari Eloquentia <i></i></b>(trattato sulla lingua e sullo stile della poesia)1304-1308; <b>Epistole <i></i></b>1306-1317 ( di particolare rilievo è l’Epistola XIII a Cangrande della Scala, 1315-1317); <b>Egloghe</b> (poesie in esametri) 1319-1321; <b>De situ et forma aque et terre </b>(lezione di argomento scientifico) 1320.<br />
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<b>OPERE IN LINGUA VOLGARE</b> <b>Vita Nuova<i></i></b> (prosimetro, primo esempio di “canzoniere” ) 1293-1294;<b>Rime </b>(componimenti sparsi) 1283…; <b>Convivio</b> (trattato filosofico scientifico, a carattere enciclopedico) 1304-1308; <b> La Commedia </b>(poema sacro) 1307? <br />
Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7379553494493892545.post-22680671723016151222015-10-09T19:47:00.001+02:002015-10-09T19:47:53.424+02:00 ALESSANDRO MANZONI (1785-1873) - Cfr. De Caprio-Giovanardi, I testi della letteratura italiana, vol. 3, ed. “Einaudi”; Antonelli – Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2b, “La Nuova Italia”; appunti del docente.<br />
La lunga esistenza di Alessandro Manzoni appare spoglia di fatti rilevanti e raccolta in un alone di intimità domestica, gelosamente custodita. <b>Nato a Milano nel 1785 </b>dal conte Pietro Manzoni, proprietario terriero, e da Giulia Beccaria, figlia del marchese Cesare Beccaria, autore di uno dei capolavori dell’Illuminismo europeo, Dei delitti e delle pene (1764). Compie gli studi in collegio, dapprima presso i Padri Somaschi in Brianza, poi presso i Padri Barnabiti a Milano. Intanto la madre, separata legalmente dal padre,<b>si trasferisce a Parigi (1795)</b> con il conte Carlo Imbonati, senza portare con sé Il figlio. Il giovane Alessandro divenuto insofferente sia alla dura vita collegiale, sia al tipo di educazione ricevuta di stampo classicistico, non tardò a rivelare simpatie giacobine, palesi nella sua dichiarata volontà di diventare ateo. Lasciato definitivamente il collegio dei Barnabiti nel 1801, visse nella casa paterna dove ebbe modo di frequentare i grandi intellettuali del tempo, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, e alcuni intellettuali illuministi napoletani: Vincenzo Cuoco.<br />
<b> Nel 1805 </b>A. Manzoni, appresa la morte di Carlo Imbonati, compagno della madre, si trasferisce a Parigi. Qui viene a contatto con i salotti culturali più in vista della capitale francese, quindi ha modo di approfondire e di consolidare i propri IDEALI LIBERTARI E GIACOBINI, nonché il proprio ATEISMO ANTICLERICALE maturato negli anni della sua formazione culturale. <b>A Parigi il Manzoni frequenta il gruppo degli “Ideologi”, tra i quali ricordiamo Claude Fauriel </b>con il quale l’autore strinse un sodalizio umano ed intellettuale. Gli ideologi erano filosofi e scienziati di idee repubblicane, eredi della tradizione illuministica e fautori del principio di libertà individuale, pertanto ostili all’assolutismo del regime napoleonico.<br />
<b> Nel 1807 muore il padre,</b> Pietro Manzoni e il giovane Alessandro ne eredita il patrimonio.<br />
<b>Nel 1808 A. Manzoni sposa</b> con rito calvinista la sedicenne svizzera Enrichetta Blondel, dalla quale ebbe dieci figli. <br />
<b>Il 2 aprile 1810 </b>si verificò l’episodio destinato a entrare nella leggenda manzoniana: a Parigi, durante i festeggiamenti popolari per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, Alessandro, smarrita la moglie tra la folla, fu colpito da una terribile crisi di angoscia, prima manifestazione di quell’agorafobia che lo tormenterà per tutta la vita. La tradizione agiografica collega questo episodio al cosiddetto “Miracolo di San Rocco”, ovvero alla folgorazione divina che avrebbe colpito il Manzoni nella omonima chiesa parigina, spingendolo a convertirsi al cattolicesimo. In realtà i due momenti (smarrimento di Enrichetta Blondel; conversione religiosa) sono distinti tra loro: la conversione al cattolicesimo fu in Manzoni l’esito di un lungo percorso fatto di meditazioni filosofiche e morali; avvenne a costo di un sofferto travaglio interiore di cui fu testimone la moglie Enrichetta, che per prima si era avvicinata al cattolicesimo sotto la guida dell’abate giansenista Eustachio Degola, abiurando il calvinismo. La dottrina giansenista influenzò non poco il cattolicesimo di A. Manzoni, conferendo ad esso un accentuato rigore morale. <b>Il Ginsenismo </b>(da Giansenio, teologo olandese del XVII-XVIII sec.) appariva come una dottrina intermedia tra cattolicesimo e protestantesimo, sottolineava la necessità dell’intervento della <b>grazia divina </b>nei processi di redenzione umana e si connotava per la morale austera e rigorosa, in opposizione al lassismo dei costumi dei Gesuiti.<br />
<b>Nel giugno 1810 </b>la famiglia Manzoni rientrò definitivamente a Milano, dove aprì la propria casa di via Morone a poeti e letterati illustri come <b>Giovanni Berchet, Carlo Porta, Hermes Visconti, Tommaso Grossi.<br />
</b> Segue una fase di cocente delusione, in coincidenza dei moti risorgimentali del 1821, con i connessi processi politici; nonostante ciò, <b>il 1821 fu per il Manzoni un anno di intensa produzione artistica: </b>scrisse le due Odi politico-civili , Marzo 1821, il Cinque maggio; la seconda delle sue tragedie, l’Adelchi ; comincia la stesura del suo grande romanzo, Fermo e Lucia.<br />
<b> Nel 1827</b> trascorre un breve periodo (l’estate) a Firenze per la revisione linguistica (la famosa “risciacquatura” in Arno) del suo romanzo, I Promessi Sposi, apparsi in quell’anno in 1^ edizione.<br />
<b>Nei rimanenti 46 anni della sua vita (1827-1873), </b>Manzoni si dedicò ad opere saggistiche, specie nel campo degli studi linguistici: <b>tra il 1840 e il 1842 si colloca la definitiva edizione del romanzo I Promessi Sposi,</b> apparso in dispense e profondamente rivisto. Tuttavia, nuove disavventure familiari lo attendevano: la morte della moglie Enrichetta nel 1833 e della primogenita Giulia nel 1835; le dissipazioni finanziarie dei figli Filippo ed Enrico. <b>Nominato nel 1860 senatore del nuovo Regno d’Italia </b>da Vittorio Emanuele II, il Manzoni scandalizzò i cattolici più intransigenti per aver votato a favore sia del Regno d’Italia (1861) sia a favore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze(1864); e soprattutto accettando, nel 1872, la cittadinanza onoraria offertagli dal comune di Roma. Dopo essere passato attraverso numerosi altri lutti familiari,<b> Manzoni si spense quasi novantenne a Milano, il 22 maggio 1873.<br />
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</b><b>IL CATTOLICESIMO del Manzoni</b> gli consentì di approdare ad una religiosità profonda ed intensa: il Manzoni non rinnegò il suo retroterra culturale, filosofico e ideologico; piuttosto adattò gli ideali laici e giacobini della Rivoluzione francese - libertà, uguaglianza, fraternità – ad una nuova esigenza, suprema ed universale, di giustizia sociale, nel segno della morale cattolica. Il Dio del Manzoni è il Cristo fatto uomo, flagellato sulla croce per redimere i peccati di tutta l’umanità; Egli rappresenta la suprema garanzia di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale. Attraverso il sacrificio della croce, attraverso il perdono e la sua infinita misericordia, il Cristo ha offerto a tutti gli uomini, senza distinzioni di cultura, di razza o di censo, l’opportunità della salvezza ultraterrena, la possibilità di un riscatto dallo stato di contrizione del peccato. <br />
<b>LA CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO AVRÀ, DUNQUE, PER MANZONI, NON SOLTANTO UN VALORE ETICO, QUANTO ESTETICO: </b>tutta la realtà (la storia, la poetica, gli ideali umani e artistici) sarà trasfigurata dall’autore alla luce della nuova religiosità.<br />
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Il Manzoni, erede del meccanicismo materialista e del razionalismo illuministico, figlio di un’epoca storica segnata da laceranti conflitti politico-sociali (Rivoluzione francese, assolutismo napoleonico, dominazione austriaca) elabora, al pari del Foscolo, una visione profondamente pessimistica della condizione umana:la vita si configura spesso come un percorso doloroso e contraddittorio, segnato dall’insanabile contrasto tra il reale (ciò che siamo) e l’ideale ( ciò che vorremo che fossimo). Se il Foscolo risolve il lacerante dissidio tra ragione e spirito grazie all’intervento delle illusioni, i miti salvifici dell’uomo, il Manzoni riesce a smussare gli aspetti più cupi del suo pessimismo grazie alla scoperta della fede, alla rivelazione della Grazia divina, alla misericordia, grazie alla fiducia nella divina Provvidenza che attua l’armonico disegno di Dio. Il Manzoni risolve nella fede cristiana il proprio anelito all’ideale. <br />
<b>ANCHE DANTE, ALLA STREGUA DEL MANZONI, SOTTOLINEA IL CONCETTO DELLA DIVINA PROVVIDENZA, CHE TUTTO SUGGELLA. </b>Naturalmente ciò che contraddistingue i due grandi autori è la base filosofica, aristotelico - tomistica nel primo, illuministica nel secondo. In Manzoni abbiamo il segno di un Dio giusto, che permea col suo spirito tutto il creato; anche la sofferenza, intrinseca nell’esistenza dell’uomo, risponde ad un fine ultimo preordinato: tutto ciò che il Creatore ha tolto agli uomini, sarà restituito a piene mani. Il Manzoni, volto costantemente all’analisi critica e scientifica del reale, non poté non conquistare la sua fede in maniera sofferta e ragionata. Una fede non dogmatica, volta a cogliere il senso consolatorio e illuminante dell’eterna presenza di Dio nella vita degli uomini; una fede capace di accogliere in sé, in quanto sorgente di ogni ideale, anche le idee progressiste di stampo illuministico tanto care all’autore, secondo un sincretismo culturale tipicamente manzoniano.<br />
Il cristianesimo del Manzoni , dunque, è il recupero di un ideale cristiano evangelico che si manifesta nel costante richiamo ai principi e ai valori che avevano orientato la formazione culturale del giovane poeta: libertà, giustizia sociale, solidarietà umana. Da ciò deriva una poesia fortemente ancorata al “vero” storico; una poesia oggettiva, aliena da eccessivi slanci dello spirito e dalla tentazione di esaltare singole personalità ed esperienze straordinarie, in cui la voce dell’autore perde ogni connotazione individuale per farsi interprete di un punto di vista corale, per esprimere il rapporto tra Dio e il popolo.<br />
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