martedì 22 luglio 2014

AGLI ALUNNI DELLA IV E

Riporto di seguito due celeberrime poesie, rispettivamente di Pascoli e di Leopardi. Sono rivolte agli studenti che vorranno partecipare all'incontro di lunedì, 28 luglio, ore 19 . Prof. Cardaropoli


La mia sera - G. Pascoli, dai Canti di Castelvecchio
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! Che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

E, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la gàrrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Né io… e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don …Don… E mi dicono, Dormi!
Mi cantano, Dormi! Sussurrano
Dormi! Bisbigliano, Dormi!
Là, voci di tenebra azzurra….
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era…
sentivo mia madre…poi nulla…
sul far della sera.

b>L'infinito - G. Leopardi, dai Canti

Sempre caro mi fu quest'ermo colle
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare.





AGLI ALUNNI DELLA I A


Sottopongo all'attenzione degli alunni che vorranno partecipare all'incontro del 28 luglio - ore 19 - i brani da recitare. Prof. Cardaropoli




PROEMIO ILIADE
Traduzione di Vincenzo Monti

Càntami, o Diva, del Pelìde Achille,
l’ira funesta , che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atrìde e il divo Achille.


PROEMIO ODISSEA

Traduzione di Salvatore Quasimodo

Narrami, o Musa, l’uomo dall’agile mente
Che a lungo andò vagando, poi che cadde Troia,
la forte città, e di molte genti vide le terre
e conobbe la natura dell’anima, e molti dolori
patì nel suo cuore lungo le vie del mare,
lottando per tornare in patria coi compagni,
che per loro, folli, (come simili a fanciulli!),
non poté sottrarre alla morte,
poi che mangiarono i buoi del Sole, figlio del cielo,
che tolse loro il tempo del ritorno.
Questo narrami, o dea, figlia di Zeus,
e comincia di dove tu vuoi.

PROEMIO ENEIDE
Traduzione di Annibal Caro (1581)

L’armi canto e ‘l valor del grand’eroe
che pria da Troia, per destino, ai liti
d’Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errò, quanto sofferse, in quanti
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l’insuperabil forza
del cielo, e di Giunon l’ira tenace;
e con che dura e sanguinosa guerra
fondò la sua cittade, e gli suoi Dei
ripose in Lazio, onde cotanto crebbe
il nome de’ Latini, il regno d’Alba,
e le mura e l’imperio alto di Roma.
Musa, tu che di ciò sai le cagioni,
dimmi. Qual dolor, qual onta
fece la Dea, ch’è pur donna e regina
degli altri Dei, sì nequitosa ed empia
contra un sì pio? Qual suo nume l’espose
per tanti casi a tanti affanni? Ahi tanto
possono ancor là su l’ire e gli sdegni?



IL LAMPO
G. Pascoli, da Myricae

E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.


IL TUONO - G. Pascoli, da Myricae

E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.