martedì 13 ottobre 2015
ALESSANDRO MANZONI, la produzione letteraria: INNI SACRI. (Cfr. De Caprio-Giovanardi, I testi della letteratura italiana, vol. 3, ed. “Einaudi”; Antonelli – Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2b, “La Nuova Italia”; appunti del docente)
LA PRIMA FASE DELLA SUA PRODUZIONE LETTERARIA – PRECEDENTE ALLA CONVERSIONE , 1810-appare caratterizzata da una sostanziale adesione alla poetica e al gusto del Neoclassicismo , dal prevalere dell’ influenza di V. Monti e di G. Parini, ma soprattutto da un radicalismo giacobino (ideali libertari, ateismo anticleriacale), cioè da un atteggiamento di contestazione rispetto ad una realtà sociale contraddittoria, nella quale il poeta non si ritrova.
A questa prima fase fanno riferimento le opere giovanili: Il trionfo della libertà (1801), una macchinosa celebrazione del valore della libertà contro ogni forma di superstizione e di tirannide; Urania , un poemetto mitologico dedicato alla funzione civilizzatrice della poesia; un sonetto-autoritratto di imitazione alfieriana; I Sermoni, quattro aggressive satire sul modello oraziano, contro il malcostume della società milanese, contrassegnata da false ipocrisie e da pseudo poeti . Questa fase culmina nel carme in endecasillabi sciolti, In morte di Carlo Imbonati (1806), nel quale rifacendosi a Parini, celebra il ruolo dell’intellettuale impegnato nel progresso civile.
Una svolta radicale nell’opera del Manzoni è generata dalla CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO (1810) , conversione che si configurerà anche come conversione letteraria, segnando un’ evoluzione sia sul piano etico che sul piano estetico. Il Manzoni abbandona la mitologia e le tematiche consuete della poetica neoclassica (repertorio culturale greco-romano) per sostanziare la propria lirica di contenuti religiosi, assumendo come repertorio di immagini e di metafore quello offerto dai testi sacri ( in particolare la Bibbia). Il nuovo patrimonio di cultura cristiano, tuttavia, non sostituisce, bensì affianca il consueto retroterra offerto dagli studi classici. La conversione- il ritorno alla fede e ai riti- operò in Manzoni su due piani.
Sul piano personale e biografico non riuscì a sanare la sua nevrosi, anzi la ingigantì e la approfondì, contribuendo a formare in lui l’immagine di un Dio come forza tremenda, che opera in modo imperscrutabile negli avvenimenti umani. Il solo senso degli avvenimenti è fornito dalla presenza della DIVINA PROVVIDENZA , che corregge le ingiustizie e le storture della storia con un ritmo che trascende la comprensione umana.
Intanto, il matrimonio con la giovane moglie appena sedicenne, Enrichetta Blondel “angelo di ingenuità e di semplicità”, già celebrato con rito calvinista, fu ricelebrato con rito cattolico e la famiglia Manzoni abbandonò definitivamente Parigi per stabilirsi definitivamente in Italia nella villa di Brusuglio, vicino Milano, dove lo scrittore trascorse gran parte della sua vita.
Sul piano letterario la conversione produsse in Manzoni la convinzione che era necessaria una nuova poesia, svuotata da contenuti legati alla mitologia classica e volta a diffondere messaggi cristiani. La conversione produce conseguenze immediate essenzialmente sul piano tematico, mentre su quello formale, la poesia manzoniana continua ad essere legata alla tradizione classicistica. La conversione al cattolicesimo segna l’inizio del periodo di più intensa attività creativa del Manzoni.
INNI SACRI
La conversione al Cattolicesimo segna l’inizio del periodo di più intensa attività creativa del Manzoni. IL CATTOLICESIMO DEL MANZONI, maturato al termine di un lungo percorso di studi e meditazioni filosofico - morali, non è un sentimento dogmatico, né fondato su astrazioni filosofiche; esso è un sentimento vivo, intenso e autentico, volto a cogliere il senso consolatorio dell’eterna presenza di Dio nella dolorosa vita degli uomini; un cattolicesimo che nasce dalla sintesi dialettica delle pregresse esperienze culturali e umane del poeta: progressismo illuminista, idealismo romantico, calvinismo, giansenismo, la filosofia morale di S. Agostino e di Blaise Pascal .
Gli anni immediatamente successivi alla conversione risalgono gli Inni Sacri composti a partire dal 1812. Manzoni ne aveva progettato 12, ciascuno dei quali avrebbe dovuto celebrare le principale feste del calendario liturgico, ma riuscì a comporne solo cinque. Nel 1815 il Manzoni pubblicò i primi quattro Inni , La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale. Complessa la vicenda compositiva del quinto inno sacro : iniziata nel 1816, La Pentecoste subì ulteriori revisioni e fu data alle stampe solo 1822.
Negli Inni sacri il poeta si rifà alla tradizione della poesia religiosa antica e medievale (Cantico delle creature; le laude di Jacopone da Todi; la Commedia dantesca; la Canzone alla Vergine del Petrarca), nella quale gli Inni erano destinati alla declamazione corale da parte dei credenti di fondamentali verità di fede, in un linguaggio piano e comprensibile a tutti (il sermo humilis). Anche il Manzoni intende esprimere il proprio concetto di fede secondo un punto di vista corale, rendendosi interprete del rapporto tra Dio e il suo popolo. Tuttavia sul piano formale il risultato al quale giunge il Manzoni è altalenante: non sempre l’autore riesce a rendere la solennità del contenuto, ricco di immagini bibliche, mediante una forma agevole; spesso la sintassi appare complessa e involuta, il lessico appare legato a una obsoleta tradizione letteraria.
LA PENTECOSTE, ULTIMO INNO SACRO, È LA PIÙ VALIDA OPERA A LIVELLO POETICO: il contenuto tematico agisce prepotentemente sulla fantasia, che funge da filtro, e dona forma al contenuto poetico. Mentre negli altri inni sacri l’entusiasmo del neofita uccide la forma, nella Pentecoste il poeta realizza un perfetto equilibrio tra contenuto e forma: il contenuto – la discesa dello Spirito Santo e la nascita della Chiesa; la presenza del divino nelle cose umane; la divina Provvidenza .
La Pentecoste (in greco, 50° giorno), celebra la legittimazione della Chiesa alla predicazione e alla divulgazione del messaggio evangelico, partendo dalla descrizione di “quel sacro dì” in cui avvenne la discesa dello Spirito santo sugli apostoli sotto forma di lingue di fuoco, infondendo in loro la forza d’animo necessaria a superare le persecuzioni e il dono della glossolalia, cioè la conoscenza delle lingue. Nella Pentecoste il Manzoni rappresenta un Dio pieno d’amore che partecipa costantemente alle vicende umane; UN DIO CALATO TRA GLI UOMINI che si manifesta sia attraverso i doni dello Spirito Santo, sia attraverso i segni della Divina Provvidenza. La divina Provvidenza è concepita dal Manzoni come una delle forze fondamentali che agiscono nella Storia determinandone il corso: l’uomo che ha ricevuto la forza e il dono dello Spirito Santo può trovare nella Divina Provvidenza una guida superiore, e affidarsi completamente alla volontà di Dio. Nella Pentecoste il Manzoni sottolinea, inoltre, l’uguaglianza degli uomini dinanzi a Dio: in essa si traducono poeticamente gli ideali manzoniani di libertà e fraternità in Dio e nel sacrificio di Cristo. Sotto questo punto di vista non è evidente alcuna frattura tra il Manzoni della prima esperienza e il Manzoni rinnovato, dopo la conversione. LA FEDE SI FA ACCOMUNATRICE DI TUTTI GLI UOMINI ATTRAVERSO I VALORI ILLUMINISTICI DI LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ.
Il Manzoni, anche negli Inni sacri, testimonia di essere un autore calato perfettamente nella realtà del suo tempo. Egli analizza il dato reale con spirito analitico: ne evidenzia le contraddizioni, le ingiustizie, le sopraffazioni, le molteplici disarmonie. IL MANZONI AVVERTE IN MANIERA LUCIDA E DISINCANTATA IL PROFONDO CONTRASTO, TIPICAMENTE ROMANTICO, TRA REALE E IDEALE. LUNGI DAL RITENERE SUFFICIENTE L’APPORTO DELLA RAGIONE (la ragione da sola non garantisce più la felicità dell’uomo), EGLI DIMOSTRA COME LA SOFFERENZA UMANA PUÒ ESSERE SUPERATA MEDIANTE LA FEDE IN DIO, mediante la certezza che anche il dolore rientra in un disegno superiore e imperscrutabile (la provvida sventura), pertanto le pene di oggi troveranno una giusta ricompensa nella salvezza ultraterrena.
Già negli Inni Sacri si manifesta la CONCEZIONE PROVVIDENZIALISTICA DELLA STORIA che troverà ampio riscontro nei Promessi Sposi: Dio guida le vicende della storia, partecipa alle sofferenze degli uomini, vive in tutti coloro che soffrono per diffondere ideali di giustizia.
PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE , Giovanni Pascoli , Novembre - Miyricae (1891). Dall'elaborato di A. Greco II A (a.s. 2014-15).
Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate
fredda, dei morti.
La lirica “Novembre”, inclusa nella raccolta “Myricae” (1891), è una delle più suggestive di Giovanni Pascoli ed esprime il gusto del poeta per le sensazioni sfuggenti, per la visione di un reale ambiguo e non nettamente definito.
Il componimento può essere suddiviso in tre quadretti descrittivi netti e ben distinguibili, e allo stesso tempo coesi e coerenti : la strofa iniziale presenta una giornata di apparente primavera, con un sole “così chiaro” e “gli albicocchi in fiore”; ma ecco che , osservando più attentamente, l'io lirico si accorge che le piante sono “stecchite”, il biancospino è “secco” ed il suono cupo dei passi riecheggia come se il terreno fosse vuoto: "cavo al piè sonante sembra il terreno”. Alla vivida sensazione di un’atmosfera primaverile (Gemmea l’aria, il sole così chiaro) fa dunque riscontro una realtà diversa (ma secco è il pruno): è autunno, il biancospino non è in fiore, ma secco; i rami degli alberi ormai spogli segnano nere trame; il terreno non è fecondo, ma indurito dal freddo e riecheggia sotto il passo degli uomini, come se fosse cavo. Infine l'ultimo “periodo” costituisce una riflessione sull'inganno ordito dalla natura: l'illusione della primavera in una particolare giornata di novembre evoca la precarietà dell'esistenza. La primavera era soltanto un’illusione e nella giovinezza è già preannunciata la morte. Nella terza strofa, infatti, l’atmosfera si delinea in tutta la sua naturale tristezza: il silenzio del paesaggio autunnale è appena interrotto dal vento che fa cadere dagli alberi le fragili foglie, metafora della precarietà e della finitezza umana. All’illusione della primavera, immagine e simbolo della giovinezza e più in generale della vita, si sostituisce un’atmosfera di morte: l’estate di San Martino “E’ l’estate fredda dei morti”.
Con la poesia, Pascoli vuole evidenziare la fragilità umana rispetto alla inesorabilità alla natura: sebbene nella giovinezza ci possa sembrare di avere tutta una vita davanti, un giorno ogni uomo diverrà “secco” e “stecchito” come il “pruno”. Il tema della precarietà della vita umana è sottolineato dall'espressione “di foglie un cader fragile”. L'immagine metaforica mette in relazione la vita umana e le foglie secche autunnali: la precarietà dell'uomo è come una foglia debolmente attaccata ad un ramo, che continua a resistere e a lottare contro la forza di gravità, ma prima o poi sarà vinta; allo stesso modo la morte incombe inevitabilmente sull'uomo.
Nella lirica il poeta inserisce una lunga antitesi, che si estende per le prime due intere strofe. La figura semantica svolge un ruolo di particolare incidenza: allude metaforicamente alla vita, la gioia e la bellezza di una luminosa giornata primaverile, che è troncata bruscamente dalla morte e dall'aridità dell'inverno. Pascoli ricorre all'artificio per evidenziare una realtà bifacciale, tema portante del componimento, assieme alla riflessione sulla fragilità umana.
Il tema della contrapposizione vita-morte è sottolineato dall'ossimoro in conclusione del brano: “estate / fredda”. L'espressione, non meno rilevante e suggestiva dell'antitesi, è evidenziata da un enjambement.
I campi semantici intorno ai quali ruota la lirica sono dunque la vita e la morte. Le espressioni che concorrono all'individuazione del primo campo semantico sono concentrate nella prima strofa: “gemmea”, “sole chiaro”, “albicocchi in fiore” ed è presente un topos letterario ben consolidato dalla tradizione: l'immagine del “cuore”, da sempre centro propulsore della vita. Al secondo campo, invece, fanno riferimento le espressioni “secco”, “stecchite”, “nere trame”, “vuoto” e “cavo”.
Il componimento è ben ritmato, sono presenti cesure ed enjambement. La terza strofa, ad esempio, è caratterizzata dai segni d'interpunzione, che aumentano notevolmente rispetto alle strofe precedenti, alternandosi quasi con le parole, in modo da creare -mediante le cesure- un senso di solenne solitudine e di vuoto, collegati alla morte.
A conferire musicalità alla lirica si aggiungono le figure metriche, come i molteplici esempi si sinalefe.
Il registro stilistico solenne ed autorevole conferisce gravità ed intensità alla lirica, accrescescendo la sensazione di impotenza dell'uomo dinanzi alla morte e alla natura.
A livello strutturale la lirica è composta da tre quartine di tre versi endecasillabi ed un quinario, che rimano secondo lo schema ABAb CDCd EFEf.
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate
fredda, dei morti.
La lirica “Novembre”, inclusa nella raccolta “Myricae” (1891), è una delle più suggestive di Giovanni Pascoli ed esprime il gusto del poeta per le sensazioni sfuggenti, per la visione di un reale ambiguo e non nettamente definito.
Il componimento può essere suddiviso in tre quadretti descrittivi netti e ben distinguibili, e allo stesso tempo coesi e coerenti : la strofa iniziale presenta una giornata di apparente primavera, con un sole “così chiaro” e “gli albicocchi in fiore”; ma ecco che , osservando più attentamente, l'io lirico si accorge che le piante sono “stecchite”, il biancospino è “secco” ed il suono cupo dei passi riecheggia come se il terreno fosse vuoto: "cavo al piè sonante sembra il terreno”. Alla vivida sensazione di un’atmosfera primaverile (Gemmea l’aria, il sole così chiaro) fa dunque riscontro una realtà diversa (ma secco è il pruno): è autunno, il biancospino non è in fiore, ma secco; i rami degli alberi ormai spogli segnano nere trame; il terreno non è fecondo, ma indurito dal freddo e riecheggia sotto il passo degli uomini, come se fosse cavo. Infine l'ultimo “periodo” costituisce una riflessione sull'inganno ordito dalla natura: l'illusione della primavera in una particolare giornata di novembre evoca la precarietà dell'esistenza. La primavera era soltanto un’illusione e nella giovinezza è già preannunciata la morte. Nella terza strofa, infatti, l’atmosfera si delinea in tutta la sua naturale tristezza: il silenzio del paesaggio autunnale è appena interrotto dal vento che fa cadere dagli alberi le fragili foglie, metafora della precarietà e della finitezza umana. All’illusione della primavera, immagine e simbolo della giovinezza e più in generale della vita, si sostituisce un’atmosfera di morte: l’estate di San Martino “E’ l’estate fredda dei morti”.
Con la poesia, Pascoli vuole evidenziare la fragilità umana rispetto alla inesorabilità alla natura: sebbene nella giovinezza ci possa sembrare di avere tutta una vita davanti, un giorno ogni uomo diverrà “secco” e “stecchito” come il “pruno”. Il tema della precarietà della vita umana è sottolineato dall'espressione “di foglie un cader fragile”. L'immagine metaforica mette in relazione la vita umana e le foglie secche autunnali: la precarietà dell'uomo è come una foglia debolmente attaccata ad un ramo, che continua a resistere e a lottare contro la forza di gravità, ma prima o poi sarà vinta; allo stesso modo la morte incombe inevitabilmente sull'uomo.
Nella lirica il poeta inserisce una lunga antitesi, che si estende per le prime due intere strofe. La figura semantica svolge un ruolo di particolare incidenza: allude metaforicamente alla vita, la gioia e la bellezza di una luminosa giornata primaverile, che è troncata bruscamente dalla morte e dall'aridità dell'inverno. Pascoli ricorre all'artificio per evidenziare una realtà bifacciale, tema portante del componimento, assieme alla riflessione sulla fragilità umana.
Il tema della contrapposizione vita-morte è sottolineato dall'ossimoro in conclusione del brano: “estate / fredda”. L'espressione, non meno rilevante e suggestiva dell'antitesi, è evidenziata da un enjambement.
I campi semantici intorno ai quali ruota la lirica sono dunque la vita e la morte. Le espressioni che concorrono all'individuazione del primo campo semantico sono concentrate nella prima strofa: “gemmea”, “sole chiaro”, “albicocchi in fiore” ed è presente un topos letterario ben consolidato dalla tradizione: l'immagine del “cuore”, da sempre centro propulsore della vita. Al secondo campo, invece, fanno riferimento le espressioni “secco”, “stecchite”, “nere trame”, “vuoto” e “cavo”.
Il componimento è ben ritmato, sono presenti cesure ed enjambement. La terza strofa, ad esempio, è caratterizzata dai segni d'interpunzione, che aumentano notevolmente rispetto alle strofe precedenti, alternandosi quasi con le parole, in modo da creare -mediante le cesure- un senso di solenne solitudine e di vuoto, collegati alla morte.
A conferire musicalità alla lirica si aggiungono le figure metriche, come i molteplici esempi si sinalefe.
Il registro stilistico solenne ed autorevole conferisce gravità ed intensità alla lirica, accrescescendo la sensazione di impotenza dell'uomo dinanzi alla morte e alla natura.
A livello strutturale la lirica è composta da tre quartine di tre versi endecasillabi ed un quinario, che rimano secondo lo schema ABAb CDCd EFEf.
PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE - I CANTO DELL' INFERNO Marika Caruso III D (A.S.2013-14)
Con il primo canto dell' inferno ha inizio il viaggio ultramondano che Dante afferma di aver compiuto nella sua opera maggiore, la Commedia, composta a partire dal 1303-1304 fino agli ultimi anni di vita dell'autore (1321). L'inizio è in medias res: nella notte tra il 7 e l '8 aprile Dante erra, tormentato dalla paura in una selva oscura senza sapere come ci sia giunto. Al mattino vede però un dilettoso colle davanti a sé, illuminato dai primi raggi del sole. Attratto da quella luce e sperando in essa la salvezza si avvia dunque per conquistarne la cima ma invano poiché tre fiere gli sbarrano la strada: sono una lonza prima, poi un leone e infine una lupa che gli fanno perdere la speranza di salire sul colle. La lupa, orrida a vedersi, spinge anzi di nuovo Dante verso il basso e lo riporta nell' angoscia del peccato, nell' esperienza buia della paura. Appare però al poeta un' ombra: è Virgilio che gli indica la strada per cui potrà salvarsi. Dante dovrà attraversare il regno della perdizione eterna e quello della penitenza poiché solo così potrà salire nel regno della luce. Inoltre Virgilio annuncia a Dante l'avvento di un Veltro che libererà la terra dalle tre fiere che dominano il mondo e in particolare saprà cacciare la lupa ingorda. Intanto Virgilio si offre di guidare Dante nel viaggio attraverso i regni ultramondani dell' inferno e del Purgatorio, poi lo affiderà a Beatrice, che accompagnerà il poeta in Paradiso. Il primo canto dell' inferno, ma in generale l' intera opera dantesca, è costituito da strofe di tre versi endecasillabi a rima incatenata. Talvolva l'unità metrica non coincide con l'unità sintattica, ossia il verso non corrisponde alla frase di senso compiuto, quindi in tale caso le strofe vengono ad essere legate l'una all'altra accelerando così il ritmo (esempi sono le strofe 5-6,8-9,13-14,14-15,17-18,19-20,44-45)La paranomasia presente al verso 36 "più volte volto" rimanda allo smarrimento di Dante alla prospettiva di ritornare nella selva oscura. Le caratteristiche della lupa vengono espresse attraverso un' allitterazione della r (versi 49-51) mentre quella della l nei versi descrittivi della lonza e della sua leggerezza creano quasi un effetto onomatopeico. Il poeta utilizza anche un' altra allitterazione con una sequenza degli stessi suoni duri per rendere l'idea dell'asprezza della selva. A ciò contribuisce anche il lessico che si conforma alla materia trattata, infatti come la sequenza degli aggettivi "esta selva selvaggia e aspra e forte" e la presenza della figura etimologica trasmettono l'idea della difficoltà del luogo così l' espressione "spalle vestite già de' raggi del sole" riferita al colle, lo rende cordiale, umanizzato. La lingua poetica del primo canto dell'inferno però oltre ad essere densa di realismo è anche carica di allegorie. Infatti nelle immagini della lonza, del leone e della lupa, tratte dai bestiari medievali, sono visibili le allegorie della lussuria o della frode, della superbia o della violenza e dell' avarizia come cupidigia. La verità di questi vizi è espressa attraverso il lessico e in particolare nella leggerezza rapida della lonza, nella fierezza spaventosa del leone e nella magrezza famelica e insaziabile della lupa. La natura crudele di quest' ultima viene delineata dalla dittologia "sì malvagia e rìa" (verso 97). Le stesse parole di Virgilio confermano il rapporto figurato che sussiste tra lupa e avidità, un vizio che esattamente come l'animale descritto dal poeta non si sazia mai di accumulare beni e dopo ogni successo è più affamato di prima. Inoltre il fatto che le tre bestie impediscano il cammino di Dante verso il colle inducendolo a tornare indietro è la rappresentazione allegorica di come le inclinazioni peccaminose impediscano la via dell' uomo verso la salvezza inducendolo a restare nel peccato. Sono rilevanti le metafore del "dilettoso colle", ossia la speranza della salvezza, e della "selva oscura" che rappresenta il peccato e quindi, lo smarrimento in essa indica la presa di coscienza dell' io narrante di trovarsi in uno stato di errore. Lo stesso sonno va inteso non come bisogno fisico ma come sonno della ragione, stordimento e ottenebramento della mente, figure tipiche del peccato nella Bibbia la cui influenza è evidente anche nell' espressione "Miserere di me" che è anche un latinismo, insieme al termine "pelago".
Il primo canto dell'inferno è denso di simbolismo e allegorie: prima fra tutte l'immagine di Virgilio, simbolo della ragione e del pensiero umani. Ciò è evidente nel suo discorrere pacato, nel suo trepido consigliare, nel suo paterno correggere e nel suo bonario decidere per l' allievo. Essendo Virgilio simbolo della ragione, il suo essere senza voce è metafora di come la voce della ragione abbia a lungo taciuto nell' uomo che viveva nel peccato. Anche l'avvicendamento delle due figure di Virgilio e Beatrice ha un significato simbolico cioè la sola ragione umana rappresentata dal poeta non è sufficiente per condurre l' uomo fino in Paradiso ma deve essere soccorsa dalla fede, rappresentata da Beatrice, che è superiore anche se complementare alla razionalità. Inoltre contribuiscono a trasmettere l'idea della difficoltà del luogo la similitudine tra il naufrago che si volge a rimirare le onde pericolose e il poeta che, ancora tutto inorridito, si volge a guardare la selva (versi 22-27) e la similitudine tra la disposizione d' animo di Dante che viene ricacciato nella selva dalla lupa e quella dell' avaro che perde tutto(versi 55-60). Inoltre la condizione di Dante che si volge indietro a rimirare la selva è a sua volta metafora dell' uomo che prende coscienza dei suoi errori e guarda alla vita passata con spavento. Numerosissime sono le perifrasi: "Nel mezzo del cammin di nostra vita" che apre l' opera, "Nel tempo de li dei falsi e bugiardi " (verso 72) ovvero in periodo pagano, la perifrasi astronomica "Temp' era dal principio del mattino" ed altre ai versi 30 e 60. Altre figure retoriche semantiche possono essere rilevate nel lungo discorrere tra Dante e Virgilio. Quest'ultimo, quando prende per la prima volta la parola, apre il suo discorso con un chiasmo e allo stesso tempo un' antitesi: "Non omo, omo già fui". Dante invece con le sue parole mette in evidenza la grandezza morale, intellettuale e in ambito retorico di Virgilio tramite l' endiadi "de li altri poeti onore e lume"(verso 82), la metafora ai versi 79-80 e l'apostrofe "famoso saggio" che sottolineano tutte la sua riverenza nei confronti di Virgilio. Altre figure retoriche, utilizzate frequentemente da Dante nella sua opera ed anche in questo canto, sono la sinestesia (" 'l sol tace" al verso 60), la metonimia (verso 109) e la personificazione ("animo mio ch' ancor fuggiva" al verso 25). A livello sintattico sono molto numerose le anastrofi (versi 12,15,33,49-50,80,95-96) ed è presente un'anafora ai versi 85 e 86 ("Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui...") con la quale Dante sottolinea ciò che Virgilio è stato per lui. Senso di angoscia e speranza, peccato e desiderio di salvezza sono i temi dominanti di questo primo canto introduttivo della Commedia: tali temi vengono interpretati con le immagini metaforiche del buio e della luce e, ancor meglio, mediante i quadri simbolici della "selva oscura" e del "dilettoso monte". Virgilio mostrando a Dante l'altra strada, il viaggio attraverso i tre mondi, rende chiaro il messaggio: all'uomo la via diretta al Paradiso è preclusa e per raggiungere il cielo gli è necessario un percorso che comprende la coscienza razionale del peccato, il distacco da esso e la deliberata purificazione. Il viaggio attraverso i tre mondi è perciò metafora del percorso introspettivo di conoscenza razionale del peccato e pentimento, il solo che può condurre l' uomo alla salvezza.
Marika Caruso IIID
MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F (A.S.2012-13)
MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F (A.S.2012-13)
Iacopo da Lentini, Meravigliosamente
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn'ora.
Com'om che pone mente
in altro exemplo pinge 5
la simile pintura,
così, bella, facc'eo,
che 'nfra lo core meo
porto la tua figura.
In cor par ch'eo vi porti, 1 0
pinta como parete,
e non pare di fore.
O Deo, co' mi par forte.
Non so se lo sapete,
con' v'amo di bon core: 15
ch'eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio,
dipinsi una pintura, 20
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo 'n quella figura,
e par ch'eo v'aggia avante:
come quello che crede 25
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.
Al cor m'arde una doglia
com'om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso, 30
e quando più lo 'nvoglia,
allora arde più loco
e non pò stare incluso:
similemente eo ardo
quando pass'e non guardo 35
a voi, vis'amoroso.
S'eo guardo, quando passo,
inver voi, no mi giro,
bella, per risguardare.
Andando, ad ogni passo 40
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c'a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.
Assai v'aggio laudato,
madonna, in tutte parti
di bellezze ch'avete.
Non so se v'è contato
ch'eo lo faccia per arti, 50
che voi pur v'ascondete.
Sacciatelo per singa,
zo ch'eo no dico a linga,
quando voi mi vedrite.
Canzonetta novella, 55
va' canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d'ogni amorosa,
bionda più c'auro fino:60
«Lo vostro amor, ch'è caro,
donatelo al Notaro
ch'è nato da Lentino».
PRESENTAZIONE DEL TESTO
"Meravigliosamente" è una lirica composta da Jacopo Da Lentini (Siracusa, 1210 – 1260), notaio alla corte di Federico II di Svevia. Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio, vv. 55-57,come autorevole rappresentazione della Scuola Siciliana: "O frate, issa vegg'io, diss' egli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me riten ne di qua dal dolce stil novo ch'i odo !" Codificò le forme metriche della canzone, e fu probabilmente l'inventore del sonetto. La lirica "Meravigliosamente" affronta il tema, tipicamente provenzale, dell'innamorato timido che non osa esprimere all'amata i propri sentimenti. Questi, però, si rivelano egualmente attraverso gli sguardi, i sospiri e i pianti. Per placare la passione struggente che lo avvolge, il poeta dice di aver riprodotto dentro di sé l’immagine della sua donna , dal cui vagheggiamento deriva un’emozione di gioia pari a quella che uno spirito credente trae dalla fede. La figura interiore è così nitida e ben presente che il poeta incontrando la reale persona dell’amata, può anche fare a meno di guardarla, per eccesso di timidezza : la bellezza di lei è tanto grande che il cuore quasi non può sostenerla, e un tremore assale il poeta, il tremore che si prova di fronte alle cose che sembrano appartenere ad una realtà più grande di quella che comunemente viviamo. L'avverbio " meravigliosamente", che occupa per esteso il primo verso, per la sua posizione isolata che accentra vivamente su di sé l’attenzione e per il suo ritmo lentamente modulato, introduce un'atmosfera di eccezione, di fuor dell’usato, che corrisponde alla " nova cosa" del v. 56, nel congedo. Meravigliosamente rappresenta una delle liriche migliori di Giacomo da Lentini: un’intima e accorata confessione d’amore sotto forma di monologo interiore che si risolve nel dolce e malinconico vagheggiamento della donna amata.
ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE (livello metrico - ritmico/ stilistico-retorico)
Meravigliosamente è una “canzonetta” apparentemente leggera , sia per la leggerezza del ritmo,
che per l’ umana verità del sentimento ; essa rappresenta, tuttavia, il nuovo modo di cantare l’amore, in cui i precedenti trobadorici sono rielaborati con raffinata leggerezza e spinti ad analizzare la questione amorosa principalmente in termini di indagine interiore e di affinamento spirituale: il poeta tende ad esprimere i risvolti psicologici e interiori dell’esperienza amorosa, il momento in cui essa è pura contemplazione e non osa manifestarsi. La lirica, una canzonetta di settenari ( schema ritmico "abc abc" nella fronte, "ddc" nella sirima; l'ultimo verso della fronte rima con l'ultimo della sirima) , si articola in tre principali nuclei tematici. Nella prima parte( vv. 1-45), il poeta svolge il motivo della contemplazione intima e sofferta della donna amata : attraverso un processo di interiorizzazione, il poeta “dipinge “ nel proprio cuore l’immagine della donna amata (“ così, bella, facc’eo, che ‘nfra lo core meo porto la tua figura”, vv.7-9) la cui bellezza gli appare come un miracolo, che suscita nell'animo un sentimento di stupefazione, come se il poeta si trovasse al cospetto di una creatura ultraterrena. Alla gioia della contemplazione, si alterna poi il dolore, la pena di non riuscire ad esprimere, per timidezza e per pudore, il proprio sentimento di ammirazione e di dolcezza, e di doverlo perciò tenere segreto e nascosto quando egli le passa accanto e non osa guardarla. Nella seconda parte della lirica, ( vv. 46-54), il poeta manifesta la sincerità del suo sentimento d'amore contro le insinuazioni dei calunniatori. Nella terza parte della lirica ( vv. 55-63), costituita dal "congedo", il poeta rivolge alla donna amata una preghiera franca, decisa, nella speranza che ella gli faccia dono del suo caro amore.
La penultima strofa dichiara l'intento della canzone e riassume nel motivo della lode la ragione
profonda che l'ha ispirata. Il "congedo", segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica: la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che " firma" così la sua composizione.
La struttura della lirica si rivela semplice grazie all’uso del verso settenario e alla presenza di un lessico non particolarmente difficile o tecnicistico. Pur nella complessiva semplicità del tessuto retorico, sono presenti studiate simmetrie tematiche e strutturali, basti pensare al motivo guida della straordinarietà dell’esperienza amorosa, cui corrispondono il desiderio del poeta di immortalare l’intensità del suo sentimento mediante versi d’amore e il riferimento alla raffigurazione dell’oggetto amato. Nel componimento non mancano, tuttavia, artifici stilistici ben individuabili, come l’uso della tecnica coblas capfinidas che si manifesta nel legame tra la prima e la seconda stanza (“ ‘nfra lo cor meo porto la tua figura”, vv.8-9; ”In cor par ch’eo vi porti pinta como parete”vv.10-11 ) e tra le stanze quarta e quinta ( “quando pass’ e non guardo a voi vis’amoroso”, vv.35-36 ; ”S’eo guardo, quando passo, in ver’voi , non mi giro” vv.36-38 ). Con la ripetizione del verbo "parere" ai versi 10 e 13, la canzone ribadisce il concetto della donna amata impressa nel cuore, tema che avrà molta fortuna nella evoluzione della lirica d’amore, fino allo Stilnovo. ll riferimento alla fede "come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante" (vv 25-27) prelude alla splendida metafora del fuoco del v.29 (“com'om che ten lo foco") , simbolo di una passione amorosa incontrastabile, che arde e consuma l’animo. E’ questa la tematica, tipicamente provenzale, della sofferenza d'amore, sviluppata in un senso più propriamente "psicologico" nella quinta strofa e mediata dal motivo dello "sguardo”, motivo che si arricchirà, nella poetica del Dolce Stil Novo, di nuovi intrinseci sviluppi.
Ancora, nella quarta e quinta strofa emergono i motivi della segretezza dell’amore e della timidezza dell’amante : il poeta è incapace di comunicare il suo amore e si limita ad ammirare l’oggetto del desiderio di nascosto, fingendo di essere indifferente ("pare che io vi porti dipinta proprio come realmente siete, e di fuori non si vede nulla") .
CONTESTUALIZZAZIONE - APPROFONDIMENTO
“ Meravigliosamente” rappresenta una canzone di “transizione” in quanto contiene ancora elementi della tradizione provenzale rivisti e rielaborati alla luce della nuova sensibilità poetica. Nei provenzali il rituale d’amore è modellato sull’omaggio feudale, e s’incentra sul rapporto tra il servizio d’amore e l’attesa di una ricompensa, investendo sessualmente anche il corpo della donna. Nella poesia della scuola siciliana il corpo della donna scompare del tutto: si realizza un'assoluta separazione tra la “figura”, ovvero l’immagine che il poeta porta nel cuore, e la persona della dama che egli rinuncia a guardare. Sul piano linguistico, la Scuola Siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico fatto di volgare locale mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del Trobar Clus e del Trobar Leu. Più tardi, nell’ambito del Dolce Stil Novo, Dante criticherà l’eccessivo riferimento da parte dei rimatori della Scuola Siciliana alla produzione lirica francese Valentina Riccardelli, Matteo Marcaccio III F
Iacopo da Lentini, Meravigliosamente
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn'ora.
Com'om che pone mente
in altro exemplo pinge 5
la simile pintura,
così, bella, facc'eo,
che 'nfra lo core meo
porto la tua figura.
In cor par ch'eo vi porti, 1 0
pinta como parete,
e non pare di fore.
O Deo, co' mi par forte.
Non so se lo sapete,
con' v'amo di bon core: 15
ch'eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio,
dipinsi una pintura, 20
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo 'n quella figura,
e par ch'eo v'aggia avante:
come quello che crede 25
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.
Al cor m'arde una doglia
com'om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso, 30
e quando più lo 'nvoglia,
allora arde più loco
e non pò stare incluso:
similemente eo ardo
quando pass'e non guardo 35
a voi, vis'amoroso.
S'eo guardo, quando passo,
inver voi, no mi giro,
bella, per risguardare.
Andando, ad ogni passo 40
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c'a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.
Assai v'aggio laudato,
madonna, in tutte parti
di bellezze ch'avete.
Non so se v'è contato
ch'eo lo faccia per arti, 50
che voi pur v'ascondete.
Sacciatelo per singa,
zo ch'eo no dico a linga,
quando voi mi vedrite.
Canzonetta novella, 55
va' canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d'ogni amorosa,
bionda più c'auro fino:60
«Lo vostro amor, ch'è caro,
donatelo al Notaro
ch'è nato da Lentino».
PRESENTAZIONE DEL TESTO
"Meravigliosamente" è una lirica composta da Jacopo Da Lentini (Siracusa, 1210 – 1260), notaio alla corte di Federico II di Svevia. Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio, vv. 55-57,come autorevole rappresentazione della Scuola Siciliana: "O frate, issa vegg'io, diss' egli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me riten ne di qua dal dolce stil novo ch'i odo !" Codificò le forme metriche della canzone, e fu probabilmente l'inventore del sonetto. La lirica "Meravigliosamente" affronta il tema, tipicamente provenzale, dell'innamorato timido che non osa esprimere all'amata i propri sentimenti. Questi, però, si rivelano egualmente attraverso gli sguardi, i sospiri e i pianti. Per placare la passione struggente che lo avvolge, il poeta dice di aver riprodotto dentro di sé l’immagine della sua donna , dal cui vagheggiamento deriva un’emozione di gioia pari a quella che uno spirito credente trae dalla fede. La figura interiore è così nitida e ben presente che il poeta incontrando la reale persona dell’amata, può anche fare a meno di guardarla, per eccesso di timidezza : la bellezza di lei è tanto grande che il cuore quasi non può sostenerla, e un tremore assale il poeta, il tremore che si prova di fronte alle cose che sembrano appartenere ad una realtà più grande di quella che comunemente viviamo. L'avverbio " meravigliosamente", che occupa per esteso il primo verso, per la sua posizione isolata che accentra vivamente su di sé l’attenzione e per il suo ritmo lentamente modulato, introduce un'atmosfera di eccezione, di fuor dell’usato, che corrisponde alla " nova cosa" del v. 56, nel congedo. Meravigliosamente rappresenta una delle liriche migliori di Giacomo da Lentini: un’intima e accorata confessione d’amore sotto forma di monologo interiore che si risolve nel dolce e malinconico vagheggiamento della donna amata.
ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE (livello metrico - ritmico/ stilistico-retorico)
Meravigliosamente è una “canzonetta” apparentemente leggera , sia per la leggerezza del ritmo,
che per l’ umana verità del sentimento ; essa rappresenta, tuttavia, il nuovo modo di cantare l’amore, in cui i precedenti trobadorici sono rielaborati con raffinata leggerezza e spinti ad analizzare la questione amorosa principalmente in termini di indagine interiore e di affinamento spirituale: il poeta tende ad esprimere i risvolti psicologici e interiori dell’esperienza amorosa, il momento in cui essa è pura contemplazione e non osa manifestarsi. La lirica, una canzonetta di settenari ( schema ritmico "abc abc" nella fronte, "ddc" nella sirima; l'ultimo verso della fronte rima con l'ultimo della sirima) , si articola in tre principali nuclei tematici. Nella prima parte( vv. 1-45), il poeta svolge il motivo della contemplazione intima e sofferta della donna amata : attraverso un processo di interiorizzazione, il poeta “dipinge “ nel proprio cuore l’immagine della donna amata (“ così, bella, facc’eo, che ‘nfra lo core meo porto la tua figura”, vv.7-9) la cui bellezza gli appare come un miracolo, che suscita nell'animo un sentimento di stupefazione, come se il poeta si trovasse al cospetto di una creatura ultraterrena. Alla gioia della contemplazione, si alterna poi il dolore, la pena di non riuscire ad esprimere, per timidezza e per pudore, il proprio sentimento di ammirazione e di dolcezza, e di doverlo perciò tenere segreto e nascosto quando egli le passa accanto e non osa guardarla. Nella seconda parte della lirica, ( vv. 46-54), il poeta manifesta la sincerità del suo sentimento d'amore contro le insinuazioni dei calunniatori. Nella terza parte della lirica ( vv. 55-63), costituita dal "congedo", il poeta rivolge alla donna amata una preghiera franca, decisa, nella speranza che ella gli faccia dono del suo caro amore.
La penultima strofa dichiara l'intento della canzone e riassume nel motivo della lode la ragione
profonda che l'ha ispirata. Il "congedo", segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica: la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che " firma" così la sua composizione.
La struttura della lirica si rivela semplice grazie all’uso del verso settenario e alla presenza di un lessico non particolarmente difficile o tecnicistico. Pur nella complessiva semplicità del tessuto retorico, sono presenti studiate simmetrie tematiche e strutturali, basti pensare al motivo guida della straordinarietà dell’esperienza amorosa, cui corrispondono il desiderio del poeta di immortalare l’intensità del suo sentimento mediante versi d’amore e il riferimento alla raffigurazione dell’oggetto amato. Nel componimento non mancano, tuttavia, artifici stilistici ben individuabili, come l’uso della tecnica coblas capfinidas che si manifesta nel legame tra la prima e la seconda stanza (“ ‘nfra lo cor meo porto la tua figura”, vv.8-9; ”In cor par ch’eo vi porti pinta como parete”vv.10-11 ) e tra le stanze quarta e quinta ( “quando pass’ e non guardo a voi vis’amoroso”, vv.35-36 ; ”S’eo guardo, quando passo, in ver’voi , non mi giro” vv.36-38 ). Con la ripetizione del verbo "parere" ai versi 10 e 13, la canzone ribadisce il concetto della donna amata impressa nel cuore, tema che avrà molta fortuna nella evoluzione della lirica d’amore, fino allo Stilnovo. ll riferimento alla fede "come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante" (vv 25-27) prelude alla splendida metafora del fuoco del v.29 (“com'om che ten lo foco") , simbolo di una passione amorosa incontrastabile, che arde e consuma l’animo. E’ questa la tematica, tipicamente provenzale, della sofferenza d'amore, sviluppata in un senso più propriamente "psicologico" nella quinta strofa e mediata dal motivo dello "sguardo”, motivo che si arricchirà, nella poetica del Dolce Stil Novo, di nuovi intrinseci sviluppi.
Ancora, nella quarta e quinta strofa emergono i motivi della segretezza dell’amore e della timidezza dell’amante : il poeta è incapace di comunicare il suo amore e si limita ad ammirare l’oggetto del desiderio di nascosto, fingendo di essere indifferente ("pare che io vi porti dipinta proprio come realmente siete, e di fuori non si vede nulla") .
CONTESTUALIZZAZIONE - APPROFONDIMENTO
“ Meravigliosamente” rappresenta una canzone di “transizione” in quanto contiene ancora elementi della tradizione provenzale rivisti e rielaborati alla luce della nuova sensibilità poetica. Nei provenzali il rituale d’amore è modellato sull’omaggio feudale, e s’incentra sul rapporto tra il servizio d’amore e l’attesa di una ricompensa, investendo sessualmente anche il corpo della donna. Nella poesia della scuola siciliana il corpo della donna scompare del tutto: si realizza un'assoluta separazione tra la “figura”, ovvero l’immagine che il poeta porta nel cuore, e la persona della dama che egli rinuncia a guardare. Sul piano linguistico, la Scuola Siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico fatto di volgare locale mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del Trobar Clus e del Trobar Leu. Più tardi, nell’ambito del Dolce Stil Novo, Dante criticherà l’eccessivo riferimento da parte dei rimatori della Scuola Siciliana alla produzione lirica francese Valentina Riccardelli, Matteo Marcaccio III F
TIPOLOGIA A : analisi testuale. G. Da Lentini "Amor è un[o] desio", dagli elaborati di Serena Capodiferro, Mario Massimo Cappuccia III E (A.S.2012-13)
PRESENTAZIONE DEL TESTO- COMPRENSIONE
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’amore, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei tòpoi presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della “pintura”: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’amor de lonh, afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso.
B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il topos della “pintura”, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne.
C – CONTESTUALIZZAZIONE- APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il servitium amoris (servizio d'amore), tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta.
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’amore, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei tòpoi presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della “pintura”: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’amor de lonh, afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso.
B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il topos della “pintura”, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne.
C – CONTESTUALIZZAZIONE- APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il servitium amoris (servizio d'amore), tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta.
TIPOLOGIA A : analisi testuale. G. Da Lentini "Amor è un[o] desio", dagli elaborati di Serena Capodiferro, Valerio Massimo Cappuccia III E (A.S.2012-13)
PRESENTAZIONE DEL TESTO- COMPRENSIONE
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’amore, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei tòpoi presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della “pintura”: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’amor de lonh, afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso.
B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il topos della “pintura”, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne.
C – CONTESTUALIZZAZIONE- APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il servitium amoris (servizio d'amore), tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta.
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’amore, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei tòpoi presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della “pintura”: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’amor de lonh, afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso.
B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il topos della “pintura”, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne.
C – CONTESTUALIZZAZIONE- APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il servitium amoris (servizio d'amore), tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta.
MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F (A.S.2012-13)
MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. ANALISI TESTUALE tratta dagli elaborati di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F
Iacopo da Lentini, Meravigliosamente
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn'ora.
Com'om che pone mente
in altro exemplo pinge 5
la simile pintura,
così, bella, facc'eo,
che 'nfra lo core meo
porto la tua figura.
In cor par ch'eo vi porti, 1 0
pinta como parete,
e non pare di fore.
O Deo, co' mi par forte.
Non so se lo sapete,
con' v'amo di bon core: 15
ch'eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio,
dipinsi una pintura, 20
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo 'n quella figura,
e par ch'eo v'aggia avante:
come quello che crede 25
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.
Al cor m'arde una doglia
com'om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso, 30
e quando più lo 'nvoglia,
allora arde più loco
e non pò stare incluso:
similemente eo ardo
quando pass'e non guardo 35
a voi, vis'amoroso.
S'eo guardo, quando passo,
inver voi, no mi giro,
bella, per risguardare.
Andando, ad ogni passo 40
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c'a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.
Assai v'aggio laudato,
madonna, in tutte parti
di bellezze ch'avete.
Non so se v'è contato
ch'eo lo faccia per arti, 50
che voi pur v'ascondete.
Sacciatelo per singa,
zo ch'eo no dico a linga,
quando voi mi vedrite.
Canzonetta novella, 55
va' canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d'ogni amorosa,
bionda più c'auro fino:60
«Lo vostro amor, ch'è caro,
donatelo al Notaro
ch'è nato da Lentino».
PRESENTAZIONE DEL TESTO "Meravigliosamente" è una lirica composta da Jacopo Da Lentini (Siracusa, 1210 – 1260), notaio alla corte di Federico II di Svevia. Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio, vv. 55-57,come autorevole rappresentazione della Scuola Siciliana: "O frate, issa vegg'io, diss' egli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me riten ne di qua dal dolce stil novo ch'i odo !" Codificò le forme metriche della canzone, e fu probabilmente l'inventore del sonetto. La lirica "Meravigliosamente" affronta il tema, tipicamente provenzale, dell'innamorato timido che non osa esprimere all'amata i propri sentimenti. Questi, però, si rivelano egualmente attraverso gli sguardi, i sospiri e i pianti. Per placare la passione struggente che lo avvolge, il poeta dice di aver riprodotto dentro di sé l’immagine della sua donna , dal cui vagheggiamento deriva un’emozione di gioia pari a quella che uno spirito credente trae dalla fede. La figura interiore è così nitida e ben presente che il poeta incontrando la reale persona dell’amata, può anche fare a meno di guardarla, per eccesso di timidezza : la bellezza di lei è tanto grande che il cuore quasi non può sostenerla, e un tremore assale il poeta, il tremore che si prova di fronte alle cose che sembrano appartenere ad una realtà più grande di quella che comunemente viviamo. L'avverbio " meravigliosamente", che occupa per esteso il primo verso, per la sua posizione isolata che accentra vivamente su di sé l’attenzione e per il suo ritmo lentamente modulato, introduce un'atmosfera di eccezione, di fuor dell’usato, che corrisponde alla " nova cosa" del v. 56, nel congedo. Meravigliosamente rappresenta una delle liriche migliori di Giacomo da Lentini: un’intima e accorata confessione d’amore sotto forma di monologo interiore che si risolve nel dolce e malinconico vagheggiamento della donna amata.
ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE (livello metrico - ritmico/ stilistico-retorico)
Meravigliosamente è una “canzonetta” apparentemente leggera , sia per la leggerezza del ritmo,
che per l’ umana verità del sentimento ; essa rappresenta, tuttavia, il nuovo modo di cantare l’amore, in cui i precedenti trobadorici sono rielaborati con raffinata leggerezza e spinti ad analizzare la questione amorosa principalmente in termini di indagine interiore e di affinamento spirituale: il poeta tende ad esprimere i risvolti psicologici e interiori dell’esperienza amorosa, il momento in cui essa è pura contemplazione e non osa manifestarsi. La lirica, una canzonetta di settenari ( schema ritmico "abc abc" nella fronte, "ddc" nella sirima; l'ultimo verso della fronte rima con l'ultimo della sirima) , si articola in tre principali nuclei tematici. Nella prima parte( vv. 1-45), il poeta svolge il motivo della contemplazione intima e sofferta della donna amata : attraverso un processo di interiorizzazione, il poeta “dipinge “ nel proprio cuore l’immagine della donna amata (“ così, bella, facc’eo, che ‘nfra lo core meo porto la tua figura”, vv.7-9) la cui bellezza gli appare come un miracolo, che suscita nell'animo un sentimento di stupefazione, come se il poeta si trovasse al cospetto di una creatura ultraterrena. Alla gioia della contemplazione, si alterna poi il dolore, la pena di non riuscire ad esprimere, per timidezza e per pudore, il proprio sentimento di ammirazione e di dolcezza, e di doverlo perciò tenere segreto e nascosto quando egli le passa accanto e non osa guardarla. Nella seconda parte della lirica, ( vv. 46-54), il poeta manifesta la sincerità del suo sentimento d'amore contro le insinuazioni dei calunniatori. Nella terza parte della lirica ( vv. 55-63), costituita dal "congedo", il poeta rivolge alla donna amata una preghiera franca, decisa, nella speranza che ella gli faccia dono del suo caro amore.
La penultima strofa dichiara l'intento della canzone e riassume nel motivo della lode la ragione
profonda che l'ha ispirata. Il "congedo", segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica: la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che " firma" così la sua composizione.
La struttura della lirica si rivela semplice grazie all’uso del verso settenario e alla presenza di un lessico non particolarmente difficile o tecnicistico. Pur nella complessiva semplicità del tessuto retorico, sono presenti studiate simmetrie tematiche e strutturali, basti pensare al motivo guida della straordinarietà dell’esperienza amorosa, cui corrispondono il desiderio del poeta di immortalare l’intensità del suo sentimento mediante versi d’amore e il riferimento alla raffigurazione dell’oggetto amato. Nel componimento non mancano, tuttavia, artifici stilistici ben individuabili, come l’uso della tecnica coblas capfinidas che si manifesta nel legame tra la prima e la seconda stanza (“ ‘nfra lo cor meo porto la tua figura”, vv.8-9; ”In cor par ch’eo vi porti pinta como parete”vv.10-11 ) e tra le stanze quarta e quinta ( “quando pass’ e non guardo a voi vis’amoroso”, vv.35-36 ; ”S’eo guardo, quando passo, in ver’voi , non mi giro” vv.36-38 ). Con la ripetizione del verbo "parere" ai versi 10 e 13, la canzone ribadisce il concetto della donna amata impressa nel cuore, tema che avrà molta fortuna nella evoluzione della lirica d’amore, fino allo Stilnovo. ll riferimento alla fede "come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante" (vv 25-27) prelude alla splendida metafora del fuoco del v.29 (“com'om che ten lo foco") , simbolo di una passione amorosa incontrastabile, che arde e consuma l’animo. E’ questa la tematica, tipicamente provenzale, della sofferenza d'amore, sviluppata in un senso più propriamente "psicologico" nella quinta strofa e mediata dal motivo dello "sguardo”, motivo che si arricchirà, nella poetica del Dolce Stil Novo, di nuovi intrinseci sviluppi.
Ancora, nella quarta e quinta strofa emergono i motivi della segretezza dell’amore e della timidezza dell’amante : il poeta è incapace di comunicare il suo amore e si limita ad ammirare l’oggetto del desiderio di nascosto, fingendo di essere indifferente ("pare che io vi porti dipinta proprio come realmente siete, e di fuori non si vede nulla") .
CONTESTUALIZZAZIONE - APPROFONDIMENTO : Cenni sulla Scuola Siciliana.
“ Meravigliosamente” rappresenta una canzone di “transizione” in quanto contiene ancora elementi della tradizione provenzale rivisti e rielaborati alla luce della nuova sensibilità poetica. Nei provenzali il rituale d’amore è modellato sull’omaggio feudale, e s’incentra sul rapporto tra il servizio d’amore e l’attesa di una ricompensa, investendo sessualmente anche il corpo della donna. Nella poesia della scuola siciliana il corpo della donna scompare del tutto: si realizza un'assoluta separazione tra la “figura”, ovvero l’immagine che il poeta porta nel cuore, e la persona della dama che egli rinuncia a guardare. Sul piano linguistico, la Scuola Siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico fatto di volgare locale mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del Trobar Clus e del Trobar Leu. Più tardi, nell’ambito del Dolce Stil Novo, Dante criticherà l’eccessivo riferimento da parte dei rimatori della Scuola Siciliana alla produzione lirica francese Valentina Riccardelli, Matteo Marcaccio III F
Iacopo da Lentini, Meravigliosamente
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn'ora.
Com'om che pone mente
in altro exemplo pinge 5
la simile pintura,
così, bella, facc'eo,
che 'nfra lo core meo
porto la tua figura.
In cor par ch'eo vi porti, 1 0
pinta como parete,
e non pare di fore.
O Deo, co' mi par forte.
Non so se lo sapete,
con' v'amo di bon core: 15
ch'eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio,
dipinsi una pintura, 20
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo 'n quella figura,
e par ch'eo v'aggia avante:
come quello che crede 25
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.
Al cor m'arde una doglia
com'om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso, 30
e quando più lo 'nvoglia,
allora arde più loco
e non pò stare incluso:
similemente eo ardo
quando pass'e non guardo 35
a voi, vis'amoroso.
S'eo guardo, quando passo,
inver voi, no mi giro,
bella, per risguardare.
Andando, ad ogni passo 40
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c'a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.
Assai v'aggio laudato,
madonna, in tutte parti
di bellezze ch'avete.
Non so se v'è contato
ch'eo lo faccia per arti, 50
che voi pur v'ascondete.
Sacciatelo per singa,
zo ch'eo no dico a linga,
quando voi mi vedrite.
Canzonetta novella, 55
va' canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d'ogni amorosa,
bionda più c'auro fino:60
«Lo vostro amor, ch'è caro,
donatelo al Notaro
ch'è nato da Lentino».
PRESENTAZIONE DEL TESTO "Meravigliosamente" è una lirica composta da Jacopo Da Lentini (Siracusa, 1210 – 1260), notaio alla corte di Federico II di Svevia. Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio, vv. 55-57,come autorevole rappresentazione della Scuola Siciliana: "O frate, issa vegg'io, diss' egli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me riten ne di qua dal dolce stil novo ch'i odo !" Codificò le forme metriche della canzone, e fu probabilmente l'inventore del sonetto. La lirica "Meravigliosamente" affronta il tema, tipicamente provenzale, dell'innamorato timido che non osa esprimere all'amata i propri sentimenti. Questi, però, si rivelano egualmente attraverso gli sguardi, i sospiri e i pianti. Per placare la passione struggente che lo avvolge, il poeta dice di aver riprodotto dentro di sé l’immagine della sua donna , dal cui vagheggiamento deriva un’emozione di gioia pari a quella che uno spirito credente trae dalla fede. La figura interiore è così nitida e ben presente che il poeta incontrando la reale persona dell’amata, può anche fare a meno di guardarla, per eccesso di timidezza : la bellezza di lei è tanto grande che il cuore quasi non può sostenerla, e un tremore assale il poeta, il tremore che si prova di fronte alle cose che sembrano appartenere ad una realtà più grande di quella che comunemente viviamo. L'avverbio " meravigliosamente", che occupa per esteso il primo verso, per la sua posizione isolata che accentra vivamente su di sé l’attenzione e per il suo ritmo lentamente modulato, introduce un'atmosfera di eccezione, di fuor dell’usato, che corrisponde alla " nova cosa" del v. 56, nel congedo. Meravigliosamente rappresenta una delle liriche migliori di Giacomo da Lentini: un’intima e accorata confessione d’amore sotto forma di monologo interiore che si risolve nel dolce e malinconico vagheggiamento della donna amata.
ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE (livello metrico - ritmico/ stilistico-retorico)
Meravigliosamente è una “canzonetta” apparentemente leggera , sia per la leggerezza del ritmo,
che per l’ umana verità del sentimento ; essa rappresenta, tuttavia, il nuovo modo di cantare l’amore, in cui i precedenti trobadorici sono rielaborati con raffinata leggerezza e spinti ad analizzare la questione amorosa principalmente in termini di indagine interiore e di affinamento spirituale: il poeta tende ad esprimere i risvolti psicologici e interiori dell’esperienza amorosa, il momento in cui essa è pura contemplazione e non osa manifestarsi. La lirica, una canzonetta di settenari ( schema ritmico "abc abc" nella fronte, "ddc" nella sirima; l'ultimo verso della fronte rima con l'ultimo della sirima) , si articola in tre principali nuclei tematici. Nella prima parte( vv. 1-45), il poeta svolge il motivo della contemplazione intima e sofferta della donna amata : attraverso un processo di interiorizzazione, il poeta “dipinge “ nel proprio cuore l’immagine della donna amata (“ così, bella, facc’eo, che ‘nfra lo core meo porto la tua figura”, vv.7-9) la cui bellezza gli appare come un miracolo, che suscita nell'animo un sentimento di stupefazione, come se il poeta si trovasse al cospetto di una creatura ultraterrena. Alla gioia della contemplazione, si alterna poi il dolore, la pena di non riuscire ad esprimere, per timidezza e per pudore, il proprio sentimento di ammirazione e di dolcezza, e di doverlo perciò tenere segreto e nascosto quando egli le passa accanto e non osa guardarla. Nella seconda parte della lirica, ( vv. 46-54), il poeta manifesta la sincerità del suo sentimento d'amore contro le insinuazioni dei calunniatori. Nella terza parte della lirica ( vv. 55-63), costituita dal "congedo", il poeta rivolge alla donna amata una preghiera franca, decisa, nella speranza che ella gli faccia dono del suo caro amore.
La penultima strofa dichiara l'intento della canzone e riassume nel motivo della lode la ragione
profonda che l'ha ispirata. Il "congedo", segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica: la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che " firma" così la sua composizione.
La struttura della lirica si rivela semplice grazie all’uso del verso settenario e alla presenza di un lessico non particolarmente difficile o tecnicistico. Pur nella complessiva semplicità del tessuto retorico, sono presenti studiate simmetrie tematiche e strutturali, basti pensare al motivo guida della straordinarietà dell’esperienza amorosa, cui corrispondono il desiderio del poeta di immortalare l’intensità del suo sentimento mediante versi d’amore e il riferimento alla raffigurazione dell’oggetto amato. Nel componimento non mancano, tuttavia, artifici stilistici ben individuabili, come l’uso della tecnica coblas capfinidas che si manifesta nel legame tra la prima e la seconda stanza (“ ‘nfra lo cor meo porto la tua figura”, vv.8-9; ”In cor par ch’eo vi porti pinta como parete”vv.10-11 ) e tra le stanze quarta e quinta ( “quando pass’ e non guardo a voi vis’amoroso”, vv.35-36 ; ”S’eo guardo, quando passo, in ver’voi , non mi giro” vv.36-38 ). Con la ripetizione del verbo "parere" ai versi 10 e 13, la canzone ribadisce il concetto della donna amata impressa nel cuore, tema che avrà molta fortuna nella evoluzione della lirica d’amore, fino allo Stilnovo. ll riferimento alla fede "come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante" (vv 25-27) prelude alla splendida metafora del fuoco del v.29 (“com'om che ten lo foco") , simbolo di una passione amorosa incontrastabile, che arde e consuma l’animo. E’ questa la tematica, tipicamente provenzale, della sofferenza d'amore, sviluppata in un senso più propriamente "psicologico" nella quinta strofa e mediata dal motivo dello "sguardo”, motivo che si arricchirà, nella poetica del Dolce Stil Novo, di nuovi intrinseci sviluppi.
Ancora, nella quarta e quinta strofa emergono i motivi della segretezza dell’amore e della timidezza dell’amante : il poeta è incapace di comunicare il suo amore e si limita ad ammirare l’oggetto del desiderio di nascosto, fingendo di essere indifferente ("pare che io vi porti dipinta proprio come realmente siete, e di fuori non si vede nulla") .
CONTESTUALIZZAZIONE - APPROFONDIMENTO : Cenni sulla Scuola Siciliana.
“ Meravigliosamente” rappresenta una canzone di “transizione” in quanto contiene ancora elementi della tradizione provenzale rivisti e rielaborati alla luce della nuova sensibilità poetica. Nei provenzali il rituale d’amore è modellato sull’omaggio feudale, e s’incentra sul rapporto tra il servizio d’amore e l’attesa di una ricompensa, investendo sessualmente anche il corpo della donna. Nella poesia della scuola siciliana il corpo della donna scompare del tutto: si realizza un'assoluta separazione tra la “figura”, ovvero l’immagine che il poeta porta nel cuore, e la persona della dama che egli rinuncia a guardare. Sul piano linguistico, la Scuola Siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico fatto di volgare locale mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del Trobar Clus e del Trobar Leu. Più tardi, nell’ambito del Dolce Stil Novo, Dante criticherà l’eccessivo riferimento da parte dei rimatori della Scuola Siciliana alla produzione lirica francese Valentina Riccardelli, Matteo Marcaccio III F
venerdì 9 ottobre 2015
DANTE ALIGHIERI (1265-1321) - Biografia (cfr.V. de Caprio-S.Giovanardi, I Testi della Letteratura italiana, vol. 1)
PRIMA FASE: TEMPO DELLA GIOVINEZZA (1265- 1290).
DANTE ALIGHIERI (diminutivo di Durante) nacque a Firenze nell'ultima settimana di maggio, o nella prima di giugno del 1265, da Alighiero II degli Alighieri appartenente alla piccola nobiltà cittadina appena agiata, e da Bella (forse degli Abati). Firenze, città guelfa per tradizione, stava allora per uscire dall’esperienza di sei anni di dominio ininterrotto della fazione ghibellina (dalla BATTAGLIA DI MONTAPERTI, 1260- alla BATTAGLIA DI BENEVENTO 1266) e si avviava a registrare, nei tre decenni successivi, una fioritura economica, uno sviluppo urbano e sociale, una evoluzione politica tali da trasformarne la fisionomia e la vita pubblica. Di tale trasformazione furono presto protagonisti i nuovi ceti emergenti: accanto al ceto magnatizio, si afferma gradualmente la ricca borghesia mercantile e bancaria, nata intorno all’industria e alla lavorazione della lana e organizzata nelle “Arti del Cambio”, “Arte di Calimala”, “Arte della Lana”; la ricca borghesia , ceto produttivo della città, confluiva nel “popolo grasso” che, con le arti medie e minori, trovava fonte di arricchimento nelle attività indotte dall’impresa capitalistica; c’erano infine le grandi masse di inurbati attratti dalla possibilità di guadagno. Dante degli Alighieri , che perse ancora bambino la madre e nel 1277 (12 anni) fu promesso in sposo a Gemma Donati (il matrimonio avvenne intorno al 1285), trascorse la sua adolescenza sullo sfondo di quella realtà pubblica in continua evoluzione e talvolta tumultuosa. Dopo i falliti tentativi di governo misto o "proporzionale", la vita politica di Firenze saldamente in mano guelfa (fazione politica filopapale), fu sempre più segnata dagli scontri, anche armati tra le famiglie magnatizie (I Magnati), sia di antica estrazione feudale, sia di origine borghese. L'antagonismo tra le famiglie magnatizie, male endemico dello scenario politico fiorentino, culminò più tardi con drammatica evidenza nel 1297 nella contrapposizione tra la famiglia dei Cerchi e quella dei Donati: i primi sostenevano una moderata autonomia nei confronti papali; al contrario, i Donati incoraggiavano l'espansione del potere temporale del Papa in Toscana e in Firenze. Intanto, la politica espansionistica della città si concretizzò nelle guerre contro le città nemiche di Arezzo e Pisa, nelle quali il giovane Alighieri prestò il suo servizio in armi, partecipamdo nell'estate del 1289 alla Battaglia di Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo (inf. canto XXI) e alla presa di torre Caprona,contro i Ghibellini di Pisa. Alla battaglia per la presa di Caprona, il poeta era uno dei quattrocento cavalieri e 2000 pedoni della milizia fiorentina che posero l'assedio alla piazzaforte pisana. L'Alighieri cita la circostanza nel XXI canto dell'inferno della Divina Commedia e si compiace ripensando ai ghibellini sconfitti, usciti dal castello tra le schiere dei vincitori. Dante trascorse l’ adolescenza e la prima giovinezza nelle occupazioni culturali consuete dei giovani del suo ambiente: studiò le ARTI del TRIVIO: GRAMMATICA, RETORICA, DIALETTICA; quindi le ARTI DEL QUADRIVIO: aritmetica, geometria, musica, astronomia. In Toscana, e in particola modo in Firenze, egli trovò il terreno fertile per la sua formazione culturale, attraverso la frequentazione di illustri maestri, primo fra tutti BRUNETTO LATINI. Negli anni della giovinezza trascorsi a Firenze Dante fu attratto dalla poesia, tipica esperienza culturale dei giovani dotti del tempo: da queste prime esperienze culturali nascono le RIME (avviate già a partire dal 1283 e continuate fino al 1307- 1308) le quali si modellano, specialmente all’inizio, sull’insegnamento di GUITTONE D’AREZZO, poeta toscano d’amore, di politica, di tematiche a carattere civile, di moralità, di religione. Non meno importante l’influenza sul giovane poeta di GUIDO CAVALCANTI, amico di Dante e di GUIDO GUINIZZELLI. A questo periodo (1283), risale l’incontro di Dante con Beatrice Portinari: alla giovinetta fiorentina egli dedicò un sentimento amoroso tanto forte e profondo che durò oltre la morte della donna avvenuta nel 1290, a soli 24 anni, segnando in maniera indelebile tutta la sua esistenza di uomo e di artista. Beatrice divenne la creatura angelicata più rappresentativa del Dolce Stil Novo, la scuola poetica di cui Dante, insieme con Guido cavalcanti, divenne il poeta più rappresentativo. A seguito della morte di Beatrice Dante entrò in una fase di profonda crisi spirituale, di traviamento interiore; riuscì a superare il difficile momento grazie allo studio della Filosofia che giudicò una scoperta illuminante e feconda, la sola dottrina capace di donare felicità e salvezza a chi la conquista. Studiò le opere di S. Agostino, di Cicerone ( in particolare il De Amicitia), di Boezio( il“ De consolatione philosophiae”). Inoltre, si avvicinò allo studio dei maggiori rappresentanti della FILOSOFIA SCOLASTICA medievale: studiò ARISTOTELE attraverso la decodificazione in chiave cristiana fatta nel Medioevo da San Tommaso d’Aquino. La filosofia aristotelico-tomistica costituirà il terreno più fecondo su cui poggia e si alimenta la sua produzione letteraria. Lo studio della filosofia aristotelica indusse il poeta ad acquisire una visione più razionalistica dell’esistenza umana e allo stesso tempo gli fece acquisire coscienza delle proprie responsabilità politico-civili. Frequentò le scuole filosofiche degli ecclesiastici: la Scuola dei Francescani in Santa Croce, dove si interessò alle dottrine platoniche, e la Scuola dei Domenicani in Santa Maria Novella orientata a studi aristotelici. Nel 1295 Dante sposò Gemma Donati, figlia di Manetto Donati, appartenente ad un ramo laterale della potente famiglia di Corso Donati, capo del partito dei Guelfi Neri. Dal matrimonio nacquero tre figli: Pietro, il primogenito, commentò in latino il poema paterno, Jacopo scrisse le chiose all’Inferno, Antonia divenne suora col nome di Beatrice.
SECONDA FASE: TEMPO DELL’IMPEGNO POLITICO-CIVILE (1295-1302). L’attività politica di Dante ha inizio nel 1295, allorché il poeta inizia ad interessarsi alle vicende cittadine, manifestando fin dall’inizio un carattere nettamente antimagnatizio. A Firenze si erano promulgati, nel 1293, Gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella ,di ispirazione popolare, che miravano a limitare la presenza magnatizia nel governo della città, escludendo molti illustri magnati e cavalieri dalle cariche pubbliche. Gli Ordinamenti, infatti, ponevano come condizione per chi volesse partecipare al governo cittadino l’iscrizione ad una corporazione di Arte; Dante iniziò la sua carriera politica iscrivendosi ala Corporazione dei Medici e Speziali. A Firenze i conflitti tra le famiglie dei Magnati, particolarmente evidenti nella contrapposizione tra i CERCHI e i DONATI, si esasperarono nella primavera-estate del 1300, con la divisione dell’intera cittadinanza in parte bianca, capeggiata da VIERI DE’ CERCHI e in parte nera capeggiata dal violento e fazioso CORSO DONATI. Dante, che vedeva nel prepotere dei Magnati e nell’ingerenza papale i due principali mali per la vita della città, si schierò dalla parte dei Guelfi Bianchi, che apparivano allora come i più moderati ed autonomi. Dal 15 giugno al 15 agosto 1300 Dante fu eletto tra i sei Priori di Firenze ( la più alta carica cittadina, i più alti magistrati del Comune) e a seguito dei sanguinosi scontri cittadini avvenuti alla vigilia di San Giovanni , egli fu costretto a comminare l’esilio ai capi delle due fazioni, che ancora attentavano alla sicurezza della città. Tra questi fu anche Guido Cavalcanti che pochi mesi dopo fu riammesso a Firenze, dove morì entro l’anno. Nel 1301 si verificano Firenze degli avvenimenti che imposero alla vita di Dante una scelta decisiva. I Bianchi, saliti al potere, accolsero con sospetto al discesa in Italia di Carlo d’Angiò chiamato dal Papa Bonifacio VIII a fare da paciere tra le due fazioni. Il sospetto dei Guelfi Bianchi era quello che il re francese, sollecitato dal Papa, si sarebbe alleato con gli esuli Guelfi neri al fine di riconquistare il potere della città. I Guelfi bianchi, allora, inviarono a Roma un’Ambasceria ( di cui faceva parte lo stesso Dante), con lo scopo di valutare meglio le intenzioni di Bonifacio VIII. I sospetti della fazione bianca erano fondati: nel novembre 1301,durante l’assenza di Dante, trattenuto a Roma dal Pontefice, le truppe di Carlo d’Angiò aiutarono i Neri a rientrare in città con la forza e a prendereil sopravvento. - I beni di parte bianca furono requisiti, e il 27 gennaio 1302 Dante e altri capi bianchi vennero condannati all’interdizione dai pubblici uffici e al pagamento di una multa di 5000 fiorini per l’accusa di “baratteria” (interesse privato in atti d’Ufficio e peculato); il 10 marzo 1302 la pena fu mutata in condanna al rogo e confisca dei beni. Da allora Dante, che forse era ancora sulla via del ritorno da Roma, non rientrò mai più a Firenze.
TERZA FASE: TEMPO DELL’ ESILIO (1302-1321). Tra il 1302 e il 1304 Dante partecipò a numerosi tentativi di rientrare a Firenze con la forza delle armi, unendosi ai fuoriusciti ghibellini e agli esuli bianchi. Successivamente, venuto in contrasto per divergenze di vedute, si staccò da essi e fece “parte per se stesso”. Da allora cominciò a girovagare per le corti dei signori dell’Italia centro settentrionale in cerca di protezione e di sostegno economico: fu a Verona, ospite del potente Cangrande Della Scala, vicario imperiale (al quale il poeta dedicò il Paradiso, appena iniziato), in Lunigiana presso i Malaspina, a Ravenna, attratto dalla tranquillità di quella sede e dal prestigio del circolo letterario raccolto intorno al signore della città, Guido Novello da Polenta. Tra 1310-1313 la discesa in Italia del’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, condotta per sedare le guerre civili in Lombardia e in Toscana e per ripristinare l’autorità imperiale aveva alimentato in Dante forti speranze di poter finalmente rientrare in Firenze. Purtroppo l’impresa italiana di Arrigo VII fallì, e con essa anche le ultime speranze di Dante. Nel 1315 Dante rifiutò di approfittare di un’amnistia a condizioni indegne a favore degli esuli pentiti: la conseguenza fu la condanna a morte per Dante e i suoi figli maschi. Dante morì tra il 13 e il 14 settembre 1321. Guido Novello da Polenta volle per lui solenni funerali, e i poeti di Romagna fecero a gara per la composizione dell’epitaffio; fu sepolto a Ravenna, presso il convento della Chiesa di San Francesco.
PRODUZIONE LETTERARIA - OPERE IN LINGUA LATINA.
De Monarchia (trattato politico) 1313-1318; De vulgari Eloquentia (trattato sulla lingua e sullo stile della poesia)1304-1308; Epistole 1306-1317 ( di particolare rilievo è l’Epistola XIII a Cangrande della Scala, 1315-1317); Egloghe (poesie in esametri) 1319-1321; De situ et forma aque et terre (lezione di argomento scientifico) 1320;
OPERE IN LINGUA VOLGARE Vita Nuova (prosimetro, primo esempio di “canzoniere” ) 1293-1294; Rime (componimenti sparsi) 1283…; Convivio (trattato filosofico scientifico, a carattere enciclopedico) 1304-1308; La Commedia (poema sacro) 1307?
DANTE ALIGHIERI (diminutivo di Durante) nacque a Firenze nell'ultima settimana di maggio, o nella prima di giugno del 1265, da Alighiero II degli Alighieri appartenente alla piccola nobiltà cittadina appena agiata, e da Bella (forse degli Abati). Firenze, città guelfa per tradizione, stava allora per uscire dall’esperienza di sei anni di dominio ininterrotto della fazione ghibellina (dalla BATTAGLIA DI MONTAPERTI, 1260- alla BATTAGLIA DI BENEVENTO 1266) e si avviava a registrare, nei tre decenni successivi, una fioritura economica, uno sviluppo urbano e sociale, una evoluzione politica tali da trasformarne la fisionomia e la vita pubblica. Di tale trasformazione furono presto protagonisti i nuovi ceti emergenti: accanto al ceto magnatizio, si afferma gradualmente la ricca borghesia mercantile e bancaria, nata intorno all’industria e alla lavorazione della lana e organizzata nelle “Arti del Cambio”, “Arte di Calimala”, “Arte della Lana”; la ricca borghesia , ceto produttivo della città, confluiva nel “popolo grasso” che, con le arti medie e minori, trovava fonte di arricchimento nelle attività indotte dall’impresa capitalistica; c’erano infine le grandi masse di inurbati attratti dalla possibilità di guadagno. Dante degli Alighieri , che perse ancora bambino la madre e nel 1277 (12 anni) fu promesso in sposo a Gemma Donati (il matrimonio avvenne intorno al 1285), trascorse la sua adolescenza sullo sfondo di quella realtà pubblica in continua evoluzione e talvolta tumultuosa. Dopo i falliti tentativi di governo misto o "proporzionale", la vita politica di Firenze saldamente in mano guelfa (fazione politica filopapale), fu sempre più segnata dagli scontri, anche armati tra le famiglie magnatizie (I Magnati), sia di antica estrazione feudale, sia di origine borghese. L'antagonismo tra le famiglie magnatizie, male endemico dello scenario politico fiorentino, culminò più tardi con drammatica evidenza nel 1297 nella contrapposizione tra la famiglia dei Cerchi e quella dei Donati: i primi sostenevano una moderata autonomia nei confronti papali; al contrario, i Donati incoraggiavano l'espansione del potere temporale del Papa in Toscana e in Firenze. Intanto, la politica espansionistica della città si concretizzò nelle guerre contro le città nemiche di Arezzo e Pisa, nelle quali il giovane Alighieri prestò il suo servizio in armi, partecipamdo nell'estate del 1289 alla Battaglia di Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo (inf. canto XXI) e alla presa di torre Caprona,contro i Ghibellini di Pisa. Alla battaglia per la presa di Caprona, il poeta era uno dei quattrocento cavalieri e 2000 pedoni della milizia fiorentina che posero l'assedio alla piazzaforte pisana. L'Alighieri cita la circostanza nel XXI canto dell'inferno della Divina Commedia e si compiace ripensando ai ghibellini sconfitti, usciti dal castello tra le schiere dei vincitori. Dante trascorse l’ adolescenza e la prima giovinezza nelle occupazioni culturali consuete dei giovani del suo ambiente: studiò le ARTI del TRIVIO: GRAMMATICA, RETORICA, DIALETTICA; quindi le ARTI DEL QUADRIVIO: aritmetica, geometria, musica, astronomia. In Toscana, e in particola modo in Firenze, egli trovò il terreno fertile per la sua formazione culturale, attraverso la frequentazione di illustri maestri, primo fra tutti BRUNETTO LATINI. Negli anni della giovinezza trascorsi a Firenze Dante fu attratto dalla poesia, tipica esperienza culturale dei giovani dotti del tempo: da queste prime esperienze culturali nascono le RIME (avviate già a partire dal 1283 e continuate fino al 1307- 1308) le quali si modellano, specialmente all’inizio, sull’insegnamento di GUITTONE D’AREZZO, poeta toscano d’amore, di politica, di tematiche a carattere civile, di moralità, di religione. Non meno importante l’influenza sul giovane poeta di GUIDO CAVALCANTI, amico di Dante e di GUIDO GUINIZZELLI. A questo periodo (1283), risale l’incontro di Dante con Beatrice Portinari: alla giovinetta fiorentina egli dedicò un sentimento amoroso tanto forte e profondo che durò oltre la morte della donna avvenuta nel 1290, a soli 24 anni, segnando in maniera indelebile tutta la sua esistenza di uomo e di artista. Beatrice divenne la creatura angelicata più rappresentativa del Dolce Stil Novo, la scuola poetica di cui Dante, insieme con Guido cavalcanti, divenne il poeta più rappresentativo. A seguito della morte di Beatrice Dante entrò in una fase di profonda crisi spirituale, di traviamento interiore; riuscì a superare il difficile momento grazie allo studio della Filosofia che giudicò una scoperta illuminante e feconda, la sola dottrina capace di donare felicità e salvezza a chi la conquista. Studiò le opere di S. Agostino, di Cicerone ( in particolare il De Amicitia), di Boezio( il“ De consolatione philosophiae”). Inoltre, si avvicinò allo studio dei maggiori rappresentanti della FILOSOFIA SCOLASTICA medievale: studiò ARISTOTELE attraverso la decodificazione in chiave cristiana fatta nel Medioevo da San Tommaso d’Aquino. La filosofia aristotelico-tomistica costituirà il terreno più fecondo su cui poggia e si alimenta la sua produzione letteraria. Lo studio della filosofia aristotelica indusse il poeta ad acquisire una visione più razionalistica dell’esistenza umana e allo stesso tempo gli fece acquisire coscienza delle proprie responsabilità politico-civili. Frequentò le scuole filosofiche degli ecclesiastici: la Scuola dei Francescani in Santa Croce, dove si interessò alle dottrine platoniche, e la Scuola dei Domenicani in Santa Maria Novella orientata a studi aristotelici. Nel 1295 Dante sposò Gemma Donati, figlia di Manetto Donati, appartenente ad un ramo laterale della potente famiglia di Corso Donati, capo del partito dei Guelfi Neri. Dal matrimonio nacquero tre figli: Pietro, il primogenito, commentò in latino il poema paterno, Jacopo scrisse le chiose all’Inferno, Antonia divenne suora col nome di Beatrice.
SECONDA FASE: TEMPO DELL’IMPEGNO POLITICO-CIVILE (1295-1302). L’attività politica di Dante ha inizio nel 1295, allorché il poeta inizia ad interessarsi alle vicende cittadine, manifestando fin dall’inizio un carattere nettamente antimagnatizio. A Firenze si erano promulgati, nel 1293, Gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella ,di ispirazione popolare, che miravano a limitare la presenza magnatizia nel governo della città, escludendo molti illustri magnati e cavalieri dalle cariche pubbliche. Gli Ordinamenti, infatti, ponevano come condizione per chi volesse partecipare al governo cittadino l’iscrizione ad una corporazione di Arte; Dante iniziò la sua carriera politica iscrivendosi ala Corporazione dei Medici e Speziali. A Firenze i conflitti tra le famiglie dei Magnati, particolarmente evidenti nella contrapposizione tra i CERCHI e i DONATI, si esasperarono nella primavera-estate del 1300, con la divisione dell’intera cittadinanza in parte bianca, capeggiata da VIERI DE’ CERCHI e in parte nera capeggiata dal violento e fazioso CORSO DONATI. Dante, che vedeva nel prepotere dei Magnati e nell’ingerenza papale i due principali mali per la vita della città, si schierò dalla parte dei Guelfi Bianchi, che apparivano allora come i più moderati ed autonomi. Dal 15 giugno al 15 agosto 1300 Dante fu eletto tra i sei Priori di Firenze ( la più alta carica cittadina, i più alti magistrati del Comune) e a seguito dei sanguinosi scontri cittadini avvenuti alla vigilia di San Giovanni , egli fu costretto a comminare l’esilio ai capi delle due fazioni, che ancora attentavano alla sicurezza della città. Tra questi fu anche Guido Cavalcanti che pochi mesi dopo fu riammesso a Firenze, dove morì entro l’anno. Nel 1301 si verificano Firenze degli avvenimenti che imposero alla vita di Dante una scelta decisiva. I Bianchi, saliti al potere, accolsero con sospetto al discesa in Italia di Carlo d’Angiò chiamato dal Papa Bonifacio VIII a fare da paciere tra le due fazioni. Il sospetto dei Guelfi Bianchi era quello che il re francese, sollecitato dal Papa, si sarebbe alleato con gli esuli Guelfi neri al fine di riconquistare il potere della città. I Guelfi bianchi, allora, inviarono a Roma un’Ambasceria ( di cui faceva parte lo stesso Dante), con lo scopo di valutare meglio le intenzioni di Bonifacio VIII. I sospetti della fazione bianca erano fondati: nel novembre 1301,durante l’assenza di Dante, trattenuto a Roma dal Pontefice, le truppe di Carlo d’Angiò aiutarono i Neri a rientrare in città con la forza e a prendereil sopravvento. - I beni di parte bianca furono requisiti, e il 27 gennaio 1302 Dante e altri capi bianchi vennero condannati all’interdizione dai pubblici uffici e al pagamento di una multa di 5000 fiorini per l’accusa di “baratteria” (interesse privato in atti d’Ufficio e peculato); il 10 marzo 1302 la pena fu mutata in condanna al rogo e confisca dei beni. Da allora Dante, che forse era ancora sulla via del ritorno da Roma, non rientrò mai più a Firenze.
TERZA FASE: TEMPO DELL’ ESILIO (1302-1321). Tra il 1302 e il 1304 Dante partecipò a numerosi tentativi di rientrare a Firenze con la forza delle armi, unendosi ai fuoriusciti ghibellini e agli esuli bianchi. Successivamente, venuto in contrasto per divergenze di vedute, si staccò da essi e fece “parte per se stesso”. Da allora cominciò a girovagare per le corti dei signori dell’Italia centro settentrionale in cerca di protezione e di sostegno economico: fu a Verona, ospite del potente Cangrande Della Scala, vicario imperiale (al quale il poeta dedicò il Paradiso, appena iniziato), in Lunigiana presso i Malaspina, a Ravenna, attratto dalla tranquillità di quella sede e dal prestigio del circolo letterario raccolto intorno al signore della città, Guido Novello da Polenta. Tra 1310-1313 la discesa in Italia del’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, condotta per sedare le guerre civili in Lombardia e in Toscana e per ripristinare l’autorità imperiale aveva alimentato in Dante forti speranze di poter finalmente rientrare in Firenze. Purtroppo l’impresa italiana di Arrigo VII fallì, e con essa anche le ultime speranze di Dante. Nel 1315 Dante rifiutò di approfittare di un’amnistia a condizioni indegne a favore degli esuli pentiti: la conseguenza fu la condanna a morte per Dante e i suoi figli maschi. Dante morì tra il 13 e il 14 settembre 1321. Guido Novello da Polenta volle per lui solenni funerali, e i poeti di Romagna fecero a gara per la composizione dell’epitaffio; fu sepolto a Ravenna, presso il convento della Chiesa di San Francesco.
PRODUZIONE LETTERARIA - OPERE IN LINGUA LATINA.
De Monarchia (trattato politico) 1313-1318; De vulgari Eloquentia (trattato sulla lingua e sullo stile della poesia)1304-1308; Epistole 1306-1317 ( di particolare rilievo è l’Epistola XIII a Cangrande della Scala, 1315-1317); Egloghe (poesie in esametri) 1319-1321; De situ et forma aque et terre (lezione di argomento scientifico) 1320;
OPERE IN LINGUA VOLGARE Vita Nuova (prosimetro, primo esempio di “canzoniere” ) 1293-1294; Rime (componimenti sparsi) 1283…; Convivio (trattato filosofico scientifico, a carattere enciclopedico) 1304-1308; La Commedia (poema sacro) 1307?
DANTE ALIGHIERI (1265-1321) - Biografia
PRIMA FASE: TEMPO DELLA GIOVINEZZA (1265- 1290).
DANTE ALIGHIERI (diminutivo di Durante) nacque a Firenze nell'ultima settimana di maggio, o nella prima di giugno del 1265, da Alighiero II degli Alighieri appartenente alla piccola nobiltà cittadina appena agiata, e da Bella (forse degli Abati). Firenze, città guelfa per tradizione, stava allora per uscire dall’esperienza di sei anni di dominio ininterrotto della fazione ghibellina (dalla BATTAGLIA DI MONTAPERTI, 1260- alla BATTAGLIA DI BENEVENTO 1266) e si avviava a registrare, nei tre decenni successivi, una fioritura economica, uno sviluppo urbano e sociale, una evoluzione politica tali da trasformarne la fisionomia e la vita pubblica. Di tale trasformazione furono presto protagonisti i nuovi ceti emergenti: accanto al ceto magnatizio, si afferma gradualmente la ricca borghesia mercantile e bancaria, nata intorno all’industria e alla lavorazione della lana e organizzata nelle “Arti del Cambio”, “Arte di Calimala”, “Arte della Lana”; la ricca borghesia , ceto produttivo della città, confluiva nel “popolo grasso” che, con le arti medie e minori, trovava fonte di arricchimento nelle attività indotte dall’impresa capitalistica; c’erano infine le grandi masse di inurbati attratti dalla possibilità di guadagno. Dante degli Alighieri , che perse ancora bambino la madre e nel 1277 (12 anni) fu promesso in sposo a Gemma Donati (il matrimonio avvenne intorno al 1285), trascorse la sua adolescenza sullo sfondo di quella realtà pubblica in continua evoluzione e talvolta tumultuosa. Dopo i falliti tentativi di governo misto o "proporzionale", la vita politica di Firenze saldamente in mano guelfa (fazione politica filopapale), fu sempre più segnata dagli scontri, anche armati tra le famiglie magnatizie (I Magnati), sia di antica estrazione feudale, sia di origine borghese. L'antagonismo tra le famiglie magnatizie, male endemico dello scenario politico fiorentino, culminò più tardi con drammatica evidenza nel 1297 nella contrapposizione tra la famiglia dei Cerchi e quella dei Donati: i primi sostenevano una moderata autonomia nei confronti papali; al contrario, i Donati incoraggiavano l'espansione del potere temporale del Papa in Toscana e in Firenze. Intanto, la politica espansionistica della città si concretizzò nelle guerre contro le città nemiche di Arezzo e Pisa, nelle quali il giovane Alighieri prestò il suo servizio in armi, partecipando nell'estate del 1289 alla Battaglia di Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo (Inf. canto XXI) e alla presa di torre Caprona,contro i Ghibellini di Pisa. Alla battaglia per la presa di Caprona, il poeta era uno dei quattrocento cavalieri e 2000 pedoni della milizia fiorentina che posero l'assedio alla piazzaforte pisana. L'Alighieri cita la circostanza nel XXI canto dell'inferno della Divina Commedia e si compiace ripensando ai ghibellini sconfitti, usciti dal castello tra le schiere dei vincitori. Dante trascorse l’ adolescenza e la prima giovinezza nelle occupazioni culturali consuete dei giovani del suo ambiente: studiò le ARTI del TRIVIO: GRAMMATICA, RETORICA, DIALETTICA; quindi le ARTI DEL QUADRIVIO: aritmetica, geometria, musica, astronomia. In Toscana, e in particola modo in Firenze, egli trovò il terreno fertile per la sua formazione culturale, attraverso la frequentazione di illustri maestri, primo fra tutti BRUNETTO LATINI. Negli anni della giovinezza trascorsi a Firenze Dante fu attratto dalla poesia, tipica esperienza culturale dei giovani dotti del tempo: da queste prime esperienze culturali nascono le RIME (avviate già a partire dal 1283 e continuate fino al 1307- 1308) le quali si modellano, specialmente all’inizio, sull’insegnamento di GUITTONE D’AREZZO, poeta toscano d’amore, di politica, di tematiche a carattere civile, di moralità, di religione. Non meno importante l’influenza sul giovane poeta di GUIDO CAVALCANTI, amico di Dante e di GUIDO GUINIZZELLI. A questo periodo (1283), risale l’incontro di Dante con Beatrice Portinari: alla giovinetta fiorentina egli dedicò un sentimento amoroso tanto forte e profondo che durò oltre la morte della donna avvenuta nel 1290, a soli 24 anni, segnando in maniera indelebile tutta la sua esistenza di uomo e di artista. Beatrice divenne la creatura angelicata più rappresentativa del Dolce Stil Novo, la scuola poetica di cui Dante, insieme con Guido cavalcanti, divenne il poeta più rappresentativo. A seguito della morte di Beatrice Dante entrò in una fase di profonda crisi spirituale, di traviamento interiore; riuscì a superare il difficile momento grazie allo studio della Filosofia che giudicò una scoperta illuminante e feconda, la sola dottrina capace di donare felicità e salvezza a chi la conquista. Studiò le opere di S. Agostino, di Cicerone ( in particolare il De Amicitia), di Boezio( il“ De consolatione philosophiae”). Inoltre, si avvicinò allo studio dei maggiori rappresentanti della FILOSOFIA SCOLASTICA medievale: studiò ARISTOTELE attraverso la decodificazione in chiave cristiana fatta nel Medioevo da San Tommaso d’Aquino. La filosofia aristotelico-tomistica costituirà il terreno più fecondo su cui poggia e si alimenta la sua produzione letteraria. Lo studio della filosofia aristotelica indusse il poeta ad acquisire una visione più razionalistica dell’esistenza umana e allo stesso tempo gli fece acquisire coscienza delle proprie responsabilità politico-civili. Frequentò le scuole filosofiche degli ecclesiastici: la Scuola dei Francescani in Santa Croce, dove si interessò alle dottrine platoniche, e la Scuola dei Domenicani in Santa Maria Novella orientata a studi aristotelici. Nel 1295 Dante sposò Gemma Donati, figlia di Manetto Donati, appartenente ad un ramo laterale della potente famiglia di Corso Donati, capo del partito dei Guelfi Neri. Dal matrimonio nacquero tre figli: Pietro, il primogenito, commentò in latino il poema paterno, Jacopo scrisse le chiose all’Inferno, Antonia divenne suora col nome di Beatrice.
SECONDA FASE: TEMPO DELL’IMPEGNO POLITICO-CIVILE (1295-1302). L’attività politica di Dante ha inizio nel 1295, allorché il poeta inizia ad interessarsi alle vicende cittadine, manifestando fin dall’inizio un carattere nettamente antimagnatizio. A Firenze si erano promulgati, nel 1293, Gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella ,di ispirazione popolare, che miravano a limitare la presenza magnatizia nel governo della città, escludendo molti illustri magnati e cavalieri dalle cariche pubbliche. Gli Ordinamenti, infatti, ponevano come condizione per chi volesse partecipare al governo cittadino l’iscrizione ad una corporazione di Arte; Dante iniziò la sua carriera politica iscrivendosi ala Corporazione dei Medici e Speziali. A Firenze i conflitti tra le famiglie dei Magnati, particolarmente evidenti nella contrapposizione tra i CERCHI e i DONATI, si esasperarono nella primavera-estate del 1300, con la divisione dell’intera cittadinanza in parte bianca, capeggiata da VIERI DE’ CERCHI e in parte nera capeggiata dal violento e fazioso CORSO DONATI. Dante, che vedeva nel prepotere dei Magnati e nell’ingerenza papale i due principali mali per la vita della città, si schierò dalla parte dei Guelfi Bianchi, che apparivano allora come i più moderati ed autonomi. Dal 15 giugno al 15 agosto 1300 Dante fu eletto tra i sei Priori di Firenze ( la più alta carica cittadina, i più alti magistrati del Comune) e a seguito dei sanguinosi scontri cittadini avvenuti alla vigilia di San Giovanni , egli fu costretto a comminare l’esilio ai capi delle due fazioni, che ancora attentavano alla sicurezza della città. Tra questi fu anche Guido Cavalcanti che pochi mesi dopo fu riammesso a Firenze, dove morì entro l’anno. Nel 1301 si verificano Firenze degli avvenimenti che imposero alla vita di Dante una scelta decisiva. I Bianchi, saliti al potere, accolsero con sospetto al discesa in Italia di Carlo d’Angiò chiamato dal Papa Bonifacio VIII a fare da paciere tra le due fazioni. Il sospetto dei Guelfi Bianchi era quello che il re francese, sollecitato dal Papa, si sarebbe alleato con gli esuli Guelfi neri al fine di riconquistare il potere della città. I Guelfi bianchi, allora, inviarono a Roma un’Ambasceria ( di cui faceva parte lo stesso Dante), con lo scopo di valutare meglio le intenzioni di Bonifacio VIII. I sospetti della fazione bianca erano fondati: nel novembre 1301, durante l’assenza di Dante, trattenuto a Roma dal Pontefice, le truppe di Carlo d’Angiò aiutarono i Neri a rientrare in città con la forza e a prendere il sopravvento. - I beni di parte bianca furono requisiti, e il 27 gennaio 1302 Dante e altri capi bianchi vennero condannati all’interdizione dai pubblici uffici e al pagamento di una multa di 5000 fiorini per l’accusa di “baratteria” (interesse privato in atti d’Ufficio e peculato); il 10 marzo 1302 la pena fu mutata in condanna al rogo e confisca dei beni. Da allora Dante, che forse era ancora sulla via del ritorno da Roma, non rientrò mai più a Firenze.
TERZA FASE: TEMPO DELL’ ESILIO (1302-1321). Tra il 1302 e il 1304 Dante partecipò a numerosi tentativi di rientrare a Firenze con la forza delle armi, unendosi ai fuoriusciti ghibellini e agli esuli bianchi. Successivamente, venuto in contrasto per divergenze di vedute, si staccò da essi e fece “parte per se stesso”. Da allora cominciò a girovagare per le corti dei signori dell’Italia centro settentrionale in cerca di protezione e di sostegno economico: fu a Verona, ospite del potente Cangrande Della Scala, vicario imperiale (al quale il poeta dedicò il Paradiso, appena iniziato), in Lunigiana presso i Malaspina, a Ravenna, attratto dalla tranquillità di quella sede e dal prestigio del circolo letterario raccolto intorno al signore della città, Guido Novello da Polenta. Tra 1310-1313 la discesa in Italia del’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, condotta per sedare le guerre civili in Lombardia e in Toscana e per ripristinare l’autorità imperiale aveva alimentato in Dante forti speranze di poter finalmente rientrare in Firenze. Purtroppo l’impresa italiana di Arrigo VII fallì, e con essa anche le ultime speranze di Dante. Nel 1315 Dante rifiutò di approfittare di un’amnistia a condizioni indegne a favore degli esuli pentiti: la conseguenza fu la condanna a morte per Dante e i suoi figli maschi. Dante morì tra il 13 e il 14 settembre 1321. Guido Novello da Polenta volle per lui solenni funerali, e i poeti di Romagna fecero a gara per la composizione dell’epitaffio; fu sepolto a Ravenna, presso il convento della Chiesa di San Francesco.
PRODUZIONE LETTERARIA - OPERE IN LINGUA LATINA.
De Monarchia (trattato politico) 1313-1318; De Vulgari Eloquentia (trattato sulla lingua e sullo stile della poesia)1304-1308; Epistole 1306-1317 ( di particolare rilievo è l’Epistola XIII a Cangrande della Scala, 1315-1317); Egloghe (poesie in esametri) 1319-1321; De situ et forma aque et terre (lezione di argomento scientifico) 1320.
OPERE IN LINGUA VOLGARE Vita Nuova (prosimetro, primo esempio di “canzoniere” ) 1293-1294;Rime (componimenti sparsi) 1283…; Convivio (trattato filosofico scientifico, a carattere enciclopedico) 1304-1308; La Commedia (poema sacro) 1307?
DANTE ALIGHIERI (diminutivo di Durante) nacque a Firenze nell'ultima settimana di maggio, o nella prima di giugno del 1265, da Alighiero II degli Alighieri appartenente alla piccola nobiltà cittadina appena agiata, e da Bella (forse degli Abati). Firenze, città guelfa per tradizione, stava allora per uscire dall’esperienza di sei anni di dominio ininterrotto della fazione ghibellina (dalla BATTAGLIA DI MONTAPERTI, 1260- alla BATTAGLIA DI BENEVENTO 1266) e si avviava a registrare, nei tre decenni successivi, una fioritura economica, uno sviluppo urbano e sociale, una evoluzione politica tali da trasformarne la fisionomia e la vita pubblica. Di tale trasformazione furono presto protagonisti i nuovi ceti emergenti: accanto al ceto magnatizio, si afferma gradualmente la ricca borghesia mercantile e bancaria, nata intorno all’industria e alla lavorazione della lana e organizzata nelle “Arti del Cambio”, “Arte di Calimala”, “Arte della Lana”; la ricca borghesia , ceto produttivo della città, confluiva nel “popolo grasso” che, con le arti medie e minori, trovava fonte di arricchimento nelle attività indotte dall’impresa capitalistica; c’erano infine le grandi masse di inurbati attratti dalla possibilità di guadagno. Dante degli Alighieri , che perse ancora bambino la madre e nel 1277 (12 anni) fu promesso in sposo a Gemma Donati (il matrimonio avvenne intorno al 1285), trascorse la sua adolescenza sullo sfondo di quella realtà pubblica in continua evoluzione e talvolta tumultuosa. Dopo i falliti tentativi di governo misto o "proporzionale", la vita politica di Firenze saldamente in mano guelfa (fazione politica filopapale), fu sempre più segnata dagli scontri, anche armati tra le famiglie magnatizie (I Magnati), sia di antica estrazione feudale, sia di origine borghese. L'antagonismo tra le famiglie magnatizie, male endemico dello scenario politico fiorentino, culminò più tardi con drammatica evidenza nel 1297 nella contrapposizione tra la famiglia dei Cerchi e quella dei Donati: i primi sostenevano una moderata autonomia nei confronti papali; al contrario, i Donati incoraggiavano l'espansione del potere temporale del Papa in Toscana e in Firenze. Intanto, la politica espansionistica della città si concretizzò nelle guerre contro le città nemiche di Arezzo e Pisa, nelle quali il giovane Alighieri prestò il suo servizio in armi, partecipando nell'estate del 1289 alla Battaglia di Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo (Inf. canto XXI) e alla presa di torre Caprona,contro i Ghibellini di Pisa. Alla battaglia per la presa di Caprona, il poeta era uno dei quattrocento cavalieri e 2000 pedoni della milizia fiorentina che posero l'assedio alla piazzaforte pisana. L'Alighieri cita la circostanza nel XXI canto dell'inferno della Divina Commedia e si compiace ripensando ai ghibellini sconfitti, usciti dal castello tra le schiere dei vincitori. Dante trascorse l’ adolescenza e la prima giovinezza nelle occupazioni culturali consuete dei giovani del suo ambiente: studiò le ARTI del TRIVIO: GRAMMATICA, RETORICA, DIALETTICA; quindi le ARTI DEL QUADRIVIO: aritmetica, geometria, musica, astronomia. In Toscana, e in particola modo in Firenze, egli trovò il terreno fertile per la sua formazione culturale, attraverso la frequentazione di illustri maestri, primo fra tutti BRUNETTO LATINI. Negli anni della giovinezza trascorsi a Firenze Dante fu attratto dalla poesia, tipica esperienza culturale dei giovani dotti del tempo: da queste prime esperienze culturali nascono le RIME (avviate già a partire dal 1283 e continuate fino al 1307- 1308) le quali si modellano, specialmente all’inizio, sull’insegnamento di GUITTONE D’AREZZO, poeta toscano d’amore, di politica, di tematiche a carattere civile, di moralità, di religione. Non meno importante l’influenza sul giovane poeta di GUIDO CAVALCANTI, amico di Dante e di GUIDO GUINIZZELLI. A questo periodo (1283), risale l’incontro di Dante con Beatrice Portinari: alla giovinetta fiorentina egli dedicò un sentimento amoroso tanto forte e profondo che durò oltre la morte della donna avvenuta nel 1290, a soli 24 anni, segnando in maniera indelebile tutta la sua esistenza di uomo e di artista. Beatrice divenne la creatura angelicata più rappresentativa del Dolce Stil Novo, la scuola poetica di cui Dante, insieme con Guido cavalcanti, divenne il poeta più rappresentativo. A seguito della morte di Beatrice Dante entrò in una fase di profonda crisi spirituale, di traviamento interiore; riuscì a superare il difficile momento grazie allo studio della Filosofia che giudicò una scoperta illuminante e feconda, la sola dottrina capace di donare felicità e salvezza a chi la conquista. Studiò le opere di S. Agostino, di Cicerone ( in particolare il De Amicitia), di Boezio( il“ De consolatione philosophiae”). Inoltre, si avvicinò allo studio dei maggiori rappresentanti della FILOSOFIA SCOLASTICA medievale: studiò ARISTOTELE attraverso la decodificazione in chiave cristiana fatta nel Medioevo da San Tommaso d’Aquino. La filosofia aristotelico-tomistica costituirà il terreno più fecondo su cui poggia e si alimenta la sua produzione letteraria. Lo studio della filosofia aristotelica indusse il poeta ad acquisire una visione più razionalistica dell’esistenza umana e allo stesso tempo gli fece acquisire coscienza delle proprie responsabilità politico-civili. Frequentò le scuole filosofiche degli ecclesiastici: la Scuola dei Francescani in Santa Croce, dove si interessò alle dottrine platoniche, e la Scuola dei Domenicani in Santa Maria Novella orientata a studi aristotelici. Nel 1295 Dante sposò Gemma Donati, figlia di Manetto Donati, appartenente ad un ramo laterale della potente famiglia di Corso Donati, capo del partito dei Guelfi Neri. Dal matrimonio nacquero tre figli: Pietro, il primogenito, commentò in latino il poema paterno, Jacopo scrisse le chiose all’Inferno, Antonia divenne suora col nome di Beatrice.
SECONDA FASE: TEMPO DELL’IMPEGNO POLITICO-CIVILE (1295-1302). L’attività politica di Dante ha inizio nel 1295, allorché il poeta inizia ad interessarsi alle vicende cittadine, manifestando fin dall’inizio un carattere nettamente antimagnatizio. A Firenze si erano promulgati, nel 1293, Gli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella ,di ispirazione popolare, che miravano a limitare la presenza magnatizia nel governo della città, escludendo molti illustri magnati e cavalieri dalle cariche pubbliche. Gli Ordinamenti, infatti, ponevano come condizione per chi volesse partecipare al governo cittadino l’iscrizione ad una corporazione di Arte; Dante iniziò la sua carriera politica iscrivendosi ala Corporazione dei Medici e Speziali. A Firenze i conflitti tra le famiglie dei Magnati, particolarmente evidenti nella contrapposizione tra i CERCHI e i DONATI, si esasperarono nella primavera-estate del 1300, con la divisione dell’intera cittadinanza in parte bianca, capeggiata da VIERI DE’ CERCHI e in parte nera capeggiata dal violento e fazioso CORSO DONATI. Dante, che vedeva nel prepotere dei Magnati e nell’ingerenza papale i due principali mali per la vita della città, si schierò dalla parte dei Guelfi Bianchi, che apparivano allora come i più moderati ed autonomi. Dal 15 giugno al 15 agosto 1300 Dante fu eletto tra i sei Priori di Firenze ( la più alta carica cittadina, i più alti magistrati del Comune) e a seguito dei sanguinosi scontri cittadini avvenuti alla vigilia di San Giovanni , egli fu costretto a comminare l’esilio ai capi delle due fazioni, che ancora attentavano alla sicurezza della città. Tra questi fu anche Guido Cavalcanti che pochi mesi dopo fu riammesso a Firenze, dove morì entro l’anno. Nel 1301 si verificano Firenze degli avvenimenti che imposero alla vita di Dante una scelta decisiva. I Bianchi, saliti al potere, accolsero con sospetto al discesa in Italia di Carlo d’Angiò chiamato dal Papa Bonifacio VIII a fare da paciere tra le due fazioni. Il sospetto dei Guelfi Bianchi era quello che il re francese, sollecitato dal Papa, si sarebbe alleato con gli esuli Guelfi neri al fine di riconquistare il potere della città. I Guelfi bianchi, allora, inviarono a Roma un’Ambasceria ( di cui faceva parte lo stesso Dante), con lo scopo di valutare meglio le intenzioni di Bonifacio VIII. I sospetti della fazione bianca erano fondati: nel novembre 1301, durante l’assenza di Dante, trattenuto a Roma dal Pontefice, le truppe di Carlo d’Angiò aiutarono i Neri a rientrare in città con la forza e a prendere il sopravvento. - I beni di parte bianca furono requisiti, e il 27 gennaio 1302 Dante e altri capi bianchi vennero condannati all’interdizione dai pubblici uffici e al pagamento di una multa di 5000 fiorini per l’accusa di “baratteria” (interesse privato in atti d’Ufficio e peculato); il 10 marzo 1302 la pena fu mutata in condanna al rogo e confisca dei beni. Da allora Dante, che forse era ancora sulla via del ritorno da Roma, non rientrò mai più a Firenze.
TERZA FASE: TEMPO DELL’ ESILIO (1302-1321). Tra il 1302 e il 1304 Dante partecipò a numerosi tentativi di rientrare a Firenze con la forza delle armi, unendosi ai fuoriusciti ghibellini e agli esuli bianchi. Successivamente, venuto in contrasto per divergenze di vedute, si staccò da essi e fece “parte per se stesso”. Da allora cominciò a girovagare per le corti dei signori dell’Italia centro settentrionale in cerca di protezione e di sostegno economico: fu a Verona, ospite del potente Cangrande Della Scala, vicario imperiale (al quale il poeta dedicò il Paradiso, appena iniziato), in Lunigiana presso i Malaspina, a Ravenna, attratto dalla tranquillità di quella sede e dal prestigio del circolo letterario raccolto intorno al signore della città, Guido Novello da Polenta. Tra 1310-1313 la discesa in Italia del’Imperatore Arrigo VII di Lussemburgo, condotta per sedare le guerre civili in Lombardia e in Toscana e per ripristinare l’autorità imperiale aveva alimentato in Dante forti speranze di poter finalmente rientrare in Firenze. Purtroppo l’impresa italiana di Arrigo VII fallì, e con essa anche le ultime speranze di Dante. Nel 1315 Dante rifiutò di approfittare di un’amnistia a condizioni indegne a favore degli esuli pentiti: la conseguenza fu la condanna a morte per Dante e i suoi figli maschi. Dante morì tra il 13 e il 14 settembre 1321. Guido Novello da Polenta volle per lui solenni funerali, e i poeti di Romagna fecero a gara per la composizione dell’epitaffio; fu sepolto a Ravenna, presso il convento della Chiesa di San Francesco.
PRODUZIONE LETTERARIA - OPERE IN LINGUA LATINA.
De Monarchia (trattato politico) 1313-1318; De Vulgari Eloquentia (trattato sulla lingua e sullo stile della poesia)1304-1308; Epistole 1306-1317 ( di particolare rilievo è l’Epistola XIII a Cangrande della Scala, 1315-1317); Egloghe (poesie in esametri) 1319-1321; De situ et forma aque et terre (lezione di argomento scientifico) 1320.
OPERE IN LINGUA VOLGARE Vita Nuova (prosimetro, primo esempio di “canzoniere” ) 1293-1294;Rime (componimenti sparsi) 1283…; Convivio (trattato filosofico scientifico, a carattere enciclopedico) 1304-1308; La Commedia (poema sacro) 1307?
ALESSANDRO MANZONI (1785-1873) - Cfr. De Caprio-Giovanardi, I testi della letteratura italiana, vol. 3, ed. “Einaudi”; Antonelli – Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2b, “La Nuova Italia”; appunti del docente.
La lunga esistenza di Alessandro Manzoni appare spoglia di fatti rilevanti e raccolta in un alone di intimità domestica, gelosamente custodita. Nato a Milano nel 1785 dal conte Pietro Manzoni, proprietario terriero, e da Giulia Beccaria, figlia del marchese Cesare Beccaria, autore di uno dei capolavori dell’Illuminismo europeo, Dei delitti e delle pene (1764). Compie gli studi in collegio, dapprima presso i Padri Somaschi in Brianza, poi presso i Padri Barnabiti a Milano. Intanto la madre, separata legalmente dal padre,si trasferisce a Parigi (1795) con il conte Carlo Imbonati, senza portare con sé Il figlio. Il giovane Alessandro divenuto insofferente sia alla dura vita collegiale, sia al tipo di educazione ricevuta di stampo classicistico, non tardò a rivelare simpatie giacobine, palesi nella sua dichiarata volontà di diventare ateo. Lasciato definitivamente il collegio dei Barnabiti nel 1801, visse nella casa paterna dove ebbe modo di frequentare i grandi intellettuali del tempo, Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, e alcuni intellettuali illuministi napoletani: Vincenzo Cuoco.
Nel 1805 A. Manzoni, appresa la morte di Carlo Imbonati, compagno della madre, si trasferisce a Parigi. Qui viene a contatto con i salotti culturali più in vista della capitale francese, quindi ha modo di approfondire e di consolidare i propri IDEALI LIBERTARI E GIACOBINI, nonché il proprio ATEISMO ANTICLERICALE maturato negli anni della sua formazione culturale. A Parigi il Manzoni frequenta il gruppo degli “Ideologi”, tra i quali ricordiamo Claude Fauriel con il quale l’autore strinse un sodalizio umano ed intellettuale. Gli ideologi erano filosofi e scienziati di idee repubblicane, eredi della tradizione illuministica e fautori del principio di libertà individuale, pertanto ostili all’assolutismo del regime napoleonico.
Nel 1807 muore il padre, Pietro Manzoni e il giovane Alessandro ne eredita il patrimonio.
Nel 1808 A. Manzoni sposa con rito calvinista la sedicenne svizzera Enrichetta Blondel, dalla quale ebbe dieci figli.
Il 2 aprile 1810 si verificò l’episodio destinato a entrare nella leggenda manzoniana: a Parigi, durante i festeggiamenti popolari per il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, Alessandro, smarrita la moglie tra la folla, fu colpito da una terribile crisi di angoscia, prima manifestazione di quell’agorafobia che lo tormenterà per tutta la vita. La tradizione agiografica collega questo episodio al cosiddetto “Miracolo di San Rocco”, ovvero alla folgorazione divina che avrebbe colpito il Manzoni nella omonima chiesa parigina, spingendolo a convertirsi al cattolicesimo. In realtà i due momenti (smarrimento di Enrichetta Blondel; conversione religiosa) sono distinti tra loro: la conversione al cattolicesimo fu in Manzoni l’esito di un lungo percorso fatto di meditazioni filosofiche e morali; avvenne a costo di un sofferto travaglio interiore di cui fu testimone la moglie Enrichetta, che per prima si era avvicinata al cattolicesimo sotto la guida dell’abate giansenista Eustachio Degola, abiurando il calvinismo. La dottrina giansenista influenzò non poco il cattolicesimo di A. Manzoni, conferendo ad esso un accentuato rigore morale. Il Ginsenismo (da Giansenio, teologo olandese del XVII-XVIII sec.) appariva come una dottrina intermedia tra cattolicesimo e protestantesimo, sottolineava la necessità dell’intervento della grazia divina nei processi di redenzione umana e si connotava per la morale austera e rigorosa, in opposizione al lassismo dei costumi dei Gesuiti.
Nel giugno 1810 la famiglia Manzoni rientrò definitivamente a Milano, dove aprì la propria casa di via Morone a poeti e letterati illustri come Giovanni Berchet, Carlo Porta, Hermes Visconti, Tommaso Grossi.
Segue una fase di cocente delusione, in coincidenza dei moti risorgimentali del 1821, con i connessi processi politici; nonostante ciò, il 1821 fu per il Manzoni un anno di intensa produzione artistica: scrisse le due Odi politico-civili , Marzo 1821, il Cinque maggio; la seconda delle sue tragedie, l’Adelchi ; comincia la stesura del suo grande romanzo, Fermo e Lucia.
Nel 1827 trascorre un breve periodo (l’estate) a Firenze per la revisione linguistica (la famosa “risciacquatura” in Arno) del suo romanzo, I Promessi Sposi, apparsi in quell’anno in 1^ edizione.
Nei rimanenti 46 anni della sua vita (1827-1873), Manzoni si dedicò ad opere saggistiche, specie nel campo degli studi linguistici: tra il 1840 e il 1842 si colloca la definitiva edizione del romanzo I Promessi Sposi, apparso in dispense e profondamente rivisto. Tuttavia, nuove disavventure familiari lo attendevano: la morte della moglie Enrichetta nel 1833 e della primogenita Giulia nel 1835; le dissipazioni finanziarie dei figli Filippo ed Enrico. Nominato nel 1860 senatore del nuovo Regno d’Italia da Vittorio Emanuele II, il Manzoni scandalizzò i cattolici più intransigenti per aver votato a favore sia del Regno d’Italia (1861) sia a favore del trasferimento della capitale da Torino a Firenze(1864); e soprattutto accettando, nel 1872, la cittadinanza onoraria offertagli dal comune di Roma. Dopo essere passato attraverso numerosi altri lutti familiari, Manzoni si spense quasi novantenne a Milano, il 22 maggio 1873.
IL CATTOLICESIMO del Manzoni gli consentì di approdare ad una religiosità profonda ed intensa: il Manzoni non rinnegò il suo retroterra culturale, filosofico e ideologico; piuttosto adattò gli ideali laici e giacobini della Rivoluzione francese - libertà, uguaglianza, fraternità – ad una nuova esigenza, suprema ed universale, di giustizia sociale, nel segno della morale cattolica. Il Dio del Manzoni è il Cristo fatto uomo, flagellato sulla croce per redimere i peccati di tutta l’umanità; Egli rappresenta la suprema garanzia di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale. Attraverso il sacrificio della croce, attraverso il perdono e la sua infinita misericordia, il Cristo ha offerto a tutti gli uomini, senza distinzioni di cultura, di razza o di censo, l’opportunità della salvezza ultraterrena, la possibilità di un riscatto dallo stato di contrizione del peccato.
LA CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO AVRÀ, DUNQUE, PER MANZONI, NON SOLTANTO UN VALORE ETICO, QUANTO ESTETICO: tutta la realtà (la storia, la poetica, gli ideali umani e artistici) sarà trasfigurata dall’autore alla luce della nuova religiosità.
Il Manzoni, erede del meccanicismo materialista e del razionalismo illuministico, figlio di un’epoca storica segnata da laceranti conflitti politico-sociali (Rivoluzione francese, assolutismo napoleonico, dominazione austriaca) elabora, al pari del Foscolo, una visione profondamente pessimistica della condizione umana:la vita si configura spesso come un percorso doloroso e contraddittorio, segnato dall’insanabile contrasto tra il reale (ciò che siamo) e l’ideale ( ciò che vorremo che fossimo). Se il Foscolo risolve il lacerante dissidio tra ragione e spirito grazie all’intervento delle illusioni, i miti salvifici dell’uomo, il Manzoni riesce a smussare gli aspetti più cupi del suo pessimismo grazie alla scoperta della fede, alla rivelazione della Grazia divina, alla misericordia, grazie alla fiducia nella divina Provvidenza che attua l’armonico disegno di Dio. Il Manzoni risolve nella fede cristiana il proprio anelito all’ideale.
ANCHE DANTE, ALLA STREGUA DEL MANZONI, SOTTOLINEA IL CONCETTO DELLA DIVINA PROVVIDENZA, CHE TUTTO SUGGELLA. Naturalmente ciò che contraddistingue i due grandi autori è la base filosofica, aristotelico - tomistica nel primo, illuministica nel secondo. In Manzoni abbiamo il segno di un Dio giusto, che permea col suo spirito tutto il creato; anche la sofferenza, intrinseca nell’esistenza dell’uomo, risponde ad un fine ultimo preordinato: tutto ciò che il Creatore ha tolto agli uomini, sarà restituito a piene mani. Il Manzoni, volto costantemente all’analisi critica e scientifica del reale, non poté non conquistare la sua fede in maniera sofferta e ragionata. Una fede non dogmatica, volta a cogliere il senso consolatorio e illuminante dell’eterna presenza di Dio nella vita degli uomini; una fede capace di accogliere in sé, in quanto sorgente di ogni ideale, anche le idee progressiste di stampo illuministico tanto care all’autore, secondo un sincretismo culturale tipicamente manzoniano.
Il cristianesimo del Manzoni , dunque, è il recupero di un ideale cristiano evangelico che si manifesta nel costante richiamo ai principi e ai valori che avevano orientato la formazione culturale del giovane poeta: libertà, giustizia sociale, solidarietà umana. Da ciò deriva una poesia fortemente ancorata al “vero” storico; una poesia oggettiva, aliena da eccessivi slanci dello spirito e dalla tentazione di esaltare singole personalità ed esperienze straordinarie, in cui la voce dell’autore perde ogni connotazione individuale per farsi interprete di un punto di vista corale, per esprimere il rapporto tra Dio e il popolo.
IL ROMANTICISMO IN ITALIA
IL ROMANTICISMO IN ITALIA ebbe un carattere moderato rispetto a quello nordico. Le ragioni vanno ricercate nella persistenza in ambito culturale della mai tramontata tradizione classicistica, che operò da freno, epurando il romanticismo italiano dagli aspetti morbosi, irrazionali e mistici che apparivano in contrasto con il principio classico di armonia ed equilibrio delle forme.
L’altra ragione va ricercata nella difficile condizione politica italiana, uscita ancora divisa dal Congresso di Vienna, ridotta ad “una semplice espressione geografica” secondo la sprezzante definizione di Metternich, ma tuttavia anelante all’indipendenza e all’unità. Pertanto molti scrittori romantici italiani isolarono e svilupparono del Romanticismo soprattutto l’aspetto politico, quello che esaltava il sentimento nazionale e la libertà dei popoli oppressi, e si assunsero il compito di risvegliare e galvanizzare la coscienza nazionale e l’amor di patria, di educare politicamente e di elevare spiritualmente il popolo italiano.
Altro elemento frenante del Romanticismo italiano fu, oltre alla situazione politica e alla tradizione classicistica, la presenza ancora viva, specialmente il Lombardia, di molti aspetti della cultura illuministica e del solido realismo degli scrittori del “Caffe”, dei Fratelli Pietro e Alessandro verri, di cesare Beccaria, l’influenza della poesia politico-civile di G. Parini, il neoclassicismo di U. Foscolo.
I Romantici italiani, pertanto, si sforzarono di conciliare le manifestazioni più esasperate del Romanticismo europeo con la tradizione culturale italiana di matrice classicistica.
Il Romanticismo italiano, aldilà della comune base concettuale, presenta due indirizzi fondamentali insiti nella natura stessa del Romanticismo: l’indirizzo realistico ed oggettivo (legato all’analisi del dato reale); l’indirizzo lirico, patetico e soggettivo ( di influenza prevalentemente nord europea).
1 L’indirizzo realistico ed oggettivo si fa testimone di un’arte il più possibile aderente al “vero” storico. L’arte deve svolgere principalmente una funzione didascalica : deve contribuire alla formazione nel cittadino di una coscienza nazionale; deve contribuire al progresso civile della società. In questo senso il Romanticismo diede luogo ad una ricca produzione patriottica del Risorgimento ed ebbe quale massimo esponente A.Manzoni.
2 L’indirizzo lirico e soggettivo fa riferimento ad un’arte individualistica, che sia la chiara espressione dei sentimenti dell’artista , dei suoi dissidi interiori, del suo profondo senso del dolore. Qesto filone ha come massimo esponente G.Leopardi, proseguirà nel cosiddetto “Secondo Romanticismo” e nel movimento della Scapigliatura.
Il Manifesto del Romanticismo italiano è rappresentato dalla “ Lettera semiseria di Grisostomo” (1816) di Giovanni Berchet pubblicata nel 1816, anno in cui apparve sul primo numero della rivista “ La Biblioteca italiana” un articolo di Madame De Stael dal titolo “ Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni”.
La Lettera sembra scritta sotto l’influenza stessa dell’articolo sull’utilità delle traduzioni, perché il Berchet, sotto lo pseudonimo di Grisostomo, finge di inviare il figlio, che è lontano in un collegio, la traduzione di due Ballate del poeta tedesco Goffried Burger (1747-94) - Il cacciatore feroce e l’Eleonora- di argomento fortemente romantico per la presenza di elementi drammatici, avventurosi, lugubri. Tale occasione offre al Berchet lo spunto per affrontare il tema della nuova poesia romantica e per metterne in evidenza, con notevole rigore logico, la modernità e la superiorità sulla poesia classica.
L’articolo di Madame De Stael Madame de Staël (scrittrice francese di origini svizzere, Parigi 1766 – Parigi, 1817), pubblicato nel 1816, nella traduzione di Pietro Giordani, polemizzava con i classicisti italiani per la loro staticità nelle tematiche, ormai antiche, anacronistiche e ripetitive ; consigliava dunque ai letterati italiani di abbandonare le tematiche della mitologia greco-romana, giudicate oramai anacronistiche nel resto d’Europa, e prendere spunto dalle letterature europee, come quella inglese e tedesca, che rappresentavano grande innovazione e modernità.
Fra i grandi sostenitori del Classicismo italiano che risposero all'articolo della De Staël, furono Pietro Giordani e Giacomo Leopardi.
G. Leopardi partecipò alla polemica classico-romantica dapprima, ancora adolescente, con una lettera indirizzata ai compilatori della “Biblioteca italiana”, che però non venne pubblicata, e nel 1818, quando scrisse il “Discorso di un italiano sulla poesia romantica”. In entrambi gli interventi Giacomo Leopardi si dichiara contrario alle traduzioni dei opere straniere, giudicate infarcite di descrizioni mostruose, assurde e fantastiche, tutte cose lontanissime dalla “vera, castissima, santissima, leggiadrissima natura”.
« Dovrebbero a mio avviso gl'italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a' loro cittadini. »
(Madame de Staël, "Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni", traduzione di Pietro Giordani)
Già al momento della sua pubblicazione, l’articolo di Madame De Stael apparve come una denigrazione della gloriosa tradizione culturale italiana, suscitando subito la sdegnosa reazione dei classicisti italiani. L’articolo si inserì nella celebre “polemica classico romantica” che vide contrapposti intellettuali classicisti, pronti a difendere l’integrità e il carattere nazionale della cultura italiana, ed intellettuali romantici, che ritennero giuste le critiche della De Stael, riconoscendo la decadenza italiana nel contesto della cultura europea ed impegnandosi a vivificarla e a modernizzarla. Gli intellettuali romantici in Italia ebbero come organo di divulgazione la rivista “Il Conciliatore”, così intitolato perché mirava a “conciliare i sinceri amatori del vero”, come scrisse il suo redattore capo, Silvio Pellico.
Furono collaboratori del “Conciliatore” Giovanni Berchet, Ludovico Di Breme, Ermes Visconti, Pietro Borsieri, Gian Domenico Romagnosi, Federico Confalonieri, Pietro Maroncelli. Erano uomini di idee liberali e ben presto attirarono i sospetti e l’intervento della censura austriaca. Così l’attività del “Conciliatore” fu sospesa dal governo austriaco nell’ottobre del 1819.
L’ETA’ DEL ROMANTICISMO ( cfr.V. De Caprio-S.Giovanardi, I Testi della Letteratura Italiana, vol.IV)
Il Romanticismo fu un vasto movimento di pensiero che caratterizzò le tendenze e le manifestazioni culturali europee della prima metà dell’Ottocento.
La genesi storico-filosofica va ricercata nella crisi dell’Illuminismo e nella delusione che fece seguito in Europa al fallimento degli ideali libertari innescati dalla Rivoluzione francese, fallimento testimoniato dapprima dall’assolutismo dell’Impero napoleonico, poi dal nuovo assetto geopolitico scaturito dalla Restaurazione.
In Inghilterra le tendenze preromantiche si manifestano già alla metà del Settecento nella poesia sepolcrale e notturna di autori come EDWARD YOUNG (Pensieri notturni 1774), THOMAS GRAY (Elegia scritta in un cimitero di campagna 1751), HORACE WALPOLE (Il castello di Otranto 1764), JAMES MACPHERSON (I Canti di Ossian, che egli fece passare per antico epos nordico; I Canti di Ossian furono noti in Italia dalla traduzione di Melchiorre Cesarotti). Queste opere narrano storie leggendarie d’amore e di morte che si svolgono sullo sfondo di una natura selvaggia e ostile, pervasa dal gusto del patetico, dell’orrido.
In Germania chiare tendenze preromantiche si ravvisano nella nascita del movimento STURM UND DRUNG (Tempesta e assalto), fiorito tra il 1770 e il 1785, derivando il titolo dal nome di un dramma di Friedrich Klinger >(1752-1831). Tale movimento, che rifiutava il rigido accademismo della poetica neoclassica rivendicando l’assoluta libertà creativa del poeta, ebbe tra i maggiori teorici e sostenitori gli scrittori e filosofi Johann Georg Hamann (1730-88), e Johann Gottfried Herder (1744-1803), i quali delinearono la figura creativa e l'originalità spirituale del “genio” artistico in alternativa alla tradizionale cultura letteraria adagiatasi nelle proprie convenzioni borghesi. Nell’ambito dello Sturm und Drung fecero le prime esperienze poetiche J.Wolfang Ghoete e Friedrich Schiller.
IN ITALIA tracce di tendenze preromantiche si avvertono alla fine del Settecento nelle opere di G. Parini e di V. Alfieri . Quest’ultimo, in particolare, polemizzando con gli esiti della Rivoluzione francese, aveva rivendicato l’importanza della componente spirituale, la sacralità di valori quali l’individualismo, il titanismo, l’amor di patria e il soggettivismo artistico, in contrapposizione all’egualitarismo, al razionalismo meccanicista, al determinismo della filosofia illuministica.
Attraverso l’opera di questi intellettuali “preromantici” entrano in circolazione ed acquistano forte rilevanza alcuni motivi ed atteggiamenti che vanno contro la letteratura del buon senso e del garbo, contro il classicismo della cultura salottiera e aggraziata dominante tra Settecento e Ottocento.
Il termine “Romantic” fu usato per la prima volta con connotazione dispregiativa dai razionalisti inglesi alla fine del Seicento in riferimento a narrazioni dal carattere fantastico e irreale. Ancora durante il Settecento razionalista il termine designava cose lontane dalla realtà, incredibili, “romanzesche”. La rivalutazione del vocabolo avviene in Francia per opera di J.J. Rousseau (1712-1778) che lo usò per indicare gli aspetti suggestivi di un paesaggio e le sensazioni patetico-malinconiche che il paesaggio suscitava nell’osservatore.
Questa identificazione tra “romantico” e “pittoresco, malinconico” venne ripresa in seguito d alcuni intellettuali tedeschi, che arricchirono di ulteriori sfumature di significato la parola: questa venne quindi a qualificare l’irrequieta sensibilità dei poeti moderni, che contrapponevano l’innocenza e la forza dei sentimenti alle rigide astrazioni dell’intelletto. I fratelli Schlegel in sede di critica letteraria usarono il termine “Romantico” per indicare la nuova poesia, ingenua , sentimentale ed infinita, contrapposta a quella dotta e stereotipata di imitazione classica. Madame De Stael, infine col suo libro “De l’Allemagne”, lo diffuse in tutta Europa.
CARATTERI FONDAMENTALI DEL ROMANTICISMO:
L’IRRAZIONALISMO, ESALTAZIONE DEL SENTIMENTO, FRATTURA TRA L’IO E IL MONDO
L’ESALTAZIONE DELL’INDIVIDUO, INTESO COME ESSERE UNICO E IRRIPETIBILE (ACCENTUATO INDIVIDUALISMO)
ESALTAZIONE DELL’EROE RIBELLE (TITANISMO)
ESALTAZIONE DELLE TEMATICHE RELIGIOSE E SPIRITUALISTICHE
MISTICISMO O PANTEISMO NEI CONFRONTI DELLA NATURA
RINNOVATO SENSO DI IDENTITA’ NAZIONALE; RISCOPERTA DEL VALORE DELLA STORIA E DELLE TRADIZIONI POPOLARI (STORICISMO)
L’ ARTE INTESA COME ASSOLUTA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE ; ESALTAZIONE DEL GENIO AL DI FUORI DELLE REGOLE.
Nella prospettiva secondo la quale i Romantici intendono il sentimento, l’istinto, la fantasia intese come forze primarie, non soggette alle regole generali della ragione, confluiscono i concetti di “entusiasmo” e di “sublime”: il concetto di sublime è quello che caratterizza l’arte vera, dominata da sentimento, istinto e fantasia, che non produce un limpido diletto, ma al contrario genera un sentimento di smarrimento, struggimento ed inquietudine.
Il Romanticismo, che ebbe il suo centro di irradiamento in Germania, fu un fenomeno a carattere europeo; dunque, ciascuna nazione sviluppò una poetica romantica in conformità alla proprio contesto storico- politico e alla propria tradizione culturale.
In Germania, culla del R., questo movimento ebbe un carattere prevalentemente filosofico-mistico, fondato sulla nuova intuizione della realtà in “fieri” e proteso alla conquista dell’assoluto e dell’infinito: “la poesia romantica è in continuo divenire; anzi questa è la sua vera essenza: che può soltanto divenire, mai essere” (F. Schlegel, Frammenti, 1798).
Oltre ai fratelli Friedrich e August Schlegel, altro teorico tedesco della poesia romantica fu Friedrich Schiller, autore del saggio “ Sulla poesia ingenua e sentimentale” (1796); secondo Schiller la poesia moderna (romantica) si caratterizza essenzialmente come “sentimentale” in opposizione alla poesia “ingenua” e primitiva, che domina presso gli antichi. Mentre la poesia ingenua è “naturale” ed è legata agli oggetti della realtà sensibile attraverso un rapporto diretto, la poesia moderna (romantica, sentimentale) coglie la divaricazione tra reale e ideale, evoca l’indefinito, unifica il visibile e l’invisibile, rispecchia la condizione dilemmatica e drammatica dell’uomo contemporaneo.
Organo di diffusione del Romanticismo tedesco fu la rivista “Athenaeum” fondata e diretta da F.Schlegel.
Il Romanticismo inglese ebbe un carattere panico-nostalgico, volto a fondere l’Io individuale con la natura in un abbandono fiducioso e totale: la Natura intesa panteisticamente, può essere “letta” come terreno di rivelazione del divino o comunque di forze mistiche e metafisiche. A tal proposito ricordiamo: P.B. Shelley (1792-1822), e la sua celebre Ode to the west wind; W. Wordsworth e S. Coleridge, autori delle Lirycal Ballads la cui prefazione fu assunta come “ Manifesto” del Romanticismo inglese.
Altri interpreti del Romanticismo inglese furono J. Keats. e G. Byron, cantore degli ideali di Patria, di libertà, di indipendenza.
Il movimento romantico francese, sorto più tardi rispetto a quello tedesco, ebbe tra i maggiori interpreti il poeta Alphonse de Lamartine, con le sue raccolte poetiche, e Victor Hugo. Il Romanticismo francese risentì dei principi della grande rivoluzione ed ebbe un carattere umanitario-sociale, volto all’affratellamento universale ed al riscatto dgli oppressi. Suo manifesto è considerata la prefazione alla tragedia Cromwell di V. Hugo.
I TEMI DELLA POESIA ROMANTICA
Un dato certo del Romanticismo è che nessun fenomeno si presenta in maniera univoca: tipica della condizione romantica è l’oscillazione di stati d’animo e la frequente ambivalenza degli atteggiamenti e delle posizioni ideologiche. Così, prendendo in esame alcune manifestazioni della cultura romantica, ad esempio la figura del poeta, la concezione della lirica, del dramma o del romanzo, è evidente che dobbiamo segnare una prima distinzione tra le poetiche dell’io e le poetiche della realtà.
LE POETICHE DELL’IO sono manifestazioni che nascono dall’esigenza dello scrittore di trovar compenso alle proprie frustrazioni, di origine psicologica e sociale e pongono perciò al centro dell’universo artistico la figura del poeta considerato essere unico e irripetibile. Quanto più lo scrittore si sente sradicato dalla società che lo circonda, solo e incompreso, tanto più ne fa la condizione della propria superiorità, l’aureola del proprio martirio ed eroismo. LA FIGURA DEL POETA viene affiancata a quella del sacerdote: egli viene ad essere profeta e guida dell’umanità , diviene un essere capace di cogliere con la forza dell’intuizione e con lo slancio del sentimento le più alte e misteriose verità; un essere che non ha bisogno di imitare la Natura perché la forza vitale della natura si esprime attraverso la sua voce; un essere che guarda alla realtà soltanto per pronunziare parole profetiche e concepire utopie. Nel poeta viene messa nel massimo risalto l’interiorità, lontana dalla perturbazioni della vita e libera di e libera di sprofondare negli abissi più insondabili dell’inconscio o di elevarsi e identificarsi con lo slancio vitale dell’universo.
IL TITANISMO ROMANTICO, l’enfasi con cui viene innalzato l’io dello scrittore al di sopra della comune umanità, non si esaurisce nell’autoesaltazione, ma finisce per tradursi in un impegno politico e sociale, tanto che molti poeti romantici si fanno assertori di libertà e difensori dell’indipendenza nazionale. L’esempio più noto del TITANISMO ROMANTICO, al di là delle tracce riscontrabili nelle opere del Foscolo, riamane quello leopardiano della canzone “All’Italia” che raggiunge la massima tensione oratoria nei versi “L’armi, qua l’armi: io solo/combatterò, procomberò sol io./ Dammi, o ciel, che sia foco/ agli italici petti il sangue mio”.
LE POETICHE DELL’IO TROVANO ESPRESSIONE PREVALENTEMENTE NELLA LIRICA.
• Un tema costante nelle liriche romantiche è IL DISAGIO DEL POETA NEL MONDO: il conflitto con la società, il rapporto dell’uomo con la natura ( sentita come madre o come matrigna, come forza benefica o come potenza ostile e misteriosa), il sentimento di solitudine e di infelicità, l’inesorabile scorrere del tempo e il doloroso destino di morte a cui gli uomini non possono sottrarsi.
• Al tema del disagio del poeta è collegato IL TEMA DEL RIFUGIO NELLA INTERIORITA’ (INDIVIDUALISMO) sentita come realtà più pura e più vera di quella materiale e sociale. L’infinito, l’ignoto, il notturno, l’ineffabile, il nulla eterno diventano i poli di attrazione della fantasia poetica che tende a forzare o ad indebolire i limiti dell’esperienza oggettiva e ad abbandonarsi alla voluttà del fiabesco, dello slancio mistico, dell’irrazionale. LA POESIA , L’ARTE, LA BELLEZZA rappresentano ideali superiori, che oppongono il godimento estetico alla triste realtà dell’esistenza.
• Sotto il segno dell’individualismo si pone IL TEMA DEL TITANISMO E DELLA LIBERTA’ POLITICA: temi che ebbero largo corso nel periodo della Restaurazione e attraverso i quali il poeta aspirava ad ergersi a guida del suo popolo, coscienza morale della nazione.
• IL TEMA DELL’AMORE inteso come forza travolgente che spesso si scontra con le convenzioni e, in alcuni casi, è destinato a sublimarsi in forme ideali e a trovare una soluzione solo nella morte (leopardi) o addirittura nel suicidio (Flaubert) Le eroine romantiche sono animate dalla passione e i loro amori sono tormentati e a volte irrealizzabili. Su tutto domina, spesso, l’elemento irrazionale.
• Su tutto domina la figura del POETA la sua sofferenza, i suoi languori, la sua ribellione alle convenzioni e alle leggi codificate, il suo modo di sentire la vita, l’arte e la morte. Nella concezione romantica, LA POESIA e, più in generale, l’ARTE non devono più basarsi sul principio classico di imitazione, né sul principio classicistico del “bello ideale” (arte greco-romana). L’arte e la poesia devono prescindere da tutte le regole della tradizione retorica, da tutti i modelli precostituiti, giudicati piuttosto come gabbie soffocanti di regole, che impediscono il dispiegarsi della verità più profonda dell’arte nemiche della spontaneità e della creatività. L’arte deve rappresentare l’assoluta libertà d’ispirazione e di espressione del poeta : l’arte deve scaturire da un contatto creativo tra l’artista e la natura, che rappresentano i poli distinti di un rapporto dialettico fatto di attrazione, fascino, mistero, dolore, anelito all’infinito.
LE POETICHE DELLA REALTA’, anch’esse sorte nel solco della cultura romantica, trovarono applicazione prevalentemente nell’opera narrativa, soprattutto nel ROMANZO. Il Romanzo ottocentesco, predilige tematiche di adesione al vero storico; l’opera d’arte deve riprodurre la verità, e lo scrittore ha il dovere non soltanto estetico, ma anche etico, di far agire i suoi personaggi nel quadro complesso della realtà sociale (vedi Victor Hugo, I miserabili; A. Manzoni, I promessi sposi). Il nuovo romanzo ottocentesco, lungi dal limitarsi a tracciare la vicenda psicologica di pochi protagonisti, come nei romanzi epistolari del Settecento (Richardson, Rousseau, Goethe, Foscolo), tendono a cogliere la dinamica sempre più complessa della società capitalistica, di descrivere il bene e il male, le azioni nobili e quelle più basse. Il più grande dei romanzieri europei dell’Ottocento, Honoré De Balzac, riproduce un mosaico di personaggi attinti dalla complessa realtà sociale, espone un inventario di vizi e virtù, la storia dei costumi di un’intera civiltà, sempre alla ricerca delle cause che determinano gli effetti sociali.
La genesi storico-filosofica va ricercata nella crisi dell’Illuminismo e nella delusione che fece seguito in Europa al fallimento degli ideali libertari innescati dalla Rivoluzione francese, fallimento testimoniato dapprima dall’assolutismo dell’Impero napoleonico, poi dal nuovo assetto geopolitico scaturito dalla Restaurazione.
In Inghilterra le tendenze preromantiche si manifestano già alla metà del Settecento nella poesia sepolcrale e notturna di autori come EDWARD YOUNG (Pensieri notturni 1774), THOMAS GRAY (Elegia scritta in un cimitero di campagna 1751), HORACE WALPOLE (Il castello di Otranto 1764), JAMES MACPHERSON (I Canti di Ossian, che egli fece passare per antico epos nordico; I Canti di Ossian furono noti in Italia dalla traduzione di Melchiorre Cesarotti). Queste opere narrano storie leggendarie d’amore e di morte che si svolgono sullo sfondo di una natura selvaggia e ostile, pervasa dal gusto del patetico, dell’orrido.
In Germania chiare tendenze preromantiche si ravvisano nella nascita del movimento STURM UND DRUNG (Tempesta e assalto), fiorito tra il 1770 e il 1785, derivando il titolo dal nome di un dramma di Friedrich Klinger >(1752-1831). Tale movimento, che rifiutava il rigido accademismo della poetica neoclassica rivendicando l’assoluta libertà creativa del poeta, ebbe tra i maggiori teorici e sostenitori gli scrittori e filosofi Johann Georg Hamann (1730-88), e Johann Gottfried Herder (1744-1803), i quali delinearono la figura creativa e l'originalità spirituale del “genio” artistico in alternativa alla tradizionale cultura letteraria adagiatasi nelle proprie convenzioni borghesi. Nell’ambito dello Sturm und Drung fecero le prime esperienze poetiche J.Wolfang Ghoete e Friedrich Schiller.
IN ITALIA tracce di tendenze preromantiche si avvertono alla fine del Settecento nelle opere di G. Parini e di V. Alfieri . Quest’ultimo, in particolare, polemizzando con gli esiti della Rivoluzione francese, aveva rivendicato l’importanza della componente spirituale, la sacralità di valori quali l’individualismo, il titanismo, l’amor di patria e il soggettivismo artistico, in contrapposizione all’egualitarismo, al razionalismo meccanicista, al determinismo della filosofia illuministica.
Attraverso l’opera di questi intellettuali “preromantici” entrano in circolazione ed acquistano forte rilevanza alcuni motivi ed atteggiamenti che vanno contro la letteratura del buon senso e del garbo, contro il classicismo della cultura salottiera e aggraziata dominante tra Settecento e Ottocento.
Il termine “Romantic” fu usato per la prima volta con connotazione dispregiativa dai razionalisti inglesi alla fine del Seicento in riferimento a narrazioni dal carattere fantastico e irreale. Ancora durante il Settecento razionalista il termine designava cose lontane dalla realtà, incredibili, “romanzesche”. La rivalutazione del vocabolo avviene in Francia per opera di J.J. Rousseau (1712-1778) che lo usò per indicare gli aspetti suggestivi di un paesaggio e le sensazioni patetico-malinconiche che il paesaggio suscitava nell’osservatore.
Questa identificazione tra “romantico” e “pittoresco, malinconico” venne ripresa in seguito d alcuni intellettuali tedeschi, che arricchirono di ulteriori sfumature di significato la parola: questa venne quindi a qualificare l’irrequieta sensibilità dei poeti moderni, che contrapponevano l’innocenza e la forza dei sentimenti alle rigide astrazioni dell’intelletto. I fratelli Schlegel in sede di critica letteraria usarono il termine “Romantico” per indicare la nuova poesia, ingenua , sentimentale ed infinita, contrapposta a quella dotta e stereotipata di imitazione classica. Madame De Stael, infine col suo libro “De l’Allemagne”, lo diffuse in tutta Europa.
CARATTERI FONDAMENTALI DEL ROMANTICISMO:
L’IRRAZIONALISMO, ESALTAZIONE DEL SENTIMENTO, FRATTURA TRA L’IO E IL MONDO
L’ESALTAZIONE DELL’INDIVIDUO, INTESO COME ESSERE UNICO E IRRIPETIBILE (ACCENTUATO INDIVIDUALISMO)
ESALTAZIONE DELL’EROE RIBELLE (TITANISMO)
ESALTAZIONE DELLE TEMATICHE RELIGIOSE E SPIRITUALISTICHE
MISTICISMO O PANTEISMO NEI CONFRONTI DELLA NATURA
RINNOVATO SENSO DI IDENTITA’ NAZIONALE; RISCOPERTA DEL VALORE DELLA STORIA E DELLE TRADIZIONI POPOLARI (STORICISMO)
L’ ARTE INTESA COME ASSOLUTA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE ; ESALTAZIONE DEL GENIO AL DI FUORI DELLE REGOLE.
Nella prospettiva secondo la quale i Romantici intendono il sentimento, l’istinto, la fantasia intese come forze primarie, non soggette alle regole generali della ragione, confluiscono i concetti di “entusiasmo” e di “sublime”: il concetto di sublime è quello che caratterizza l’arte vera, dominata da sentimento, istinto e fantasia, che non produce un limpido diletto, ma al contrario genera un sentimento di smarrimento, struggimento ed inquietudine.
Il Romanticismo, che ebbe il suo centro di irradiamento in Germania, fu un fenomeno a carattere europeo; dunque, ciascuna nazione sviluppò una poetica romantica in conformità alla proprio contesto storico- politico e alla propria tradizione culturale.
In Germania, culla del R., questo movimento ebbe un carattere prevalentemente filosofico-mistico, fondato sulla nuova intuizione della realtà in “fieri” e proteso alla conquista dell’assoluto e dell’infinito: “la poesia romantica è in continuo divenire; anzi questa è la sua vera essenza: che può soltanto divenire, mai essere” (F. Schlegel, Frammenti, 1798).
Oltre ai fratelli Friedrich e August Schlegel, altro teorico tedesco della poesia romantica fu Friedrich Schiller, autore del saggio “ Sulla poesia ingenua e sentimentale” (1796); secondo Schiller la poesia moderna (romantica) si caratterizza essenzialmente come “sentimentale” in opposizione alla poesia “ingenua” e primitiva, che domina presso gli antichi. Mentre la poesia ingenua è “naturale” ed è legata agli oggetti della realtà sensibile attraverso un rapporto diretto, la poesia moderna (romantica, sentimentale) coglie la divaricazione tra reale e ideale, evoca l’indefinito, unifica il visibile e l’invisibile, rispecchia la condizione dilemmatica e drammatica dell’uomo contemporaneo.
Organo di diffusione del Romanticismo tedesco fu la rivista “Athenaeum” fondata e diretta da F.Schlegel.
Il Romanticismo inglese ebbe un carattere panico-nostalgico, volto a fondere l’Io individuale con la natura in un abbandono fiducioso e totale: la Natura intesa panteisticamente, può essere “letta” come terreno di rivelazione del divino o comunque di forze mistiche e metafisiche. A tal proposito ricordiamo: P.B. Shelley (1792-1822), e la sua celebre Ode to the west wind; W. Wordsworth e S. Coleridge, autori delle Lirycal Ballads la cui prefazione fu assunta come “ Manifesto” del Romanticismo inglese.
Altri interpreti del Romanticismo inglese furono J. Keats. e G. Byron, cantore degli ideali di Patria, di libertà, di indipendenza.
Il movimento romantico francese, sorto più tardi rispetto a quello tedesco, ebbe tra i maggiori interpreti il poeta Alphonse de Lamartine, con le sue raccolte poetiche, e Victor Hugo. Il Romanticismo francese risentì dei principi della grande rivoluzione ed ebbe un carattere umanitario-sociale, volto all’affratellamento universale ed al riscatto dgli oppressi. Suo manifesto è considerata la prefazione alla tragedia Cromwell di V. Hugo.
I TEMI DELLA POESIA ROMANTICA
Un dato certo del Romanticismo è che nessun fenomeno si presenta in maniera univoca: tipica della condizione romantica è l’oscillazione di stati d’animo e la frequente ambivalenza degli atteggiamenti e delle posizioni ideologiche. Così, prendendo in esame alcune manifestazioni della cultura romantica, ad esempio la figura del poeta, la concezione della lirica, del dramma o del romanzo, è evidente che dobbiamo segnare una prima distinzione tra le poetiche dell’io e le poetiche della realtà.
LE POETICHE DELL’IO sono manifestazioni che nascono dall’esigenza dello scrittore di trovar compenso alle proprie frustrazioni, di origine psicologica e sociale e pongono perciò al centro dell’universo artistico la figura del poeta considerato essere unico e irripetibile. Quanto più lo scrittore si sente sradicato dalla società che lo circonda, solo e incompreso, tanto più ne fa la condizione della propria superiorità, l’aureola del proprio martirio ed eroismo. LA FIGURA DEL POETA viene affiancata a quella del sacerdote: egli viene ad essere profeta e guida dell’umanità , diviene un essere capace di cogliere con la forza dell’intuizione e con lo slancio del sentimento le più alte e misteriose verità; un essere che non ha bisogno di imitare la Natura perché la forza vitale della natura si esprime attraverso la sua voce; un essere che guarda alla realtà soltanto per pronunziare parole profetiche e concepire utopie. Nel poeta viene messa nel massimo risalto l’interiorità, lontana dalla perturbazioni della vita e libera di e libera di sprofondare negli abissi più insondabili dell’inconscio o di elevarsi e identificarsi con lo slancio vitale dell’universo.
IL TITANISMO ROMANTICO, l’enfasi con cui viene innalzato l’io dello scrittore al di sopra della comune umanità, non si esaurisce nell’autoesaltazione, ma finisce per tradursi in un impegno politico e sociale, tanto che molti poeti romantici si fanno assertori di libertà e difensori dell’indipendenza nazionale. L’esempio più noto del TITANISMO ROMANTICO, al di là delle tracce riscontrabili nelle opere del Foscolo, riamane quello leopardiano della canzone “All’Italia” che raggiunge la massima tensione oratoria nei versi “L’armi, qua l’armi: io solo/combatterò, procomberò sol io./ Dammi, o ciel, che sia foco/ agli italici petti il sangue mio”.
LE POETICHE DELL’IO TROVANO ESPRESSIONE PREVALENTEMENTE NELLA LIRICA.
• Un tema costante nelle liriche romantiche è IL DISAGIO DEL POETA NEL MONDO: il conflitto con la società, il rapporto dell’uomo con la natura ( sentita come madre o come matrigna, come forza benefica o come potenza ostile e misteriosa), il sentimento di solitudine e di infelicità, l’inesorabile scorrere del tempo e il doloroso destino di morte a cui gli uomini non possono sottrarsi.
• Al tema del disagio del poeta è collegato IL TEMA DEL RIFUGIO NELLA INTERIORITA’ (INDIVIDUALISMO) sentita come realtà più pura e più vera di quella materiale e sociale. L’infinito, l’ignoto, il notturno, l’ineffabile, il nulla eterno diventano i poli di attrazione della fantasia poetica che tende a forzare o ad indebolire i limiti dell’esperienza oggettiva e ad abbandonarsi alla voluttà del fiabesco, dello slancio mistico, dell’irrazionale. LA POESIA , L’ARTE, LA BELLEZZA rappresentano ideali superiori, che oppongono il godimento estetico alla triste realtà dell’esistenza.
• Sotto il segno dell’individualismo si pone IL TEMA DEL TITANISMO E DELLA LIBERTA’ POLITICA: temi che ebbero largo corso nel periodo della Restaurazione e attraverso i quali il poeta aspirava ad ergersi a guida del suo popolo, coscienza morale della nazione.
• IL TEMA DELL’AMORE inteso come forza travolgente che spesso si scontra con le convenzioni e, in alcuni casi, è destinato a sublimarsi in forme ideali e a trovare una soluzione solo nella morte (leopardi) o addirittura nel suicidio (Flaubert) Le eroine romantiche sono animate dalla passione e i loro amori sono tormentati e a volte irrealizzabili. Su tutto domina, spesso, l’elemento irrazionale.
• Su tutto domina la figura del POETA la sua sofferenza, i suoi languori, la sua ribellione alle convenzioni e alle leggi codificate, il suo modo di sentire la vita, l’arte e la morte. Nella concezione romantica, LA POESIA e, più in generale, l’ARTE non devono più basarsi sul principio classico di imitazione, né sul principio classicistico del “bello ideale” (arte greco-romana). L’arte e la poesia devono prescindere da tutte le regole della tradizione retorica, da tutti i modelli precostituiti, giudicati piuttosto come gabbie soffocanti di regole, che impediscono il dispiegarsi della verità più profonda dell’arte nemiche della spontaneità e della creatività. L’arte deve rappresentare l’assoluta libertà d’ispirazione e di espressione del poeta : l’arte deve scaturire da un contatto creativo tra l’artista e la natura, che rappresentano i poli distinti di un rapporto dialettico fatto di attrazione, fascino, mistero, dolore, anelito all’infinito.
LE POETICHE DELLA REALTA’, anch’esse sorte nel solco della cultura romantica, trovarono applicazione prevalentemente nell’opera narrativa, soprattutto nel ROMANZO. Il Romanzo ottocentesco, predilige tematiche di adesione al vero storico; l’opera d’arte deve riprodurre la verità, e lo scrittore ha il dovere non soltanto estetico, ma anche etico, di far agire i suoi personaggi nel quadro complesso della realtà sociale (vedi Victor Hugo, I miserabili; A. Manzoni, I promessi sposi). Il nuovo romanzo ottocentesco, lungi dal limitarsi a tracciare la vicenda psicologica di pochi protagonisti, come nei romanzi epistolari del Settecento (Richardson, Rousseau, Goethe, Foscolo), tendono a cogliere la dinamica sempre più complessa della società capitalistica, di descrivere il bene e il male, le azioni nobili e quelle più basse. Il più grande dei romanzieri europei dell’Ottocento, Honoré De Balzac, riproduce un mosaico di personaggi attinti dalla complessa realtà sociale, espone un inventario di vizi e virtù, la storia dei costumi di un’intera civiltà, sempre alla ricerca delle cause che determinano gli effetti sociali.
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