“ L’infinito” - G. Leopardi (primavera-autunno1819)
L’“infinito” di Leopardi è il primo dei sei idilli composti tra il 1819 e il 1821 e confluiti, insieme ad altre opere inedite, nella prima edizione dei “Canti” pubblicata a Firenze nel 1831. Una seconda edizione dei “Canti” modificata e ampliata uscì a Napoli nel 1835 ad opera dello stesso Leopardi e di Antonio Ranieri. Quest’ultimo, dopo la morte del poeta e secondo la sua volontà, nel 1845, curò l’edizione definitiva dei “Canti” costituita da 41 componimenti pubblicata a Firenze presso l’editore Le Monnier.
L’idillio leopardiano, a differenza degli idilli della tradizione classica, che consistevano in brevi componimenti ispirati alla vita campestre, è l’espressione di un’avventura interiore che nasce dalla contemplazione della natura: gli idilli leopardiani mostrano, infatti, un carattere intimo e riflessivo.
La lirica si articola in quattro sezioni : nella prima parte (vv 1-3) il poeta descrive con pochi tratti una sorta di scenografia, all’interno della quale egli introduce direttamente e “concretamente” il lettore grazie all’uso degli aggettivi dimostrativi questo e questa (quest’ermo colle, e questa siepe). Leopardi crea l’illusione teatrale che egli stia componendo la poesia proprio su “quest’ermo colle” e davanti a “questa siepe”, quasi si trattasse di una “presa diretta” del paesaggio e dello stesso atto creativo. La prima parte è essenzialmente descrittiva, poiché il Leopardi fa riferimento ad uno spazio fatto di immagini reali e concrete (il colle, la siepe).
La seconda parte dell’idillio (vv.4-8) inizia con la particella avversativa ma, al verso 4. L’avversativa ma, infatti introduce il nucleo tematico dell’idillio, riassumendo il contrasto tra la limitatezza della vista fisica e il potere sconfinato della visione interiore. Per il poeta inizia il processo di astrazione mentale: il pensiero immagina ciò che non vede, tutto ciò che esiste al di là dei limiti fisici imposti all’uomo dalla natura (la siepe e il colle). Egli è spinto a percepire l’infinità dello spazio oltre la siepe, una vastità tale fatta di silenzi e di quiete, tali da risultare difficilmente intelligibili per la mente di un uomo. L’idea dell’infinito non ha in Leopardi alcun valore mistico-religioso, né allude a una trascendenza metafisica ( esso è ontologicamente assimilato al non essere, al nulla): è una realtà che prende forma (io nel pensier mi fingo) nel pensiero nel poeta con straordinaria forza persuasiva, grazie alla capacità immaginativa che ne dilata i confini percettivi.Tali sensazioni sono ben espresse grazie all’utilizzo di un lessico ricercato e funzionale che si avvale di termini astratti (interminati spazi, sovrumani silenzi ).
La terza parte (vv.8-13) si apre, ancora una volta, con un’immagine concreta, cioè il fruscio delle piante scosse dal vento (…e come il vento odo stormir tra queste piante) che richiama il poeta dalla sua meditazione e lo spinge alla percezione dell’eternità, al confronto tra il tempo eterno e il tempo reale dell’uomo, che scorre inesorabilmente attraverso il ciclo delle stagioni.
Il silenzio assoluto e immobile degli spazi interminati costruiti dall’immaginazione è rotto improvvisamente dallo stormire del vento tra le fronde, con una notazione realistica che non riporta, tuttavia, a dimensione umane, ma consente, anzi, di percepire l’infinità dello spazio insieme all’infinità del tempo. Come l’infinità dello spazio era stata suscitata da una sensazione visiva (la siepe), così l’idea dell’infinità del tempo scaturisce da una sensazione uditiva ( e come il vento odo stormir tra queste piante). Il contrasto tra ciò che è vicino e ciò che è lontano, sia nello spazio che nel tempo, è ottenuto attraverso la contrapposizione dei dimostrativi “queste piante,, quello infinito silenzio, questa voce”, cioè tra ciò che è tangibile e presente (queste piante, questa voce), e ciò che invece appartiene all’astrazione infinita dello spazio e del tempo.
Nell’ultima parte della poesia (vv. 13-15), Leopardi esprime il sentimento di dolce turbamento che la coscienza prova dinanzi alla percezione dell’eternità e dell’universo infinito (e il naufragar m’è dolce in questo mare).
Gli elementi della natura, richiamati continuamente nella lirica attraverso la descrizione di immagini reali e concrete (il colle, la siepe, l’orizzonte, il vento tra le piante, il mare), concorrono a sottolineare la limitatezza della realtà umana dinanzi alla facoltà immaginativa e fantastica di ciascun uomo. Il tema dominante dell’ idillio è costituito proprio dal contrasto fra i limiti fisici della realtà materiale e la sconfinata capacità percettiva del pensiero e dell’immaginazione individuali.
Il Leopardi nell’”Infinito” si pone in un atteggiamento contemplativo. La contemplazione della natura in Leopardi è priva di implicazioni spiritualistiche o religiose, come accade spesso per i poeti romantici. Essa mira essenzialmente alla ricerca del “piacere” attraverso l’annullamento della coscienza che si dilata, e allo stesso tempo si diletta (…e il naufragar m’è dolce in questo mare) nella percezione di realtà fantastiche e indefinite. La chiave per la comprensione del testo risiede ancora nel gioco dei dimostrativi: sia il concetto di immensità che di mare sono accompagnati dall’aggettivo dimostrativo questa/questo, che indica vicinanza e presenza: si è dunque compiuto un rovesciamento della situazione iniziale, in cui gli oggetti reali e presenti (quest’ ermo colle e questa siepe) erano contrapposti a quello infinito silenzio, ossia alle dimensioni sovrumane aperte dalla facoltà immaginativa. Ormai i concetti di infinità e immensità sono del tutto acquisiti dal pensiero e dalla immaginazione del poeta. Tali concetti sono vivi e presenti (questa immensità, questo mare) proprio perché sentiti come parte integrante di una condizione psichica nella quale il pensiero (inteso come pensiero logicamente organizzato) e la coscienza dell’uomo si annullano e annegano (naufragano), sulla scia di una sensazione di allargamento e di dilatazione della coscienza individuale.
L’infinito in cui “naufraga” provvisoriamente il pensiero del poeta non designa una realtà trascendente, mistica o addirittura religiosa ( come alcune interpretazioni critiche, del tutto inadeguate, hanno voluto intendere), indica la dilatazione della coscienza percettiva che, nel farsi coscienza poetica, si trasfigura. Il naufragar è dolce, perché indica il prevalere della fantasia e della immaginazione poetica sui limiti angusti del pensiero razionale. L’immaginazione è per il poeta la più grande delle illusioni umane, perché consente di percepire realtà grandiose che sole possono procurare all’uomo sensazioni di felicità e di piacere assoluto. La lirica si pone sul piano privilegiato della “visione”, sia nel senso di puro atto del vedere, sia in quello di proiezione fantastica di immagini scaturite dalla facoltà rappresentativa del soggetto.
Seduto sulla cima di un colle (tradizionalmente identificato con il monte Tabor, che sorge poco fuori Recanati, non distante dal palazzo Leopardi) meta delle sue abituali passeggiate, davanti a una siepe che gli impedisce di vedere gran parte della linea dell’orizzonte, il poeta fa scattare una sorta di “vista interiore”, una “visione”, che gli permette di spaziare con l’immaginazione in dimensioni sconfinate, segnate da un silenzio e da una quiete che nulla hanno di umano: dimensioni sconfinate dello spazio, ma anche del tempo, poiché l’idea dell’infinito spaziale non può essere disgiunta dall’idea dell’infinito temporale, ossia dell’eternità.
L’immensità del Leopardi è un concetto che il debole pensiero umano non può controllare né comprendere in pieno: il pensiero può averne solo una sensazione indefinita e fantastica, che si traduce in un senso di spossato smarrimento, nel dolce naufragio dell’identità individuale in quel Nulla cosmico che custodisce le verità ultime dell’esistere e del morire.
ANALISI TECNICO FORMALE
Sul piano formale l’infinito è una lirica composta in endecasillabi sciolti (cioè non associati in schemi di rima).
• Da notare l’uso frequente di iterazioni foniche (allitterazioni), cioè la ripetizione dei suoni in /re/, /er/, /ar/, /or/ (sempre, caro, ermo, parte, orizzonte) e in /ol/, /el/, /ul/, /lu/ (colle, dell’ultimo, esclude) ai vv.1-3. Dal punto di vista fonico altre allitterazioni in /er/, /or/ /ur/, (pensier, per, cor, spaura) sono presenti ai vv.7-8; allitterazioni in /s/ (sedendo, spazi, sovrumani, silenzi, profondissima, si spaura) e in /p/ ( spazi, profondissima, pensier, per poco, spaura) ai vv. 4-8; allitterazioni in /st/ (stormir, queste, questa, stagioni) ai vv 9-12 che alludono onomatopeicamente al soffiare del vento tra le piante; infine, allitterazioni in /er/, /or/, /ar/ (l’eterno, morte, pensier, naufragar, mare) ai vv. 11-12 e vv.14-15. L’allitterazione in /ar/ dell’ultimo verso “il naufragar m’è dolce in questo mare” suscita una sensazione uditiva oltre che visiva, creando un raffinato effetto onomatopeico.
• Oltre alle numerose assonanze, il testo presenta figure metriche quali il troncamento (pensier, cor, stormir, sovvien pensier, naufragar), la dieresi (quiete) e incontri vocalici in sinalefe (sedendo e; mirando, interminati; quella, e; silenzi,e), espedienti che conferiscono alla lirica un andamento ritmico straordinariamente musicale e consentono una lettura scorrevole e piana.
• Al verso 8 l’importante cesura dopo la parola “spaura” vuole evidenziare come, dinanzi agli spazi illimitati immaginati dalla mente, in quel silenzio assoluto, il cuore del poeta provi sensazioni di profondo sgomento e smarrimento.
• Il ritmo della poesia appare rallentato grazie all’uso pressoché costante dell’ enjambement ( tanta parte /dell’ultimo orizzonte, interminati / spazi, sovrumani/ silenzi, vento/odo stormir, quello/infinito silenzio, voce/vo comparando, la presente/ e viva, questa/immensità,) che rallenta e dilata la cadenza ritmica, creando un senso di attesa e di sospensione .
• Da notare anche l’uso del polisindeto in e (e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei). Anche questo espediente stilistico ha lo scopo di rallentare il ritmo dei versi e trasmettere al lettore l’immagine di dilatazione spaziale e temporale.
• Importanti figure retoriche della lirica sono l’ossimoro al secondo verso (tanta parte) e al quindicesimo (questo mare); la similitudine (E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce/ vo comparando); la metafora ( s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare), la sinestesia (il naufragar m’è dolce in questo mare).
• L’aggettivo dimostrativo al verso 15 (questo) suggerisce l’idea di vicinanza e presenza, di una realtà vicina e tangibile per il poeta. Il sostantivo mare, al contrario, suggerisce l’infinita grandezza che la mente dell’uomo riesce a percepire dinanzi allo spettacolo della natura. L’espressione conclusiva “questo mare”, sta a sottolineare come il poeta abbia ormai pienamente raggiunto uno stato di totale fusione con l’universo: l’immensità e il mare sono presenti e vivi nella mente del poeta, sono percepiti come parte integrante dell’immaginazione poetica.
• Il linguaggio si avvale di un lessico ricercato e letterario, costruito con espressioni tipiche della tradizione letteraria e poetica ( ermo colle, ultimo orizzonte); sono presenti alcuni latinismi ( ultimo, mirando, quiete, mi fingo).
L’idillio si apre con la descrizione del luogo reale in cui il poeta si trova: il monte Tabor, non lontano dalla casa paterna, dove egli andava spesso a rifugiarsi. Non a caso il poeta utilizza l’avverbio “sempre” e il verbo al passato “fu” - unico verbo al passato di tutta la poesia ( “sempre caro mi fu quest’ermo colle”) - proprio a voler sottolineare l’antico affetto che lega il poeta a quel luogo e, più in generale, alla natura, intesa, ancora, qui, come una forza benigna, dispensatrice di dolci illusioni e fonte di consolazione per l’animo umano.
Anche il Leopardi, come il Foscolo, fa riferimento al nulla eterno. In Foscolo, il nulla eterno si identifica, alla luce del suo meccanicismo razionalista di stampo illuministico, con la morte e, dunque, con l’annullamento del tutto. Leopardi, invece, pervaso da una spiritualità di stampo romantico, è consapevole della inadeguatezza della ragione: il suo “nulla eterno” è una dimensione in cui la mente dell’uomo cerca di allargare a dismisura i propri confini per percepire delle verità supreme e assolute che altrimenti non riuscirebbe a comprendere.
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