IL LEOPARDI PUÒ ESSERE DEFINITO IL PRIMO INTELLETTUALE “MODERNO” DELLA LETTERATURA ITALIANA
per il suo atteggiamento critico di fronte alla realtà, per il rifiuto di ogni facile consolazione di natura idealistica o spiritualistica, per la elaborazione di
• un concetto di “verità” negativa: il “vero” di A Silvia, l’”arido vero” che ricorre spesso nelle Operette Morali, “acerbo vero” dell’epistola Al conte Carlo Pepoli si identifica con una realtà di morte e di dolore, con i “ciechi destini” dell’universo, con tutto ciò che resta incompreso o viene rimosso dal senso comune e dal desiderio di felicità degli uomini: la verità è per il Leopardi una verità rigorosamente negativa, che funziona da deterrente nei confronti di qualsiasi valore positivo proposto dall’esistenza e dall’istinto di sopravvivenza del genere umano. La forza poetica della produzione leopardiana deriva proprio dalla presenza costante, ora esplicita, ora implicita , di questo mito negativo (la verità intesa come realtà negativa), che proietta su un piano assoluto ed estremo tutte le contraddittorie manifestazioni dell’esistenza.
Echi della poetica leopardiana, particolarmente in rapporto alla sua concezione essenzialmente e rigorosamente negativa del realtà, si colgono in “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale (1916) inclusa nella raccolta “Ossi di Seppia” :
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia
In questa lirica, infatti, il muro montaliano ha come illustre antecedente la siepe leopardiana de L'infinito: se quest’ultima, però, enfatizzava l'immaginazione di Leopardi nella misura in cui ne limitava lo sguardo, il muro del Montale lascia il poeta nell'ossessiva contemplazione della sua vana verticalità, del suo slancio verso l'alto, frustrato da quei cocci aguzzi di bottiglia in cui si riassume il senso dell'esistenza umana.
L’idea del “nulla” come principio e fine di tutte le cose è presente fin dalle prime pagine dello Zibaldone, anteriori addirittura al 1820 ( “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”).
• Accanto all’idea del “nulla”, altro tema dominante nella poetica leopardiana è quello della “morte”, valutata nei termini epicurei: ossia come un evento che pone fine a una vita attraversata dal dolore.
Nonostante la loro vicinanza logica, i concetti di “nulla” e di “morte” inducono il pensiero del Leopardi a differenti conclusioni: mentre la morte è concepita dal Leopardi come un evento essenzialmente privato ed individuale, all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA, l’idea del nulla comporta invece una apertura universale, una proiezione cosmica: il “nulla” provoca perciò un sentimento di smarrimento e di sgomento, la contemplazione atterrita e allo stesso tempo affascinata di una dimensione indeterminata che l’intelletto non arriva a padroneggiare e che eguaglia per grandezza la “visione” mentale dl cosmo e degli spazi siderali.
Tuttavia L’idea di infinito in Leopardi mantiene sempre un ancoraggio al dato empirico del “vedere”; anche le proiezioni astratte della mente, le visioni cosmiche, come quelle dell’Infinito, partono sempre da un dato visivo fisicamente riscontrabile nella realtà.
• Lo Stoicismo leopardiano. Un elemento rilevante è l’atteggiamento “stoico”, la lucida e dignitosa fermezza con cui il poeta rifiutò sempre ogni facile consolazione, ogni “pietoso inganno” che potesse distoglierlo anche solo per un attimo dalla contemplazione del tragico destino dell’uomo. Nasce da qui, probabilmente, quella vena eroica che attraversa per intero la produzione del poeta, dalla canzone giovanile “ All’Italia” (1818) fino alla “Ginestra”. Se nel caso della canzone del 1818 la prospettiva eroica sembra limitata al sacrificio per la patria e per i propri ideali, nelle liriche successive la vena eroica assume caratteri complessi, tanto da essere all’origine, secondo molti critici, di una vera e propria svolta poetica. Il Leopardi, in effetti, nutriva un’alta considerazione di sé e un forte desiderio di gloria: egli era consapevole della propria geniale diversità (vedi “Lettera a Pietro Giordani”, “Lettera a Monaldo Leopardi”), ma anche della propria dolorosa ed estrema infelicità; pertanto si sentiva doppiamente isolato rispetto agli altri uomini e coltivava tale isolamento a volte con dolore, a volte con esaltazione virile di chi solo fra tutti va fieramente incontro al proprio destino.
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