venerdì 21 novembre 2014
G. LEOPARDI, LA GINESTRA o IL FIORE DEL DESERTO (1836)
Composto nel 1836 a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, dove il poeta era ospite di parenti dell’amico Ranieri, il canto è tradizionalmente considerato il testamento spirituale del poeta, che gli attribuisce il valore di un’ideale conclusione della sua lunga e travagliata ricerca: è lo stesso Leopardi che chiede esplicitamente a Ranieri di collocare la composizione come ultimo dei Canti nella edizione definitiva. Riprendendo il filo tematico e metaforico del “deserto” già presente nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e poi approfondito in “Amore e morte” (seconda lirica del “Ciclo di Aspasia”), il poeta costruisce una lunga e complessa allegoria a partire dalla ginestra, “fiore del deserto”. Se in “Amore e morte”, senza la presenza fisica dell’amata, l’esistenza umana si trasforma in un arido deserto, qui la semplice e umile ginestra simboleggia la vita che sa resistere stoicamente all’inospitalità dell’ambiente, negazione di ogni vita, e diviene metafora del poeta stesso.
La sua inusitata ampiezza (317versi), il confluire in esso di tutti gli elementi della visione del mondo elaborata da Leopardi nell'ultima fase della sua esistenza (1824-37), la solennità dell'andamento stilistico, la stessa epigrafe tratta dal vangelo di Giovanni, sembrano conferire al canto l'aspetto definitivo ed estremo di quella LETTERA A UN GIOVANE DEL VENTESIMO SECOLO che il poeta progettava fin dal 1827e che non scrisse mai.
L’occasione della poesia è offerta dalla viva impressione suscitata in Leopardi dalla fioritura della ginestra sulle pendici del Vesuvio. Il fragile fiore, sbocciato sulla lava che nel 79 d. C. distrusse Pompei, Ercolano e Stabia, è polemicamente contrapposto allo sciocco orgoglio degli uomini dell’Ottocento (“secol superbo e sciocco”) e alla loro ridicola, nonché ingenua illusione di ritenersi padroni dell'universo, mentre basta un improvviso movimento tellurico per distruggere, in un attimo, un’intera civiltà. Di qui la polemica contro l'idealismo progressista: in nome di una cieca e ottusa fiducia nella centralità dell'uomo (Antropocentrismo) e nella perfettibilità dell'universo, il secolo XIX avrebbe voltato le spalle alla linea di pensiero che dal Rinascimento aveva condotto alle conquiste civili del secolo dei lumi (la civiltà contemporanea è descritta sarcasticamente come trionfo dell’oscurantismo per i falsi miti del progresso e della religione ) . Al contrario, il genere umano dovrebbe prendere coscienza della propria fragilità, dell'infima consistenza di quel granello di sabbia che è la Terra in confronto all'immensità dell'universo, e unire tutte le sue forze contro la Natura “matrigna”, ostile e indifferente, impegnata in un ciclo perenne di autoperpetuazione. Solo da una loro partecipe solidarietà nella sconfitta, gli uomini potranno creare ordinamenti civili, finalmente giusti. La impressionante rievocazione dell'eruzione vulcanica mira a confermare la miseria della condizione umana: ecco allora l'apprensione del viandante che scruta la vetta fumante de Vesuvio, e il panico della gente che, non appena sente gorgogliare l'acqua nel pozzo, afferra frettolosamente le proprie cose e fugge lontano per sottrarsi all'empia furia della natura eternamente rigogliosa e incurante delle misere fatiche degli uomini. Se la tenera ginestra, conclude il poeta, soccomberà prima o poi dinanzi alla forza del vulcano, lo farà secondo un destino naturale, altrettanto naturalmente accettato, senza servili sottomissioni, ma anche senza orgoglio di chi si giudica immortale, riponendo un’ingenua ed eccessiva fiducia nel progresso.
Il quadro delle problematiche disegnate dal canto ha dato adito alle più svariate interpretazioni e ai giudizi critici più contrastanti: svalutato da Benedetto Croce , in quanto prevalentemente “non poetico” per le ampie manifestazioni di “pensiero” che ne inficerebbero la purezza lirica, fu poi usato da Cesare Luporini nel saggio “Leopardi progressivo” (1947) come prova del progressismo del poeta, che avrebbe preconizzato una sorta di confederazione degli umili come unico possibile futuro per le istituzioni civili e pubbliche dell'umanità. In realtà, se anche vi si può cogliere qualche slancio di utopismo neoilluministico, Leopardi combatte, nella Ginestra, la pretesa umanistica di stabilire valori positivi per l’esistenza umana e per il suo destino sociale: l'errore del secolo XIX è consistito nel non tener conto dell'operazione distruttiva compiuta dall' Illuminismo delle verità negative che da quella scuola di pensiero sono emerse, mentre l’ “arido vero” rimane pur sempre l'assoluta e incontrovertibile verità della condizione umana.
Leopardi esprime, infine, l’appassionata difesa di una civiltà fondata sulla ragione ( “ragione” intesa come fondamento del metodo interpretativo della realtà) , e volta a perseguire l’unico progresso che conti: quello di una convivenza civile basata sulla giustizia e sulla solidarietà tra gli esseri umani. La poesia fu pubblicata nell'edizione postuma dei canti curata da Ranieri (Firenze,1845).
EVOLUZIONE DEL PENSIERO IN LEOPARDI – TERZA FASE (1824- 1837)
- Sarcasmo nei confronti delle illusioni dei contemporanei
- L’unica forma di moralità autentica consiste nell’accettare la condizione umana senza illusorii ottimismi, legittimità del desiderio di morte
- Importanza dlla dimensione sociale dell’essere umano: gli uomini devoo essere solidali fra loro ed unirsi coraggiosamente contro la natura, nemico comune.
EVOLUZIONE DELLA POETICA LEOPARDIANA – TERZA FASE (1828-1837)
- Non più contrapposizioni, ma fusione tra Poesia e Filosofia
- La nuova poesia riflette sui grandi, universali temi della condizione umana, sulla morte e sulla infelicità assoluta
- Senso e funzione della poesia: indagare e comunicare agli uomini il “l’arido vero”.
(vv. 1-86)Qui sul fianco riarso del monte Vesuvio, tremendo annientatore, che nessun altro tipo di vegetazione rallegra, spargi i tuoi cespi solitari intorno, profumata ginestra, appagata dai deserti. Ti vidi anche un’altra volta adornare con i tuoi cespi le solitarie rovine che circondano la città che un tempo fu dominatrici di popoli (Roma), rovine che sembrano rendere al viandante, con il loro cupo e silenzioso aspetto, una testimonianza dell’antica potenza ormai perduta. Adesso torno a vedere in questo luogo te,o ginestra, che prediligi i luoghi tristi e abbandonati dalla gente, te che sei compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante, dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio;questi luoghi deserti furono un tempo villaggi prosperi e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, che offrirono gradita ospitalità al riposo dei potenti; e furono città famose (Pompei, Ercolano, Stabia) che il Vesuvio, lanciando torrenti di lava dal cratere che erutta fuoco, seppellì insieme agli abitanti. Oggi le rovine avvolgono il paesaggio desolato dove tu solo dimori, o fiore gentile e, quasi rivelando compassione per le altrui sciagure, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Chi ha l’abitudine di esaltare con stolido ottimismo la nostra condizione venga in queste campagne desolate e constati in che misura il genere umano stia a cuore alla natura che ci ama. E qui potrà anche giudicare opportunamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ più forti annientare del tutto. Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (IRONIA).
Vieni a guardare e a verificare le tue certezze in questi luoghi, secolo stolto e superbo, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e, volti i passi in opposta direzione, esalti il ritorno alle passate dottrine E chiami ciò progresso. Tutti gli intellettuali di cui il destino ingiusto ti rese padre esaltano il tuo ragionare infantile, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. Io non andrò sottoterra macchiato di una simile vergogna, ma avrò rilevato nel modo più esplicito il disprezzo che nutro verso di te, benché sia consapevole che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato ad essere dimenticato: nonostante io sappia che dimenticare preme chi alla propria età increbbe troppo. Dell’essere dimenticato, che con te sarà comune, fin da questo momento assai mi rido. O secolo sciocco e superbo elabori progetti di libertà politica e civile e nel contempo assoggetti a dogmi irrazionali quel pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto si avanza sulla strada della civiltà, la civiltà che sola rende migliore il destino della società. Non hai avuto la forza e il coraggio di accettare le conclusioni a cui era giunto il pensiero(il razionalismo illuministico), ossia che la natura ci ha assegnato una condizione dolorosa e infima nella gerarchia degli esseri. Per questo volgesti le spalle a quel pensiero filosofico che rese evidenti queste verità e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine (il materialismo illuministico) e, viceversa, chiami coraggioso colui che illudendo se stesso o gli altri, innalza, esaltandola, la condizione umana fino al cielo.
(vv.87-157) Un uomo di umile condizione ed infermo, che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti, non si vanta né si illude di essere ricco o forte e non ostenta ridicolmente una vita splendida o un fisico in piena salute fra la gente; ma senza vergognarsene non nasconde di essere debole e povero e si dichiara tale apertamente e giudica la sua condizione secondo quello che è in realtà. Non considero saggio e coraggioso, ma stolto quel essere vivente che, benché destinato a morire e cresciuto in mezzo ai dolori, dichiara di essere stato creato per provare piacere e stende scritti che trasudando orgoglio disgustoso, promettendo esaltanti destini e straordinarie felicità – quali non solo questa
terra, ma anche il cielo intero ignora – a popoli che un maremoto, un’epidemia, una scossa di terremoto distruggono in un modo tale che a stento rimane il ricordo di essi.
(vv.111)Considero indole nobile e dignitosa quella di colui che ha il coraggio di guardare in faccia il destino umano e che con franchezza, senza mistificazioni, o utopistiche illusioni, riconosce la sorte dolorosa e l’insignificante e fragile condizione che ci furono assegnate; (indole nobile è) quella che si rivela grande e forte nelle sofferenze (TITANISMO), che non ritiene responsabili delle proprie sciagure gli altri uomini, aggiungendo in questo modo alle sue miserie, già tanto numerose, odio e rancore tra fratelli, ossia un male ancora peggiore, ma attribuisce l'origine del dolore umano a colei che è la vera responsabile (la Natura), che è madre degli uomini, in quanto li ha generati, ma, per il trattamento che riserva loro, è da considerarsi alla stregua di una matrigna. (Indole nobile è quella che)Considera la natura una nemica, pensando, come del resto è, che la società umana si sia unita e organizzata all’origine per combattere e contrastare la natura,(indole nobile è quella che) ritiene che tutti gli uomini debbano essere alleati fra loro, e tutti abbraccia con amore vero, prestando valido e sollecito aiuto, e aspettandolo in cambio nei pericoli che a vicenda sovrastano gli uomini e nel dolore della lotta comune contro la natura. (indole nobile è quella che) Ritiene che sia da sciocchi armare la propria mano per contrastare un altro uomo e preparare insidie e danni al proprio vicino, così come sarebbe sciocco in un campo circondato da nemici, proprio mentre infuriano gli assalti, dimenticandosi di questi, aprire ostilità crudeli e feroci contro i propri compagni (Il pensiero del Leopardi si ricollega qui ai concetti roussoniani di fraternità e cosmopolismo) Questo modo di pensare (coraggioso e generoso) quando sarà, come fu agli inizi dell’umanità, evidente al popolo, e quando quel terrore (dei fenomeni naturali) che alle origini spinse gli uomini primitivi a stringere legami sociali contro le forze naturali ostili, sarà almeno parzialmente ripristinato da una sapienza conquistata con l'uso della ragione, l'onesta e la rettitudine dei rapporti sociali,(conversar cittadino),la giustizia e la pietà verso gli altri, avranno allora un fondamento (radice) ben diverso che non fantasie inconsistenti e superbe(superbe fole),fondandosi sulle quali l'onestà del popolo può reggersi (star suole in piedi) a malapena, così come può reggersi colui che si basa (ha la sede) sull'errore.
[...](v. 289)Così la natura sta immobile, sempre giovane, indifferente all’uomo, alle età che egli chiama antiche e al susseguirsi delle generazioni, o meglio, avanza anch’essa ma con un processo così lento che sembra stare immobile. Nel frattempo i regni, i popoli, le nazioni vanno in rovina; la natura assiste impassibile, e l’umanità rivendica a sé con arroganza il vanto dell’immortalità.
(vv.297-317) E tu, flessibile ginestra, che con i tuoi cespugli profumati adorni queste campagne desolate, anche tu presto soccomberai alla crudele possanza del fuoco sotterraneo, che ridiscendendo per il medesimo percorso stenderà il suo flutto infuocato, avido di distruggere e bruciare tutto quello che incontra, sui tuoi cespugli flessibili. E tu, senza opporre resistenza piegherai il tuo capo innocente sotto il peso della lava che provoca morte: ma non avrai piegato il tuo capo prima di allora per supplicare inutilmente in modo codardo davanti al fuoco della lava che sta per sopprimerti; ma non hai mai alzato il tuo capo con insensata presunzione alle stelle, né lo hai eretto sul deserto dove, non per tua volontà ma per caso, cresci e sei nata, ma tanto più saggia, tanto meno insensata dell’uomo, in quanto non hai mai avuto la presunzione di ritenere che la tua stirpe fosse stata resa immortale ad opera tua o del destino .
lunedì 17 novembre 2014
LEOPARDI, LE OPERE IN PROSA: LO ZIBALDONE, L’EPISTOLARIO, LE OPERETTE MORALI, I PENSIERI.
Lo Zibaldone rappresenta un libro “parallelo” sul quale il poeta registrava quotidianamente il frutto delle proprie riflessioni e dei suoi studi, nonché idee e figure, allo stato di abbozzo, della sua immaginazione poetica. Lo Zibaldone, dunque, costituisce un brogliaccio, una raccolta di appunti, un diario di “colloquio con me stesso”, come lo definì il poeta, scritto dal Leopardi tra il 1817-1832. Il primo passo datato risale al gennaio 1820 (otto gennaio), l’ultimo al quattro dicembre 1832. Lo Zibaldone appare una miniera preziosa di pensieri diversi che contengono in germe gli spunti tematici della maggior parte dei canti leopardiani; esso rappresenta un aspetto fondamentale e insostituibile di un incessante movimento di pensiero che poteva di volta in volta esprimersi nella forma sbrigativa dell’appunto “a penna corrente” o in quella elaborata e compiuta delle poesie e delle prose. Si può affermare che il Leopardi con lo Zibaldone abbia creato l’immenso repertorio meditativo dal quale avrebbe poi costantemente attinto una serie di “cellule” tematiche da sottoporre a un processo di formalizzazione letteraria. Si tratta, dunque, di un libro parallelo, che segue passo passo, come repertorio tematico e linguistico, la stesura delle opere vere e proprie e che risulta perciò di fondamentale importanza per comprendere i tempi e i modi della loro elaborazione: non a caso potremmo definire lo Zibaldone il “sottotesto” dei Canti.
Il materiale dello Zibaldone arrivò ad occupare 4526 pagine, secondo la testimonianza dell’amico De Sinner; Il termine “Zibaldone”, che significa “mescolanza confusa di cose diverse”, fu utilizzato dallo stesso poeta allorché compilò un indice analitico degli argomenti contenuti in quei quaderni, che intitolò “Indice del mio Zibaldone di pensieri”. L’indice analitico,che richiese tre mesi di lavoro da parte del poeta, serviva al Leopardi per orientarsi nell’immensa selva da lui stesso costruita.
Lo Zibaldone fu pubblicato per la prima volta postumo, in sette volumi, tra il 1798 e il 1900, in occasione del primo centenario della nascita del poeta, per decisione di una commissione governativa presieduta da Giosuè Carducci. Fu dato alle stampe con il titolo “ Pensieri da varia filosofia e di bella Letteratura”. Il Titolo "Zibaldone" comparve nelle edizioni successive.
L’EPISTOLARIO
L’epistolario del Leopardi è molto ricco: si compone, infatti di circa mille lettere composte tra il 1815 (Recanati) e il 1837 ( Napoli) che fanno a costituire quello che lo storico della letteratura Gianfranco Contini ha definito come uno “ fra i più bei libri della letteratura italiana”. . Rivolte soprattutto ad amici intellettuali e ai familiari (il padre Monaldo, i fratelli Carlo Carlo e Paolina), le lettere costituiscono una preziosa testimonianza non solo sugli eventi biografici del poeta, ma anche sugli sviluppi delle sue posizioni concettuali, della sua polemica, delle sue condizioni psichiche, delle sue scelte politico-culturali. L’Epistolario del Leopardi, non concepito per una sua pubblicazione, rappresenta un perfetto modello di stile colloquiale, costruito con una naturalezza che ben si adegua alla profonda sincerità di quanto viene espresso. L’edizione completa dell’Epistolario leopardiano uscì per la prima volta, in sette volumi, tra il 1934 e il 1941.
LE OPERETTE MORALI
Le Operette morali sono una raccolta di ventiquattro prose, la maggior parte di esse composte nel 1824 (gennaio-novembre) sotto forma di dialoghi satirici sul modello dei pungenti dialoghi di Luciano di Samosata (scrittore greco del II sec. d. C). In generale, oltre alla forma dialogica predominante, sono presenti operette in forma narrativa, altre ancora in forma narrativa e dialogica insieme. Furono pubblicate per la prima volta in un volume dal titolo Operette morali nel 1827, presso l’editore Stella di Milano. La terza edizione definitiva, uscita postuma nel 1845 e più estesa rispetto alle due precedenti, fu curata dall’amico del poeta, Antonio Ranieri, essa comprendeva 24 testi.
Per il breve lasso di tempo entro il quale vennero redatte, le Operette morali appaiono nel complesso unitarie, sia sul piano tematico che sul piano stilistico: la scrittura è plasmata sul modello classico della prosa greca, ma allo stesso tempo appare innovativa sia per il lessico utilizzato che per lo stile. Gli argomenti affrontati nelle Operette morali delineano ampiamente il vasto orizzonte del pessimismo leopardiano, che include le riflessioni sulla felicità e l’infelicità dell’uomo, sulla meccanica ostilità della natura, sulle vacue ideologie del secolo XIX, sui puerili errori dell’antropocentrismo.
Giovanni Gentile (1875-1944; esponente di spicco, insieme a B. Croce, del Neoidealismo italiano e della cultura letteraria del primo Novecento) ha sottolineato, nelle Operette morali, lo svolgimento organico del pensiero filosofico del Leopardi, dalla constatazione degli aspetti negativi della vita della vita alla accettazione coraggiosa e virile di essa. A Questa tesi, si sovrappone quella più interessante che parla di unità sostanzialmente estetica, fondata su uno stile misto di ironia, umorismo, pietà per la presunzione di grandezza degli uomini del suo tempo, animati da filosofie spiritualistiche ed idealistiche.
Sul piano letterario le Operette morali hanno un intento poetico. Tuttavia l’intenzionale poesia è talvolta insidiata dalla riflessione filosofica, da richiami eruditi e mitologici, da allegorie e personificazioni. Le migliori Operette risultano essere pertanto quelle in cui la riflessione filosofica e l’erudizione letteraria lasciano il predominio al sentimento e alla libertà espressiva.
I PENSIERI
I Pensieri furono preparati dal Leopardi negli ultimi anni della sua vita e pubblicati postumi da Antonio Ranieri. Sono 111 ed esprimono in forma concisa e lapidaria le considerazioni pessimistiche del poeta.
martedì 4 novembre 2014
I NUCLEI TEMATICI PRESENTI NELLA LIRICA DEL LEOPARDI (1798-1837)
Rilevante è l’idea leopardiana della CLASSICITA, espressa nel modo più compiuto nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818) Il poeta ha un’immagine idealizzata della classicità, considerata l’età della “primavera del genere umano” in cui l’uomo alla stregua degli animali e delle piante, si sentiva parte integrante di un sistema di fenomeni naturali dominato dal ciclo delle stagioni e dalle variazioni del clima. Gli antichi divengono per Leopardi il simbolo di una condizione armoniosa che è stata irrimediabilmente perduta nel momento in cui il legame tra individuo e natura è stato intaccato dall’avvento della religione cristiana e del razionalismo scientista che hanno rafforzato il senso di superiorità e alterità dell’uomo rispetto al resto del creato, inducendo negli individui un a stolida superbia. Scomparse le dolci illusioni dell’antichità classica, occorre ora, secondo Leopardi, sgombrare il campo dalle superbe e vane illusioni antropocentriche, come l’immortalità dell’anima, il progresso, la felicità, la ricchezza, il potere e la gloria. L’atteggiamento polemico del poeta riguardo al desiderio di gloria da parte dell’uomo poggia su due essenziali premesse: da una parte la collocazione periferica e in fondo irrilevante dell’uomo nell’universo, dall’altra la sua incapacità di prenderne atto.
La proposta del Leopardi resa esplicita nella Ginestra, ma preparata da numerose riflessione nello Zibaldone, è in proposito piuttosto chiara: poiché è impossibile un ritorno alle “favole antiche”, l’uomo contemporaneo dovrebbe anzitutto rendersi pienamente consapevole del suo stato di vittima del sistema naturale e quindi liberarsi di tutti gli inganni perpetrati dall’intelletto per nascondere quell’unica e incontrovertibile verità. Soltanto dopo aver acquisito tale consapevolezza l’uomo potrà sviluppare quella solidarietà che nasce tra le vittime di una stessa tragedia, eliminando le lotte fra uomo e uomo e concentrando tutte le energie contro le avversità cui esso è fatalmente esposto.
Al contrario, la storia umana è caratterizzata, a giudizio del Leopardi, da un progressivo accumularsi di errori e di inganni, che hanno raggiunto il loro culmine nel secolo XIX. L’odio per la propria epoca è infatti in Leopardi vivissimo e profondamente radicato. Le correnti di pensiero del progressismo idealista di marca liberale e dello spiritualismo cattolico (ambedue ampiamente rappresentate all’interno del movimento romantico) furono violentemente attaccate dal poeta sia nelle sue opere satiriche ( Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti, Paralipomeni della batracomiomachia), sia in alcuni passi di poesia e prosa di varia natura: Il pensiero dominante, La ginestra, Il dialogo di Tristano e di un amico.
Riguardo all’atteggiamento negativo di Leopardi nei confronti della propria epoca e, più in generale, al suo pessimismo, si è soliti distinguere due fasi.
Nella prima fase, che va all’incirca dal 1817 al 1821 ed è detta del “pessimismo storico”, la natura viene considerata una sorgente di energia vitale e di consolanti illusioni, mentre i mali della dell’umanità vengono ricondotti al processo di corruzione indotto dalla civilizzazione. Questa concezione è legata al periodo “idillico”, che ha ispirato a Leopardi alcune tra le più belle e toccanti figurazioni paesistiche della nostra letteratura: descrizioni da “età dell’oro”, pervase da una quasi mitica serenità, che attraverso la “gran varietà delle illusioni” consolano l’uomo celandogli benevolmente la “vanità delle cose”.
Nella seconda fase (che appare già definita nel 1824 con le Operette morali), sulla scorta degli studi degli illuministi francesi e in particolare di Voltaire e di D’Holbach, Leopardi perviene a una visione meccanicistica dell’universo naturale, visto ora come un sistema che tende all’autoperpetuazione,, in un ciclo di produzione e distruzione del tutto insensibile alle sofferenze umane. Questa concezione, detta del “pessimismo cosmico”, conduce Leopardi ad attribuire alla natura una intrinseca malignità, e viene espressa, nel modo più chiaro e definitivo, nell’operetta Dialogo della Natura e di un Islandese. Tracce di una considerazione negativa della natura sono peraltro riscontrabili già in alcuni passi della Sera del dì di festa, idillio scritto nel 1820-1821 (“e l’antica natura onnipossente / che mi fece all’affanno”) e in alcuni brani dello Zibaldone degli anni 1817-1820. Tuttavia, in questo caso, Leopardi avverte la crudeltà della natura soprattutto come causa di sofferenza individuale (simboleggiata per esempio dalla deformità di Saffo) e non come fonte di dolore universale.
Insofferente verso l’idealismo e lo spiritualismo, Leopardi riprende dalle concezioni sensiste di matrice illuministica non solo l’idea meccanicistica della natura, ma anche il concetto secondo cui la molla principale dell’attività umana è la ricerca del piacere (la “teoria del piacere” è messa a punto per la prima volta in una ventina di pagine dello Zibaldone datate 12-23 luglio). Secondo il poeta, però, quel desiderio è impossibile da soddisfare essendo per sua natura infinito; avrebbe bisogno infatti di un piacere altrettanto infinito. Ma poiché questo non esiste se non nell’immaginazione, la soddisfazione di un desiderio è qualcosa che pertiene non al reale, bensì all’immaginario: il piacere, dunque, non è che immaginazione del piacere stesso, attesa indefinita di un’acquisizione che non avverrà mai.
La mancata soddisfazione del desiderio nella realtà produce dolore e pena, che possono essere alleviati solo fuggendo dalla realtà stessa, attraverso le fantasticherie e il sonno. Piacere e realtà sono insomma per leopardi due princìpi incompatibili. Dal momento che la sua formazione illuministica gli impediva di mettere in dubbio il principio di realtà, era inevitabilmente il piacere ad essere destituito di ogni sostanza autonoma: infatti, “il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario” (Zibaldone, 19 aprile 1824).
Ciò che noi chiamiamo piacere è dunque in realtà o l’attesa di un irraggiungibile piacere futuro, o la momentanea cessazione o attenuazione del dolore. Tale posizione risulta chiaramente espressa nei canti La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio, oltre che in molte delle Operette morali (si veda soprattutto il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare).
IL DOLORE E L'ATTESA DEL PIACERE, in quanto poli su cui si concentra ogni moto dell’animo, sono comunque segno di energia vitale ; ben più temibile per Leopardi è la noia, che subentra ad occupare i “vuoti” causati dalla momentanea assenza di ambedue e che determina uno “stato d’indifferenza e senza passione”. La vita dell’uomo oscilla perciò tra il desiderio sempre deluso del piacere, il dolore che ne consegue e la noia. Si tratta di idee singolarmente vicine a quelle espresse dal filosofo tedesco Arthur Shopenhauer (1788-1860) nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), ma il nome di Shopenhauer non ricorre mai nello Zibaldone, ed è quindi assai probabile che Leopardi non lo conoscesse affatto. Il tema della noia è centrale nell’operetta morale Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, nonché nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
A partire dal 1823 “la teoria del piacere” assume punte ancor più radicali: il piacere viene infatti identificato nello Zibaldone con “una privazione o una depressione di sentimento”, e giunge ad essere definito “quasi un’imitazione dell’insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita e alla privazione di essa, perché la vita per sua natura è dolore”; è questa l’ultima tappa di un itinerario di pensiero lucidamente negativo, che trova nel canto A se stesso la sua espressione poetica più sintetica e incisiva.
Un posto di rilievo nelle considerazioni leopardiane sul piacere è occupato dal motivo dei ricordi e della memoria, un terreno che, sfuggendo in apparenza alle leggi del desiderio, sembra proporsi, almeno in una prima fase, come una forma alternativa di piacere. È questa infatti la posizione espressa negli anni 1819-1820, e in particolare nel canto Alla luna: il ricordo di una condizione trascorsa è di per sé piacevole, anche se la condizione ricordata è dolorosa. La memoria, in altri termini, produrrebbe uno stato d’animo contemplativo e malinconico, fatto di sensazioni il più delle volte indefinite e vaghe, che provoca nell’animo una forma particolare di “diletto”. Il diletto è poi tanto maggiore quanto più lontano (e quindi più indefinito) è il ricordo, sicché le memorie più piacevoli risultano quelle dell’infanzia e della prima adolescenza.
La condizione umana oscilla all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA. Più che un piacere puro, tuttavia, quella offerta della memoria è una sorta di provvisoria consolazione, che non intacca il predominio del dolore e della noia su cui si fonda l’esistenza. Tanto è vero che in un secondo momento, all’altezza dei “canti recanatesi” del 1829, anche tale consolazione sembra venir meno al poeta: nell’ultima strofa del canto Le ricordanze l’evocazione dell’innamoramento adolescenziale per Nerina non ha più nulla di piacevole; al contrario essa si colora di un’acuta disperazione per il tempo irrimediabilmente trascorso, per cui il ricordo non può essere che “rimembranza acerba”. E su tale definitiva constatazione si consuma del tutto la disposizione “idillica” del poeta.
IL LEOPARDI PUÒ ESSERE DEFINITO IL PRIMO INTELLETTUALE “MODERNO” DELLA LETTERATURA ITALIANA
per il suo atteggiamento critico di fronte alla realtà, per il rifiuto di ogni facile consolazione di natura idealistica o spiritualistica, per la elaborazione di
• un concetto di “verità” negativa: il “vero” di A Silvia, l’”arido vero” che ricorre spesso nelle Operette Morali, “acerbo vero” dell’epistola Al conte Carlo Pepoli si identifica con una realtà di morte e di dolore, con i “ciechi destini” dell’universo, con tutto ciò che resta incompreso o viene rimosso dal senso comune e dal desiderio di felicità degli uomini: la verità è per il Leopardi una verità rigorosamente negativa, che funziona da deterrente nei confronti di qualsiasi valore positivo proposto dall’esistenza e dall’istinto di sopravvivenza del genere umano. La forza poetica della produzione leopardiana deriva proprio dalla presenza costante, ora esplicita, ora implicita , di questo mito negativo (la verità intesa come realtà negativa), che proietta su un piano assoluto ed estremo tutte le contraddittorie manifestazioni dell’esistenza.
Echi della poetica leopardiana, particolarmente in rapporto alla sua concezione essenzialmente e rigorosamente negativa del realtà, si colgono in “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale (1916) inclusa nella raccolta “Ossi di Seppia” :
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia
Nella lirica, infatti, il muro montaliano ha come illustre antecedente la siepe leopardiana de L'infinito: se quest’ultima, però, enfatizzava l'immaginazione di Leopardi nella misura in cui ne limitava lo sguardo, il muro del Montale lascia il poeta nell'ossessiva contemplazione della sua vana verticalità, del suo slancio verso l'alto, frustrato da quei cocci aguzzi di bottiglia in cui si riassume il senso dell'esistenza umana.
L’idea del “nulla” come principio e fine di tutte le cose è presente fin dalle prime pagine dello Zibaldone, anteriori addirittura al 1820 ( “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”).
• Accanto all’idea del “nulla”, altro tema dominante nella poetica leopardiana è quello della “morte”, valutata nei termini epicurei: ossia come un evento che pone fine a una vita attraversata dal dolore.
Nonostante la loro vicinanza logica, i concetti di “nulla” e di “morte” inducono il pensiero del Leopardi a differenti conclusioni: mentre la morte è concepita dal Leopardi come un evento essenzialmente privato ed individuale, all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA, l’idea del nulla comporta invece una apertura universale, una proiezione cosmica: il “nulla” provoca perciò un sentimento di smarrimento e di sgomento, la contemplazione atterrita e allo stesso tempo affascinata di una dimensione indeterminata che l’intelletto non arriva a padroneggiare e che eguaglia per grandezza la “visione” mentale dl cosmo e degli spazi siderali.
Tuttavia L’idea di infinito in Leopardi mantiene sempre un ancoraggio al dato empirico del “vedere”; anche le proiezioni astratte della mente, le visioni cosmiche, come quelle dell’Infinito, partono sempre da un dato visivo fisicamente riscontrabile nella realtà.
• Lo Stoicismo leopardiano. Un elemento rilevante è l’atteggiamento “stoico”, la lucida e dignitosa fermezza con cui il poeta rifiutò sempre ogni facile consolazione, ogni “pietoso inganno” che potesse distoglierlo anche solo per un attimo dalla contemplazione del tragico destino dell’uomo. Nasce da qui, probabilmente, quella vena eroica che attraversa per intero la produzione del poeta, dalla canzone giovanile “ All’Italia” (1818) fino alla “Ginestra”. Se nel caso della canzone del 1818 la prospettiva eroica sembra limitata al sacrificio per la patria e per i propri ideali, nelle liriche successive la vena eroica assume caratteri complessi, tanto da essere all’origine, secondo molti critici, di una vera e propria svolta poetica. Il Leopardi in effetti nutriva un’alta considerazione di sé e un forte desiderio di gloria: egli era consapevole della propria geniale diversità (vedi “Lettera a Pietro Giordani”, “Lettera a Monaldo Leopardi”), ma anche della propria dolorosa ed estrema infelicità; pertanto si sentiva doppiamente isolato rispetto agli altri uomini e coltivava tale isolamento a volte con dolore, a volte con esaltazione virile di chi solo fra tutti va fieramente incontro al proprio destino.
“ L’infinito” - G. Leopardi (primavera-autunno1819)
L’“infinito” di Leopardi è il primo dei sei idilli composti tra il1819 e il 1821 e confluiti, insieme ad altre opere inedite, nella prima edizione dei “Canti” pubblicata a Firenze nel 1831. Una seconda edizione dei “Canti” modificata e ampliata uscì a Napoli nel 1835 ad opera dello stesso Leopardi e di Antonio Ranieri. Quest’ultimo, dopo la morte del poeta e secondo la sua volontà, nel 1845, curò l’edizione definitiva dei “Canti” costituita da 41 componimenti pubblicata a Firenze presso l’editore Le Monnier.
L’idillio leopardiano, a differenza degli idilli della tradizione classica che consistevano in brevi componimenti ispirati alla vita campestre, è l’espressione di un’avventura interiore che nasce dalla contemplazione della natura: gli idilli leopardiani mostrano, infatti, un carattere intimo e riflessivo.
La lirica si articola in quattro sezioni : nella prima parte (vv 1-3) il poeta descrive con pochi tratti una sorta di scenografia, all’interno della quale egli introduce direttamente e “concretamente” il lettore grazie all’uso degli aggettivi dimostrativi questo e questa (quest’ermo colle, e questa siepe). Leopardi crea l’illusione teatrale che egli stia componendo la poesia proprio su “quest’ermo colle” e davanti a “questa siepe”, quasi si trattasse di una “presa diretta” del paesaggio e dello stesso atto creativo. La prima parte è essenzialmente descrittiva, poiché il Leopardi fa riferimento ad uno spazio fatto di immagini reali e concrete (il colle, la siepe).
La seconda parte dell’idillio (vv.4-8) inizia con la particella avversativa ma, al verso 4. L’avversativa ma, infatti introduce il nucleo tematico dell’idillio, riassumendo il contrasto tra la limitatezza della vista fisica e il potere sconfinato della visione interiore. Per il poeta inizia il processo di astrazione mentale: il pensiero immagina ciò che non vede, tutto ciò che esiste al di là dei limiti fisici imposti all’uomo dalla natura (la siepe e il colle). Egli è spinto a percepire l’infinità dello spazio oltre la siepe, una vastità tale fatta di silenzi e di quiete, tali da risultare difficilmente intelligibili per la mente di un uomo. L’idea dell’infinito non ha in Leopardi alcun valore mistico-religioso, né allude a una trascendenza metafisica ( esso è ontologicamente assimilato al non essere, al nulla): è una realtà che prende forma (io nel pensier mi fingo) nel pensiero nel poeta con straordinaria forza persuasiva, grazie alla capacità immaginativa che ne dilata i confini percettivi.Tali sensazioni sono ben espresse grazie all’utilizzo di un lessico ricercato e funzionale che si avvale di termini astratti (interminati spazi, sovrumani silenzi ).
La terza parte (vv.8-13) si apre, ancora una volta, con un’immagine concreta, cioè il fruscio delle piante scosse dal vento (…e come il vento odo stormir tra queste piante) che richiama il poeta dalla sua meditazione e lo spinge alla percezione dell’eternità, al confronto tra il tempo eterno e il tempo reale dell’uomo, che scorre inesorabilmente attraverso il ciclo delle stagioni.
Il silenzio assoluto e immobile degli spazi interminati costruiti dall’immaginazione è rotto improvvisamente dallo stormire del vento tra le fronde, con una notazione realistica che non riporta, tuttavia, a dimensione umane, ma consente, anzi, di percepire l’infinità dello spazio insieme all’infinità del tempo. Come l’infinità dello spazio era stata suscitata da una sensazione visiva (la siepe), così l’idea dell’infinità del tempo scaturisce da una sensazione uditiva ( e come il vento odo stormir tra queste piante). Il contrasto tra ciò che è vicino e ciò che è lontano, sia nello spazio che nel tempo, è ottenuto attraverso la contrapposizione dei dimostrativi “queste piante,, quello infinito silenzio, questa voce”, cioè tra ciò che è tangibile e presente (queste piante, questa voce), e ciò che invece appartiene all’astrazione infinita dello spazio e del tempo.
Nell’ultima parte della poesia (vv. 13-15), Leopardi esprime il sentimento di dolce turbamento che la coscienza prova dinanzi alla percezione dell’eternità e dell’universo infinito (e il naufragar m’è dolce in questo mare).
Gli elementi della natura, richiamati continuamente nella lirica attraverso la descrizione di immagini reali e concrete (il colle, la siepe, l’orizzonte, il vento tra le piante, il mare), concorrono a sottolineare la limitatezza della realtà umana dinanzi alla facoltà immaginativa e fantastica di ciascun uomo. Il tema dominante dell’ idillio è costituito proprio dal contrasto fra i limiti fisici della realtà materiale e la sconfinata capacità percettiva del pensiero e dell’immaginazione individuali.
Il Leopardi nell’”Infinito” si pone in un atteggiamento contemplativo. La contemplazione della natura in Leopardi è priva di implicazioni spiritualistiche o religiose, come accade spesso per i poeti romantici. Essa mira essenzialmente alla ricerca del “piacere” attraverso l’annullamento della coscienza che si dilata, e allo stesso tempo si diletta (…e il naufragar m’è dolce in questo mare) nella percezione di realtà fantastiche e indefinite. La chiave per la comprensione del testo risiede ancora nel gioco dei dimostrativi: sia il concetto di immensità che di mare sono accompagnati dall’aggettivo dimostrativo questa/questo, che indica vicinanza e presenza: si è dunque compiuto un rovesciamento della situazione iniziale, in cui gli oggetti reali e presenti (quest’ ermo colle e questa siepe) erano contrapposti a quello infinito silenzio, ossia alle dimensioni sovrumane aperte dalla facoltà immaginativa. Ormai i concetti di infinità e immensità sono del tutto acquisiti dal pensiero e dalla immaginazione del poeta. Tali concetti sono vivi e presenti (questa immensità, questo mare) proprio perché sentiti come parte integrante di una condizione psichica nella quale il pensiero (inteso come pensiero logicamente organizzato) e la coscienza dell’uomo si annullano e annegano (naufragano), sulla scia di una sensazione di allargamento e di dilatazione della coscienza individuale.
L’infinito in cui “naufraga” provvisoriamente il pensiero del poeta non designa una realtà trascendente, mistica o addirittura religiosa ( come alcune interpretazioni critiche, del tutto inadeguate, hanno voluto intendere), indica la dilatazione della coscienza percettiva che, nel farsi coscienza poetica, si trasfigura. Il naufragar è dolce, perché indica il prevalere della fantasia e della immaginazione poetica sui limiti angusti del pensiero razionale. L’immaginazione è per il poeta la più grande delle illusioni umane, perché consente di percepire realtà grandiose che sole possono procurare all’uomo sensazioni di felicità e di piacere assoluto. La lirica si pone sul piano privilegiato della “visione”, sia nel senso di puro atto del vedere, sia in quello di proiezione fantastica di immagini scaturite dalla facoltà rappresentativa del soggetto.
Seduto sulla cima di un colle (tradizionalmente identificato con il monte Tabor, che sorge poco fuori Recanati, non distante dal palazzo Leopardi) meta delle sue abituali passeggiate, davanti a una siepe che gli impedisce di vedere gran parte della linea dell’orizzonte, il poeta fa scattare una sorta di “vista interiore”, una “visione”, che gli permette di spaziare con l’immaginazione in dimensioni sconfinate, segnate da un silenzio e da una quiete che nulla hanno di umano: dimensioni sconfinate dello spazio, ma anche del tempo, poiché l’idea dell’infinito spaziale non può essere disgiunta dall’idea dell’infinito temporale, ossia dell’eternità.
L’immensità del Leopardi è un concetto che il debole pensiero umano non può controllare né comprendere in pieno: il pensiero può averne solo una sensazione indefinita e fantastica, che si traduce in un senso di spossato smarrimento, nel dolce naufragio dell’identità individuale in quel Nulla cosmico che custodisce le verità ultime dell’esistere e del morire.
ANALISI TECNICO FORMALE
Sul piano formale l’infinito è una lirica composta in endecasillabi sciolti (cioè non associati in schemi di rima).
• Da notare l’uso frequente di iterazioni foniche (allitterazioni), cioè la ripetizione dei suoni in /re/, /er/, /ar/, /or/ (sempre, caro, ermo, parte, orizzonte) e in /ol/, /el/, /ul/, /lu/ (colle, dell’ultimo, esclude) ai vv.1-3. Dal punto di vista fonico altre allitterazioni in /er/, /or/ /ur/, (pensier, per, cor, spaura) sono presenti ai vv.7-8; allitterazioni in /s/ (sedendo, spazi, sovrumani, silenzi, profondissima, si spaura) e in /p/ ( spazi, profondissima, pensier, per poco, spaura) ai vv. 4-8; allitterazioni in /st/ (stormir, queste, questa, stagioni) ai vv 9-12 che alludono onomatopeicamente al soffiare del vento tra le piante; infine, allitterazioni in /er/, /or/, /ar/ (l’eterno, morte, pensier, naufragar, mare) ai vv. 11-12 e vv.14-15. L’allitterazione in /ar/ dell’ultimo verso “il naufragar m’è dolce in questo mare” suscita una sensazione uditiva oltre che visiva, creando un raffinato effetto onomatopeico.
• Oltre alle numerose assonanze, il testo presenta figure metriche quali il troncamento (pensier, cor, stormir, sovvien pensier, naufragar), la dieresi (quiete) e incontri vocalici in sinalefe (sedendo e; mirando, interminati; quella, e; silenzi,e), espedienti che conferiscono alla lirica un andamento ritmico straordinariamente musicale e consentono una lettura scorrevole e piana.
• Al verso 8 l’importante cesura dopo la parola “spaura” vuole evidenziare come, dinanzi agli spazi illimitati immaginati dalla mente, in quel silenzio assoluto, il cuore del poeta provi sensazioni di profondo sgomento e smarrimento.
• Il ritmo della poesia appare rallentato grazie all’uso pressoché costante dell’ enjambement ( tanta parte /dell’ultimo orizzonte, interminati / spazi, sovrumani/ silenzi, vento/odo stormir, quello/infinito silenzio, voce/vo comparando, la presente/ e viva, questa/immensità,) che rallenta e dilata la cadenza ritmica, creando un senso di attesa e di sospensione .
• Da notare anche l’uso del polisindeto in e (e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei). Anche questo espediente stilistico ha lo scopo di rallentare il ritmo dei versi e trasmettere al lettore l’immagine di dilatazione spaziale e temporale.
• Importanti figure retoriche della lirica sono l’ossimoro al secondo verso (tanta parte) e al quindicesimo (questo mare); la similitudine (E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce/ vo comparando); la metafora ( s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare), la sinestesia (il naufragar m’è dolce in questo mare).
• L’aggettivo dimostrativo al verso 15 (questo) suggerisce l’idea di vicinanza e presenza, di una realtà vicina e tangibile per il poeta. Il sostantivo mare, al contrario, suggerisce l’infinita grandezza che la mente dell’uomo riesce a percepire dinanzi allo spettacolo della natura. L’espressione conclusiva “questo mare”, sta a sottolineare come il poeta abbia ormai pienamente raggiunto uno stato di totale fusione con l’universo: l’immensità e il mare sono presenti e vivi nella mente del poeta, sono percepiti come parte integrante dell’immaginazione poetica.
• Il linguaggio si avvale di un lessico ricercato e letterario, costruito con espressioni tipiche della tradizione letteraria e poetica ( ermo colle, ultimo orizzonte); sono presenti alcuni latinismi ( ultimo, mirando, quiete, mi fingo).
L’idillio si apre con la descrizione del luogo reale in cui il poeta si trova: il monte Tabor, non lontano dalla casa paterna, dove egli andava spesso a rifugiarsi. Non a caso il poeta utilizza l’avverbio “sempre” e il verbo al passato “fu” - unico verbo al passato di tutta la poesia ( “sempre caro mi fu quest’ermo colle”) - proprio a voler sottolineare l’antico affetto che lega il poeta a quel luogo e, più in generale, alla natura, intesa, ancora, qui, come una forza benigna, dispensatrice di dolci illusioni e fonte di consolazione per l’animo umano.
Anche il Leopardi, come Ugo Foscolo, fa riferimento al nulla eterno. In Foscolo, il nulla eterno si identifica, alla luce del suo meccanicismo razionalista di stampo illuministico, con la morte e, dunque, con l’annullamento del tutto. Leopardi, invece, pervaso da una spiritualità di stampo romantico, è consapevole della inadeguatezza della ragione: il suo “nulla eterno” è una dimensione in cui la mente dell’uomo cerca di allargare a dismisura i propri confini per percepire delle verità supreme e assolute che altrimenti non riuscirebbe a comprendere.
LO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA LEOPARDIANA : I CANTI (Firenze 1831; Napoli 1835; Firenze 1845)
NELLO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA LEOPARDIANA SI DISTINGUONO QUATTRO PERIODI:
1° il periodo delle poesie giovanili, scritte anteriormente al 1818;
2° il periodo delle canzoni civili e filosofiche e dei piccoli idilli, cha va dal 1828 al 1823;
3° il periodo della composizione dei grandi idilli, che va dal 1828 al 1830;
4° il periodo della composizione del ciclo di Aspasia e del soggiorno a Napoli, che va dal 1831 al 1837.
A. IL PRIMO PERIODO (1818)
Comprende i versi scritti dal Leopardi adolescente, anteriormente al 1818. Delle poesie scritte in questo periodo le più importanti sono incluse nei Canti: L'Appressamento della morte (1816) e due elegie,Elegia prima ( che nell'edizione dei Canti del 1831 è presentata col titolo Il primo amore), ed Elegia seconda, ambedue composte tra il 1817 e il 1818. Nell'edizione definitiva napoletana dei Canti del 1835 il Leopardi incluse soltanto l' Elegia seconda.
Nell'Appressamento della morte il Leopardi, preso dal presentimento della morte,esprime il dolore di dover morire così giovane e di dover rinunciare alle sue dolci illusioni, soprattutto a quella della gloria.
Le due elegie narrano la storia del suo amore, tutto intimo e segreto, per la cugina del padre Gertrude Cassi-Lazzari, giunta da Pesaro per accompagnare la figlia in un convento di suore ed ospite per tre giorni del Leopardi. Le poesie giovanili hanno un modesto valore poetico. Dal punto di vista formale, appaiono letterariamente elaborate e retoriche risentendo, forse eccessivamente, dell'imitazione dei poeti antichi e moderni, soprattutto dall'Arcadia e di Vincenzo Monti; sul piano del contenuto sono scopertamente autobiografiche, sentimentali e patetiche. Esse rivelano il primo dei limiti che insidia talvolta la purezza della poesia leopardiana, anche degli inni migliori: l'effusione eccessiva sentimentale e malinconica.
L'altro limite, che appare più tardi, è la riflessione filosofica che tuttavia, se da una parte raffredda l'ispirazione dei canti migliori, essa ha il potere e il merito di elevare su un piano universale la poesia del Leopardi, liberandola dalla forte componente autobiografica. La riflessione filosofica fa sì che l'infelicità del poeta, di fronte al mistero dell'universo, si tramuti in infelicità, angoscia e solitudine di tutti gli uomini. Anche quando il Leopardi, nella fase della maturità artistica (La ginestra), assume l'atteggiamento titanico di sfida al destino, noi avvertiamo in esso la dignitosa e stoica accettazione da parte del poeta di un destino universale di dolore, piuttosto che l'atteggiamento romantico dell'individuo-eroe, che si eleva sulla massa degli uomini comuni.
B. IL SECONDO PERIODO (1818 al 1823)
I motivi autobiografici, sentimentali e talvolta patetici scompaiono nelle canzoni civili e filosofiche, che appartengono, insieme ai piccoli idilli, al secondo periodo dello svolgimento della lirica leopardiana, periodo che si svolge dal 1818 al 1823.
Le canzoni civili sono così chiamate perché presentano un’ ispirazione patriottica e oratoria, volta ad ispirare negli Italiani l'amor di patria e il ricordo di un passato di antiche glorie. Esse sono cinque: All'Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, Ad un vincitore nel gioco del pallone. Presentano tutte un identico schema, che resterà poi caratteristico della poesia leopardiana. In esse l’occasione è sempre offerta da una circostanza di cronaca (i soldati italiani morti nella campagna di Russia, per la canzone All'Italia; il monumento di Dante che si preparava a Firenze; la scoperta del De republica di Cicerone ad opera del Cardinale Angelo Mai; le nozze imminenti della sorella Paolina- esse poi non avvennero più per la rottura del fidanzamento -; la vittoria sportiva del recanatese Carlo Didimi), ma mirano ad esprimere la condanna del presente e la nostalgia del passato. Le canzoni civili rappresentano da un lato il frutto dell'amicizia col Giordani, di idee liberali, e della cosiddetta "conversione" politica del Leopardi, dall'altro, sono l'espressione della sensibilità romantica del poeta, il quale, soffocato dall'angustia e dalla meschinità delle vicende storiche contemporanee, vuole sopraelevarsi da esse trasferendosi idealmente nel passato, in un mondo storicamente remoto, eroico ed esemplare.
In un primo momento questo passato si identifica per il Leopardi nell’età classica, l’età degli eroi greci e romani, le cui virtù morali e civili il poeta addita, come esempio ed incitamento, agli Italiani degeneri del suo tempo. Ma, a poco a poco, anche questo passati di virtù e di eroismo si offusca, perché il Leopardi vi proietta la sua tristezza e il suo dolore, scoprendo anche nel passato la vanità delle illusioni e il sentimento della umana infelicità. In tal modo, l’ideale esplorazione del mondo classico, iniziato con l’ammirazione e la nostalgia delle virtù eroiche degli antichi, si conclude col cupo pessimismo delle due canzoni filosofiche, il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo (dette anche le ‘’canzoni del suicidio’’), in cui i due suicidi, Bruto e Saffo, appaiono le vittime della tragica condizione dell’uomo: il passato della Grecia e di Roma ha ormai perduto agli occhi del Leopardi la sua esemplarità e viene assorbito nel comune destino di dolore del genere umano.
Deluso quindi dall’età classica per effetto della proiezione del suo pessimismo nel passato, il Leopardi si rifugia idealmente in un’età ancor più remota, al tempo dei primordi del genere umano, anteriore alla amara scoperta della ragione. Nasce così la canzone Alla primavera, che evoca idealmente la primavera del genere umano, allorché la natura era madre benigna e pia dispensatrice di felicità e di illusioni agli uomini. Nell’Inno ai patriarchi, questo mitico periodo di felicità è portato al mondo biblico di Abramo e dei primi padri, quasi per dire che essa non è mai esistita e che gli uomini sono stati sempre e dovunque infelici. L’ultima canzone di questa fase, Alla sua donna, rispecchia nel contenuto il cosiddetto pessimismo cosmico col quale il Leopardi conclude la sua ideale esplorazione della storia umana, tracciata nelle canzoni civili e filosofiche. Il Leopardi vi esprime la vanità della più cara delle illusioni, quella dell’amore. Nella canzone non è rappresentata una donna reale,bensì l’immagine consolatrice della “donna che non si trova”, come scrisse il Leopardi: è la donna dell’immaginazione e della fantasia. Se una donna simile a quella sognata esistesse realmente, chi l’amasse sarebbe felice e si sentirebbe incitato a seguire la gloria e la virtù, e vivrebbe una vita divina, il che andrebbe contro le disposizioni del fato che ha destinato l’uomo all’infelicità.
A questo svolgimento di contenuto della lirica leopardiana – dal vagheggiamento del passato, nella ricerca della felicità, al riassorbimento di tutto il passato nel dolore universale – corrisponde un analogo svolgimento della forma. Se infatti, nel complesso, le canzoni civili e filosofiche sono letterariamente assai elaborate, appesantite da elementi retorici, intellettualistici, eruditi, da una sintassi complessa, da un linguaggio ricercato e classicheggiante – è questa la <
Questa purificazione della forma è già in atto in un gruppo di liriche, che i critici sogliono chiamare i primi idilli o i piccoli idilli per distinguerli dai grandi idilli, scritti dal Leopardi nel periodo più felice della sua ispirazione poetica (dal 1828 al 1830).
Etimologicamente idillio significa in greco “piccola immagine”. In sede letteraria il termina venne usato per indicare un piccolo quadro di vita, un componimento breve, di argomento per lo più pastorale o agreste, ma anche cittadino, di intonazione realistica. Autorevoli rappresentanti di questo genere letterario, l’idillio furono i poeti greci Bione di Smirne, Mosco e soprattutto Teocrito. Ma l’idillio leopardiano è del tutto diverso dagli idilli della tradizione letteraria. Infatti, mentre l’idillio tradizionale ha carattere realistico ed oggettivo, perché ritrae la vita dei pastori o dialoghi fra cittadini, quello leopardiano assume anche un carattere soggettivo, personale, interiore. Il leopardi stesso definì i suoi idilli “situazioni, affezioni, avventure storiche (cioè sentimenti vissuti in un dato momento) dello spirito”, suscitate dalla contemplazione della natura, che così offre lo spunto o alla introspezione, e alla meditazione del poeta, o alla rievocazione del passato e delle illusioni giovanili.
I piccoli Idilli sono 1)La sera del dì di festa; 2)L’infinito; 3)Alla luna; 4)Il sogno;5)La vita solitaria; 6)Il frammento Odi, Melisso, pubblicato col titolo Lo spavento notturno. Essi costituiscono il primo tentativo leopardiano di una poesia pura – immune cioè da elementi intellettualistici, eruditi, retorici, o da intenzioni didascaliche e oratorie- ed espressione ingenua, semplice, limpida ed essenziale del sentimento.
Dal 1823 ai primi mesi del 1828, il Leopardi non scrisse poesie, se si eccettua l’Epistola al conte Carlo Pepoli(1826), in endecasillabi sciolti che espone aridamente le sue convinzioni filosofiche. Durante questi anni egli scrive però, in prosa, le Operette morali, che hanno una grande importanza, come abbiamo detto, nello svolgimento del suo pensiero e della sua poesia in quanto segnano il passaggio dal pessimismo personale e soggettivo al pessimismo cosmico. Il Leopardi in esse medita non più sulle proprie dolorose vicende, ma sul dolore come patrimonio comune, eterno, irrimediabile di tutti gli esseri viventi, acquistando via via, attraverso questa certezza, una nuova condizione spirituale, più distaccata e quasi serena. In questa nuova condizione spirituale matura la poesia dei grandi idilli.
C. IL TERZO PERIODO (1828 -1830)
Fu nell’aprile del 1828, nel periodo felice del soggiorno a Pisa, che nel cuore del Leopardi si risvegliò la poesia. Lo stesso Leopardi fu così consapevole del suo nuovo stato di grazia poetica da annunziare subito alla sorella Paolina di aver scritto nei versi “con il cuore di una volta”. Egli descrive il nuovo stato d’animo nelle agili strofe metastasiane del Risorgimento, in cui parla del ritorno di quei sentimenti che giù un tempo lo avevano ispirato.
Il Risorgimento apre, dunque, il nuovo ciclo dell’attività poetica del Leopardi, che si conclude nel 1830 e che comprende la composizione dei GRANDI IDILLI: 1) A Silvia; 2) Le Ricordanze; 3) La quiete dopo la tempesta; 4) Il sabato del villaggio; 5)Il passero solitario; 6 )Il canto notturno di un pastore errante nell’Asia.
La struttura dei grandi idilli è analoga a quella dei piccoli idilli. Dal particolare realistico, con trapassi spontanei e naturali, la poesia si eleva alla rappresentazione del mistero e del dolore universale. Il contenuto universale dei grandi idilli è il risultato della meditazione filosofica delle Operette morali, che ha operato da filtro purificatore del sentimento leopardiano, liberandolo dagli elementi strettamente autobiografici, storici ed eruditi e trasformando il dramma individuale del poeta in dramma cosmico, coinvolgente l’universo intero.
Il confronto tra La Sera del dì di festa, che appartiene ai piccoli idilli, e il Canto notturno è particolarmente significativo: tra l’uno e l’altro è passato il travaglio filosofico delle Operette morali. Nella Sera del dì di festa la meditazione del poeta verte sul suo dramma individuale di innamorato ignorato; poi, stimolata dal canto solitario dell’artigiano, risale al ricordo storico dell’impero romano, travolto dall’infinito scorrere del tempo, il che suggerisce al Leopardi il senso della vanità delle cose umane.
Nel Canto notturno il Leopardi trascende del tutto le esperienze personali e i ricordi storici; egli contempla l’universo intero, di cui coglie con stupenda immediatezza il senso dell’infinito e del mistero.
L’importanza dei grandi idilli non consiste solo nel loro contenuto universale, ma soprattutto nella felice attuazione di quella lirica pura, intesa come voce del cuore, che il Leopardi era venuto elaborando nella sua poetica. Ad attuare tale lirica concorrono, oltre al contenuto tutto rievocativo e sentimentale, immune cioè da elementi allotri, filosofici, polemici, storici, eruditi e letterari, anche la varietà e la libertà delle forme metriche (la canzone leopardiana assume pertanto una struttura lontanissima da quella petrarchesca) ed il linguaggio vago, indefinito, suggestivo, vibrante di risonanze interiori, quale il Leopardi aveva teorizzato nella sua poetica.
Una caratteristica di questo linguaggio è che le forme lessicali e le strutture sintattiche sono assunte dal linguaggio colloquiale, impreziosite soltanto, qua e là, di qualche elemento della tradizione colta, fusi insieme nel ritmo libero e vario dei versi, creano un’armonia indimenticabile, vaga e suggestiva, tipicamente leopardiana.
D. IL QUARTO PERIODO (1831 al 1837)
Comprende le poesie del ciclo di Aspasia e quelle del periodo napoletano: va quindi dal 1831 al 1837, l’anno della morte del poeta. Esse sono generalmente svalutate dalla tradizionale critica letteraria per la loro eccessiva elaborazione letteraria o la presenza di elementi filosofici, polemici, sarcastici. Anche Francesco De Sanctis (Morra Irpina, 1817 – Napoli 1883; scrittore, critico letterario, politico, Ministro della Pubblica Istruzione) vi aveva notato “un filosofare troppo scoperto”, il segno del “morire della poesia nell’anima del Leopardi”. La critica storicistica, invece, per merito soprattutto di Walter Binni (Perugia, 1913 – Roma 1997 critico letterario, storico e antifascista italiano ) autore di un celebre saggio intitolato “La nuova poetica leopardiana”, la considera come l’espressione di una svolta della lirica leopardiana, l’espressione di una nuova poetica, la “poetica dell’anti-idillio”, diversa dalla più nota “poetica dell’idillio” . La poetica dell’idillio era incentrata sulle rimembranze, sulla rievocazione cioè del passato, della giovinezza perduta e della felicità sognata, fatta in tono sentimentale e malinconico, idillico, dandoci il profilo di un Leopardi assorto e nostalgico. Le liriche, invece, dell’ultimo periodo ci presentano un Leopardi diverso, aspro, ironico, energico e polemico, che non rievoca più malinconicamente il passato, ma si pone di fronte al destino in atteggiamento prometeico di sfida, fatto di fierezza e di dignità. Un Leopardi, insomma, che accetta titanicamente e stoicamente il proprio destino, che è quello di universale dolore e che torna ad essere, come nelle canzoni civili e filosofiche, maestro e apostolo di certezze e di verità. Un Leopardi che lancia agli uomini un invito alla fratellanza e alla solidarietà, per vincere il dolore e l’infelicità (nella Ginestra). Le poesie dell’ultimo comprendono innanzitutto cinque canti ispirati all’amore infelici di Leopardi per la signora Fanny Targioni-Tozzetti durante l’ultimo soggiorno fiorentino. Essi sono: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia. I primi tre rappresentano l’ebbrezza del sentimento amoroso; A se stesso rappresenta la caduta dell’illusione; Aspasia, composta a Napoli, rappresenta la vendetta del poeta contro la donna che lo ha deluso. Aspasia era una cortigiana di Mileto che, giunta ad Atene, era divenuta amante e poi moglie di Pericle (metà del V sec. a.C.). Aspasia è la signora Fanny Targioni-Tozzetti, che il Leopardi chiama così, per essere stata adescatrice scaltra e maligna del poeta. Altre poesie dell’ultimo periodo sono: la Palinodìa (ritrattazione) diretta al marchese Gino Capponi, in cui Leopardi finge ironicamente di ritrattare i suoi principi pessimistici e di accettare la teoria del progresso; I nuovi credenti, in cui polemizza contro le nuove correnti spiritualistiche del secolo; i Paralipòmeni della Batracomiomachìa, ossia aggiunte al poemetto attribuito ad Omero intitolato Batracomiomachia, battaglia delle rane e dei topi. In essi Leopardi schernisce i moti liberali napoletani del ’20 e del ’21. Ma le migliori poesie del periodo napoletano sono La ginestra o il Fiore del deserto e Il tramonto della luna.
La Ginestra è variamente giudicata dai critici.
Walter Binni l’ha definita “una sinfonia eroica”: il capolavoro della poetica del cosiddetto anti-idillio, che ispirò l’ultimo periodo della lirica leopardiana. Anche la critica marxista la giudica positivamente, per il forte messaggio sociale in essa contenuto: Leopardi si rivolge agli uomini invitandoli alla costruzione di una catena umana di solidarietà, per la costruzione di un nuovo mondo. La critica di Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 – Napoli 1952; filosofo, storico, scrittore e politico italiano) invece, e quella storicistica, pur apprezzando la novità del messaggio sociale, giudicano la ginestra notevole per l’abilità letteraria con cui è condotta, ma debole dal punto di vista strettamente poetico. In essa, infatti, coesistono confusamente elementi diversi – idillici, filosofici, storici, polemici, satirici, oratori – più giustapposti che fusi in armonica unità. Lo spinto iniziale, come negli Idilli, è dato da un particolare realistico, l’osservazione della ginestra che con i suoi cespi fioriti riveste il fianco del Vesuvio, simbolo della potenza distruttrice della natura. Dall’osservazione del particolare, il poeta passa alla meditazione dell’universale condizione di fragilità e di dolore della natura umana. La critica crociana e quella storicistica considerano Il tramonto della luna la migliore creazione dell’ultimo periodo della lirica leopardiana. Nuoce certamente al canto il lungo paragone iniziale che si distende per ben trentatré dei sessantotto versi che lo compongono: come nella notte la luna tramonta, lasciando il mondo nell’oscurità, così la giovinezza abbandona l’uomo, lasciandolo senza più illusioni e speranze. Ma, nonostante questo limite, il canto rinnova l’andamento lirico e la purezza dei migliori idilli leopardiani.
lunedì 3 novembre 2014
TIPOLOGIA A - ANALISI TESTUALE : INFERNO, c.III. Dall'elaborato di Francesca Valeria Malagisi, III D, a.s.2013-14.
COMPRENSIONE
Il terzo canto dell'Inferno è tratto dalla Divina Commedia, il capolavoro di Dante Alighieri composto a partire dal 1304.
E' la sera dell' 8 aprile 1304, venerdì santo, ci troviamo nell'Antinferno, luogo dove risiedono gli ignavi, peccatori condannati a correre senza sosta dietro ad una bandiera bianca, priva di insegne, mentre vengono punzecchiati da mosconi e vespe; qui i due protagonisti, Dante e Virgilio, incontrano Caronte, il traghettatore delle anime dell'Inferno.
Il narratore – protagonista giunge davanti a una porta sulla cui sommità c'è un'iscrizione che preannuncia le caratteristiche del luogo, regno dell'eterno dolore senza speranza. Confortato da Virgilio, che lo incoraggia ad abbandonare ogni viltà, Dante viene introdotto nel regno dei morti. Ode subito, nelle tenebre, un clamore infernale, un misto di gemiti, bestemmie, imprecazioni, percosse, a tal punto da essere indotto al pianto. Virgilio, somma guida di Dante, insuperabile modello di cultura e di saggezza, spiega che sono le anime degli ignavi, le anime di coloro che vissero “sanza ‘nfamia e sanza lodo” (v. 36 ). A questi è unita la schiera degli angeli che, al momento della ribellione di Lucifero a Dio, non si allearono con nessuna delle due parti. Tutti costoro si lamentano per essere oggetto di disprezzo generale, di Dio come del demonio; perciò non è il caso di ragionarne oltre. La loro pena consiste nel correre senza sosta dietro ad una bandiera che si muove velocemente e nell'essere continuamente stimolati da mosconi e vespe, che rigano il loro volto producendo ferite il cui sangue mescolato alle lacrime, è raccolto ai loro piedi da vermi schifosi. Giunto in prossimità di un fiume, Dante scorge una grande moltitudine di anime che si radunano in attesa di esser traghettate alle sedi infernali. Una figura mostruosa, dalla lunga barba bianca (“un vecchio, bianco per antico pelo” v.83; il “nocchier de la livida palude, che ‘ntorno a li occhi avea di fiamme rote” vv.98-99) lancia loro orribili minacce, e invita lo stesso Dante a fuggir via da quel luogo di dolore. In difesa di quest'ultimo interviene Virgilio, che con tono aspro e solenne redarguisce Caronte sottolineando il significato provvidenzialistico del viaggio di Dante, voluto da Dio stesso, per la salvezza propria e dell’intera umanità : “Caron non ti crucciare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare” (vv.94-96) Il canto si chiude con l’immagine, malinconica e struggente , delle anime dannate che si apprestano l’una dopo l’altra, come tante foglie morte che si staccano inesorabilmente dai rami, a salire sulla barca di Caronte. Segue un improvviso terremoto che provoca lo svenimento di Dante.
ANALISI DEL SIGNIFICANTE E DEL SIGNIFICATO
Il terzo canto dell’Inferno è formato da 136 endecasillabi piani, divisi in quarantaquattro terzine più un'ultima quartina; i versi sono legati tra loro da una rima incatenata (terza rima) che segue lo schema ABA BCB CDC, e cosi via. La struttura narrativa è ben modulata per il sapiente alternarsi di sequenze descrittive e dialogiche che mantengono viva l'attenzione del lettore attraverso l'alternarsi di dialoghi a scopo chiarificatore e descrizioni di scene inusuali. A conferire musicalità al componimento si aggiungono anche le figure metriche, quali l'aferesi,l'apocope, la paragoge, nonché le figure foniche, come l'allitterazione al verso 21 (“mi mise dentro a le segrete cose”), dove la ripetizione della lettera “R” nei suoni “TR” e “GR” inseriti rispettivamente nelle parole “dentro” e “segrete” spingono il lettore ad immaginare con vivo realismo la scena in cui Dante e Virgilio si addentrano nell'antinferno.
Il terzo canto dell'inferno si apre con la terribile iscrizione sulla porta dell’ Inferno per ammonimento e avvertimento alle anime che entrano nel regno del dolore; la martellante anafora della prima terzina (“per me si va… per me si va…per me si va…”), la perifrasi della seconda (“Giustizia mosse il mio alto fattore…e ‘l primo amore”), la concisione lapidaria della terza (“ lasciate ogni speranza voi ch’entrate”) ribadiscono, con un linguaggio drammatico e minaccioso, il concetto della dannazione eterna: dall’Inferno cristiano ogni speranza di evasione è impossibile, ogni luce di speranza inesistente. La temporanea suspense, alimentata dallo stato d’animo di Dante, in preda all’angoscia e allo sgomento, coincide con ill momento dell'ingresso all’inferno, momento che segna l'inizio di un viaggio straordinario, non privo di dubbi e paure. Nel primo breve dialogo del canto appare una delle parole tematiche del canto: “viltà” . Dice infatti Virgilio : “ qui si convien lasciare ogni sospetto; ogne vilta' convien che qui sia morta” (vv.14-15); com’è evidente, il termine “viltà” è inserito in un’ affermazione di carattere sentenzioso, carattere ben evidenziato dalla struttura chiastica dei versi. L'intento è duplice: da un lato sottolinea la necessità per Dante di abbandonare ogni esitazione, e affidarsi alla saggezza della sua autorevole guida; dall'altro anticipa il tema dominante del canto: l'ignavia, la pusillanimità. Con il sovrapporsi del linguaggio gestuale a quello verbale (“E poi che la sua mano a la mia pose” v.22) si vuole sottolineare la gravità del momento. Con il CLIMAX ascendente del verso 22 “QUIVI SOSPIRI, PIANTI E ALTI GUAI” ci troviamo in un contesto di confusione e commistione che abbraccia tutta la gamma dei timbri, delle voci acute a quelle afone, con una connotazione generale di disumanità o bestialità. La similitudine del verso 30 (“come la rena quando turbo spira”) ha la funzione di offrire una rappresentazione concreata e realistica di un fenomeno atmosferico reso attraverso una sensazione uditiva caratterizzata dalla caoticità e dalla vorticosità del propagarsi disordinato dei suoni. Il secondo dialogo, invece, ha funzione ESPLICATIVO-DIDASCALICA poiché ci fornisce delucidazioni sulle anime degli ignavi:“Questo misero modo tengon l’anime triste di coloro che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo” (vv. 34-36) Vi predomina una linea di senso che si struttura intorno a parole-chiave incentrate sulla negazione e sull'assenza “VIVER SANZA 'NFAMIA E SANZA LODO” “NON FURON RIBELLI/ NE' FUR FEDELI A DIO” “CACCIANLI I CIEL PER NON ESSER MEN BELLI;/ NE' LO PROFONDO INFERNO LI RICEVE,/ C'ALCUNA GLORIA I REI AVREBBER D'ELLI”, “'NVIDIOSI SON D'OGNE ALTRA SORTE”. Nelle frasi in evidenza predominano elementi grammaticali legati all'idea dell'assenza, assenza che rappresenta metaforicamente l’assoluta mancanza di stimoli, di passioni, di volontà: la negazione di ogni moto dell'animo che spinga ad agire coerentemente con le proprie idee. Assenza e negazione si trasformano nel torpore e nell'inerzia propria dei pusillanimi e vili d'ogni tempo; “non ragioniam di lor, ma guarda e passa" è una formula lapidaria e proverbiale con cui Virgilio vuole esprimere il suo profondo disprezzo nei loro confronti.
La luce fioca presente nell'antinferno permette a Dante di scorgere altre anime che alimentano la curiosità del pellegrino inducendolo a fare ripetute domande al suo accompagnatore, il quale lo azzittisce con un rimprovero. Il silenzio che segue dura fino al momento in cui i due protagonisti giungono sulle rive del fiume all'Acheronte, dove appare la figura di Caronte, il traghettatore delle anime infernali. L'ultima sequenza, dominata dall’immagine orripilante del demone, ci fornisce altre importanti informazioni sulla natura dello stato infernale e sulla drammatica condizione dei dannati. La prima notazione riguarda la presenza costante delle tenebre: l'inferno, infatti, non può usufruire della luce del cielo e la coppia oppositiva risulta essere BUIO-LUCE, mediante cui l’autore vuole sottolineare la totale assenza di speranza, il concetto della dannazione eterna. La conclusione del canto è caratterizzata dalla descrizione di un evento naturale, un terremoto che provoca lo svenimento di Dante, a compimento di una tensione drammatica costruita, fin dai versi iniziali, grazie all’impiego di un linguaggio fortemente espressivo e di immagini intensamente drammatiche.
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