mercoledì 2 dicembre 2015
G.Leopardi, LA GINESTRA o IL FIORE DEL DESERTO (1836). Bibliografia: V. De Caprio - S.Giovanardi, I testi della letteratura italiana, L'ottocento.
Composto nel 1836 a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, dove il poeta era ospite di parenti dell’amico Ranieri, il canto è tradizionalmente considerato il testamento spirituale del poeta, che gli attribuisce il valore di un’ideale conclusione della sua lunga e travagliata ricerca: è lo stesso Leopardi che chiede esplicitamente a Ranieri di collocare la composizione come ultimo dei Canti nella edizione definitiva. Riprendendo il filo tematico e metaforico del “deserto”, già presente nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” e poi approfondito in “Amore e morte” (seconda lirica del “Ciclo di Aspasia”), il poeta costruisce una lunga e complessa allegoria a partire dalla ginestra, “fiore del deserto”. Se in “Amore e morte”, senza la presenza fisica dell’amata, l’esistenza umana si trasforma in un arido deserto, qui la semplice e umile ginestra simboleggia la vita che sa resistere stoicamente all’inospitalità dell’ambiente, negazione di ogni vita, e diviene metafora del poeta stesso.
La sua inusitata ampiezza (317versi), il confluire in esso di tutti gli elementi della visione del mondo elaborata da Leopardi nell'ultima fase della sua esistenza (1824-37), la solennità dell'andamento stilistico, la stessa epigrafe tratta dal vangelo di Giovanni, sembrano conferire al canto l'aspetto definitivo ed estremo di quella “Lettera a un giovane del ventesimo secolo” che il poeta progettava fin dal 1827 e che non scrisse mai.
L’occasione della poesia è offerta dalla viva impressione suscitata in Leopardi dalla fioritura della ginestra sulle pendici del Vesuvio. Il fragile fiore, sbocciato sulla lava che nel 79 d. C. distrusse Pompei, Ercolano e Stabia, è polemicamente contrapposto allo sciocco orgoglio degli uomini dell’Ottocento (“secol superbo e sciocco”) e alla loro ridicola, nonché ingenua illusione di ritenersi padroni dell'universo, mentre basta un improvviso movimento tellurico per distruggere, in un attimo, un’intera civiltà. Di qui la polemica contro l'idealismo progressista (già espressa nella Palinodia al marchese Gino Capponi e ne I nuovi credenti, opere composte tra il 1835 e il 1836): in nome di una cieca e ottusa fiducia nella centralità dell'uomo (Antropocentrismo) e nella perfettibilità dell'universo, il secolo XIX avrebbe voltato le spalle alla linea di pensiero che dal Rinascimento aveva condotto alle conquiste civili del secolo dei lumi (la civiltà contemporanea è descritta sarcasticamente come trionfo dell’oscurantismo per i falsi miti del progresso e della religione) . Al contrario, il genere umano dovrebbe prendere coscienza della propria fragilità, dell'infima consistenza di quel granello di sabbia che è la Terra in confronto all'immensità dell'universo, e unire tutte le sue forze contro la Natura “matrigna”, ostile e indifferente, impegnata in un ciclo perenne di autoperpetuazione. Solo da una loro partecipe solidarietà nella sconfitta, gli uomini potranno creare ordinamenti civili, finalmente giusti. L’ impressionante rievocazione dell'eruzione vulcanica mira a confermare la miseria della condizione umana: ecco allora l'apprensione del viandante che scruta la vetta fumante de Vesuvio, e il panico della gente che, non appena sente gorgogliare l'acqua nel pozzo, afferra frettolosamente le proprie cose e fugge lontano per sottrarsi all'empia furia della natura eternamente rigogliosa e incurante delle misere fatiche degli uomini. Se la tenera ginestra, conclude il poeta, soccomberà prima o poi dinanzi alla forza del vulcano, lo farà secondo un destino naturale, altrettanto naturalmente accettato, senza servili sottomissioni, ma anche senza orgoglio di chi si giudica immortale, riponendo un’ingenua ed eccessiva fiducia nel progresso.
Il quadro delle problematiche disegnate dal canto ha dato adito alle più svariate interpretazioni e ai giudizi critici più contrastanti: svalutato da Benedetto Croce, in quanto prevalentemente “non poetico” per le ampie manifestazioni di “pensiero” che ne inficerebbero la purezza lirica, fu poi usato da Cesare Luporini nel saggio “Leopardi progressivo” (1947) come prova del progressismo del poeta, che avrebbe preconizzato una sorta di confederazione degli umili come unico possibile futuro per le istituzioni civili e pubbliche dell'umanità. In realtà, se anche vi si può cogliere qualche slancio di utopismo neoilluministico, Leopardi combatte, nella Ginestra, la pretesa umanistica di stabilire valori positivi per l’esistenza umana e per il suo destino sociale: l'errore del secolo XIX è consistito nel non tener conto dell'operazione distruttiva compiuta dall' Illuminismo delle verità negative che da quella scuola di pensiero sono emerse, mentre l’ “arido vero” rimane pur sempre l'assoluta e incontrovertibile verità della condizione umana.
Leopardi esprime, infine, l’appassionata difesa di una civiltà fondata sulla ragione come strumento interpretativo della realtà , e volta a perseguire l’unico progresso che cont, quello di una convivenza civile basata sulla giustizia e sulla solidarietà tra gli esseri umani. La poesia fu pubblicata nell'edizione postuma dei canti curata da Antonio Ranieri (Firenze,1845).
EVOLUZIONE DEL PENSIERO IN LEOPARDI – TERZA FASE (1824- 1837)
- Sarcasmo nei confronti delle illusioni dei contemporanei (“secol superbo e sciocco”)
- L’unica forma di moralità autentica consiste nell’accettare la condizione umana senza illusorii ottimismi, legittimità del desiderio di morte
- Importanza della dimensione sociale dell’essere umano: gli uomini devono essere solidali fra loro ed unirsi coraggiosamente contro la natura, nemico comune.
- Non più contrapposizioni, ma fusione tra Poesia e Filosofia
- La nuova poesia riflette sui grandi, universali temi della condizione umana, sulla morte e sulla infelicità assoluta
- Senso e funzione della poesia: indagare e comunicare agli uomini il “l’arido vero”.
(vv. 1-86)Qui sul fianco riarso del monte Vesuvio, tremendo annientatore, che nessun altro tipo di vegetazione rallegra, spargi i tuoi cespi solitari intorno, profumata ginestra, appagata dai deserti. Ti vidi anche un’altra volta adornare con i tuoi cespi le solitarie rovine che circondano la città che un tempo fu dominatrici di popoli (Roma), rovine che sembrano rendere al viandante, con il loro cupo e silenzioso aspetto, una testimonianza dell’antica potenza ormai perduta. Adesso torno a vedere in questo luogo te,o ginestra, che prediligi i luoghi tristi e abbandonati dalla gente, te che sei compagna di grandezze decadute. Questi campi cosparsi di ceneri sterili e ricoperti dalla lava solidificata, che risuona sotto i passi del viandante, dove si annida e si contorce al sole il serpente, e dove all’abituale tana sotterranea torna il coniglio;questi luoghi deserti furono un tempo villaggi prosperi e campi coltivati, e biondeggiarono di messi, e risuonarono di muggiti di mandrie; furono giardini e ville sontuose, che offrirono gradita ospitalità al riposo dei potenti; e furono città famose (Pompei, Ercolano, Stabia) che il Vesuvio, lanciando torrenti di lava dal cratere che erutta fuoco, seppellì insieme agli abitanti. Oggi le rovine avvolgono il paesaggio desolato dove tu solo dimori, o fiore gentile e, quasi rivelando compassione per le altrui sciagure, emani un profumo dolcissimo che sale verso il cielo e che consola questo luogo di desolazione. Chi ha l’abitudine di esaltare con stolido ottimismo la nostra condizione venga in queste campagne desolate e constati in che misura il genere umano stia a cuore alla natura che ci ama. E qui potrà anche giudicare opportunamente la potenza del genere umano, che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se lo aspetta, con una scossa impercettibile in parte distrugge in un momento e può con scosse un po’ più forti annientare del tutto. Su questi pendii sono rappresentate le sorti splendide e in continuo progresso dell’umanità (IRONIA).
Vieni a guardare e a verificare le tue certezze in questi luoghi, secolo stolto e superbo, che hai lasciato la via percorsa fino ad ora prima di te dal pensiero risorto con il Rinascimento e, volti i passi in opposta direzione, esalti il ritorno alle passate dottrine E chiami ciò progresso. Tutti gli intellettuali di cui il destino ingiusto ti rese padre esaltano il tuo ragionare infantile, benché, talvolta, nel loro intimo, ti scherniscano. Io non andrò sottoterra macchiato di una simile vergogna, ma avrò rilevato nel modo più esplicito il disprezzo che nutro verso di te, benché sia consapevole che chi non piacque ai propri contemporanei è destinato ad essere dimenticato: nonostante io sappia che dimenticare preme chi alla propria età increbbe troppo. Dell’essere dimenticato, che con te sarà comune, fin da questo momento assai mi rido. O secolo sciocco e superbo elabori progetti di libertà politica e civile e nel contempo assoggetti a dogmi irrazionali quel pensiero in virtù del quale soltanto risorgemmo in parte dalla barbarie medioevale e in nome del quale soltanto si avanza sulla strada della civiltà, la civiltà che sola rende migliore il destino della società. Non hai avuto la forza e il coraggio di accettare le conclusioni a cui era giunto il pensiero(il razionalismo illuministico), ossia che la natura ci ha assegnato una condizione dolorosa e infima nella gerarchia degli esseri. Per questo volgesti le spalle a quel pensiero filosofico che rese evidenti queste verità e, mentre fuggi, definisci vile chi segue queste dottrine (il materialismo illuministico) e, viceversa, chiami coraggioso colui che illudendo se stesso o gli altri, innalza, esaltandola, la condizione umana fino al cielo.
martedì 24 novembre 2015
LEOPARDI, LE OPERE IN PROSA: LO ZIBALDONE, L’EPISTOLARIO, LE OPERETTE MORALI, I PENSIERI.
Lo Zibaldone rappresenta una sorta di libro “parallelo” sul quale il poeta registrava quotidianamente il frutto delle sue riflessioni e dei suoi studi, nonché idee e figure, allo stato di abbozzo, della sua immaginazione poetica. Lo Zibaldone, dunque, costituisce un brogliaccio, una raccolta di appunti, una sorta di diario, di “colloquio con me stesso”, come lo definì il poeta, scritto dal Leopardi tra il 1817-1832. Il primo passo datato risale all’ 8 gennaio 1820, l’ultimo al 4 dicembre 1832. Lo Zibaldone appare una miniera preziosa di pensieri diversi che contengono in germe gli spunti tematici della maggior parte dei canti leopardiani; esso rappresenta un aspetto fondamentale e insostituibile di un incessante movimento di pensiero che poteva di volta in volta esprimersi nella forma sbrigativa dell’appunto “a penna corrente” o in quella elaborata e compiuta delle poesie e delle prose. Si può affermare che il Leopardi con lo Zibaldone abbia creato l’immenso repertorio meditativo dal quale avrebbe poi costantemente attinto una serie di “cellule” tematiche da sottoporre a un processo di formalizzazione letteraria. Si tratta dunque di un libro parallelo, che segue passo passo, come repertorio tematico e linguistico, la stesura delle opere vere e proprie e che risulta perciò di fondamentale importanza per comprendere i tempi e i modi della loro elaborazione: non a caso potremmo definire lo Zibaldone il “sottotesto” dei Canti.
Il materiale dello Zibaldone arrivò ad occupare 4526 pagine, secondo la testimonianza dell’amico De Sinner; Il termine “Zibaldone”, che significa “mescolanza confusa di cose diverse”, fu utilizzato dallo stesso poeta allorché compilò un indice analitico degli argomenti contenuti in quei quaderni, che intitolò “Indice del mio Zibaldone di pensieri”. L’indice analitico,che richiese tre mesi di lavoro da parte del poeta, serviva al Leopardi per orientarsi nell’immensa selva da lui stesso costruita.
Lo Zibaldone fu pubblicato per la prima volta postumo, in 7 volumi, tra il 1798 e il 1900 in occasione del primo centenario della nascita del poeta, per decisione di una commissione governativa presieduta da Giosuè Carducci. Fu dato alle stampe con il titolo “ Pensieri da varia filosofia e di bella Letteratura”. Il Titolo Zibaldone comparve nelle edizioni successive.
L’EPISTOLARIO
L’epistolario del Leopardi è molto ricco: si compone, infatti di circa mille lettere composte tra il 1815 (Recanati) e il 1837 ( Napoli) che fanno a costituire quello che lo storico della letteratura Gianfranco Contini ha definito come uno “ fra i più bei libri della letteratura italiana”. . Rivolte soprattutto ad amici intellettuali e ai familiari (il padre Monaldo, i fratelli Carlo Carlo e Paolina), le lettere costituiscono una preziosa testimonianza non solo sugli eventi biografici del poeta, ma anche sugli sviluppi delle sue posizioni concettuali, della sua polemica, delle sue condizioni psichiche, delle sue scelte politico-culturali. L’Epistolario del Leopardi, non concepito per una sua pubblicazione, rappresenta un perfetto modello di stile colloquiale, costruito con una naturalezza che ben si adegua alla profonda sincerità di quanto viene espresso. L’edizione completa dell’Epistolario leopardiano uscì per la prima volta, in sette volumi, tra il 1934 e il 1941.
LE OPERETTE MORALI
Le Operette morali sono una raccolta di 24 prose, la maggior parte di esse composte nel 1824 (gennaio-novembre) sotto forma di dialoghi satirici sul modello dei pungenti dialoghi di Luciano di Samosata (scrittore greco del II sec. d. C). In generale, oltre alla forma dialogica predominante, sono presenti operette in forma narrativa, altre ancora in forma narrativa e dialogica insieme. Furono pubblicate per la prima volta in un volume dal titolo Operette morali nel 1827, presso l’editore Stella di Milano. La terza edizione definitiva, uscita postuma nel 1845 e più estesa rispetto alle due precedenti, fu curata dall’amico del poeta, Antonio Ranieri, essa comprendeva 24 testi.
Per il breve lasso di tempo entro il quale vennero redatte, le Operette morali appaiono nel complesso unitarie, sia sul piano tematico che sul piano stilistico: la scrittura è plasmata sul modello classico della prosa greca, ma allo stesso tempo appare innovativa sia per il lessico utilizzato che per lo stile. Gli argomenti affrontati nelle Operette morali delineano ampiamente il vasto orizzonte del pessimismo leopardiano, che include le riflessioni sulla felicità e l’infelicità dell’uomo, sulla meccanica ostilità della natura, sulle vacue ideologie del secolo XIX, sui puerili errori dell’antropocentrismo.
Il critico letterario Giovanni Gentile ha voluto vedere nelle Operette morali lo svolgimento organico del pensiero filosofico del Leopardi, dalla constatazione degli aspetti negativi della vita della vita alla accettazione coraggiosa e virile di essa. A Questa tesi, si sovrappone quella più interessante che parla di unità sostanzialmente estetica, fondata su uno stile misto di ironia, umorismo, pietà per la presunzione di grandezza degli uomini del suo tempo, animati da filosofie spiritualistiche ed idealistiche.
Sul piano letterario le Operette morali hanno un intento poetico. Tuttavia l’intenzionale poesia è talvolta insidiata dalla riflessione filosofica, da richiami eruditi e mitologici, da allegorie e personificazioni. Le migliori Operette risultano essere pertanto quelle in cui la riflessione filosofica e l’erudizione letteraria lasciano il predominio al sentimento e alla libertà espressiva.
I PENSIERI
I Pensieri furono preparati dal Leopardi negli ultimi anni della sua vita e pubblicati postumi da Antonio Ranieri. Sono 111 ed esprimono in forma concisa e lapidaria le considerazioni pessimistiche del poeta.
LO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA LEOPARDIANA : I CANTI (Firenze 1831; Napoli 1835; Firenze 1845)
NELLO SVOLGIMENTO DELLA LIRICA LEOPARDIANA SI DISTINGUONO QUATTRO PERIODI:
1° il periodo delle poesie giovanili, scritte anteriormente al 1818;
2° il periodo delle canzoni civili e filosofiche e dei piccoli idilli, cha va dal 1828 al 1823;
3° il periodo della composizione dei grandi idilli, che va dal 1828 al 1830;
4° il periodo della composizione del ciclo di Aspasia e del soggiorno a Napoli, che va dal 1831 al 1837.
A. IL PRIMO PERIODO (1818)
Comprende i versi scritti dal Leopardi adolescente, anteriormente al 1818. Delle poesie scritte in questo periodo le più importanti sono incluse nei Canti: L'Appressamento della morte (1816) e due elegie, Elegia prima ( che nell'edizione dei Canti del 1831 è presentata col titolo Il primo amore), ed Elegia seconda, ambedue composte tra il 1817 e il 1818. Nell'edizione definitiva napoletana dei Canti del 1835 il Leopardi incluse soltanto l' Elegia seconda.
Nell'Appressamento della morte il Leopardi, preso dal presentimento della morte,esprime il dolore di dover morire così giovane e di dover rinunciare alle sue dolci illusioni, soprattutto a quella della gloria.
Le due elegie narrano la storia del suo amore, tutto intimo e segreto, per la cugina del padre Gertrude Cassi-Lazzari, giunta da Pesaro per accompagnare la figlia in un convento di suore ed ospite per tre giorni del Leopardi. Le poesie giovanili hanno un modesto valore poetico. Dal punto di vista formale, appaiono letterariamente elaborate e retoriche risentendo, forse eccessivamente, dell'imitazione dei poeti antichi e moderni, soprattutto dall'Arcadia e di Vincenzo Monti; sul piano del contenuto sono scopertamente autobiografiche, sentimentali e patetiche. Esse rivelano il primo dei limiti che insidia talvolta la purezza della poesia leopardiana, anche degli inni migliori: l'effusione eccessiva sentimentale e malinconica.
L'altro limite, che appare più tardi, è la riflessione filosofica che tuttavia, se da una parte raffredda l'ispirazione dei canti migliori, essa ha il potere e il merito di elevare su un piano universale la poesia del Leopardi, liberandola dalla forte componente autobiografica. La riflessione filosofica fa sì che l'infelicità del poeta, di fronte al mistero dell'universo, si tramuti in infelicità, angoscia e solitudine di tutti gli uomini. Anche quando il Leopardi, nella fase della maturità artistica (La ginestra), assume l'atteggiamento titanico di sfida al destino, noi avvertiamo in esso la dignitosa e stoica accettazione da parte del poeta di un destino universale di dolore, piuttosto che l'atteggiamento romantico dell'individuo-eroe, che si eleva sulla massa degli uomini comuni.
B. IL SECONDO PERIODO (1818 al 1823)
I motivi autobiografici, sentimentali e talvolta patetici scompaiono nelle canzoni civili e filosofiche, che appartengono, insieme ai piccoli idilli, al secondo periodo dello svolgimento della lirica leopardiana, periodo che si svolge dal 1818 al 1823.
Le canzoni civili sono così chiamate perché presentano un’ ispirazione patriottica e oratoria, volta ad ispirare negli Italiani l'amor di patria e il ricordo di un passato di antiche glorie. Esse sono cinque: All'Italia, Sopra il monumento di Dante, Ad Angelo Mai, Nelle nozze della sorella Paolina, Ad un vincitore nel gioco del pallone. Presentano tutte un identico schema, che resterà poi caratteristico della poesia leopardiana. In esse l’occasione è sempre offerta da una circostanza di cronaca (i soldati italiani morti nella campagna di Russia, per la canzone All'Italia; il monumento di Dante che si preparava a Firenze; la scoperta del De republica di Cicerone ad opera del Cardinale Angelo Mai; le nozze imminenti della sorella Paolina- esse poi non avvennero più per la rottura del fidanzamento -; la vittoria sportiva del recanatese Carlo Didimi), ma mirano ad esprimere la condanna del presente e la nostalgia del passato. Le canzoni civili rappresentano da un lato il frutto dell'amicizia col Giordani, di idee liberali, e della cosiddetta "conversione" politica del Leopardi, dall'altro, sono l'espressione della sensibilità romantica del poeta, il quale, soffocato dall'angustia e dalla meschinità delle vicende storiche contemporanee, vuole sopraelevarsi da esse trasferendosi idealmente nel passato, in un mondo storicamente remoto, eroico ed esemplare.
In un primo momento questo passato si identifica per il Leopardi nell’età classica, l’età degli eroi greci e romani, le cui virtù morali e civili il poeta addita, come esempio ed incitamento, agli Italiani degeneri del suo tempo. Ma, a poco a poco, anche questo passati di virtù e di eroismo si offusca, perché il Leopardi vi proietta la sua tristezza e il suo dolore, scoprendo anche nel passato la vanità delle illusioni e il sentimento della umana infelicità. In tal modo, l’ideale esplorazione del mondo classico, iniziato con l’ammirazione e la nostalgia delle virtù eroiche degli antichi, si conclude col cupo pessimismo delle due canzoni filosofiche, il Bruto minore e l’Ultimo canto di Saffo (dette anche le ‘’canzoni del suicidio’’), in cui i due suicidi, Bruto e Saffo, appaiono le vittime della tragica condizione dell’uomo: il passato della Grecia e di Roma ha ormai perduto agli occhi del Leopardi la sua esemplarità e viene assorbito nel comune destino di dolore del genere umano.
Deluso quindi dall’età classica per effetto della proiezione del suo pessimismo nel passato, il Leopardi si rifugia idealmente in un’età ancor più remota, al tempo dei primordi del genere umano, anteriore alla amara scoperta della ragione. Nasce così la canzone Alla primavera, che evoca idealmente la primavera del genere umano, allorché la natura era madre benigna e pia dispensatrice di felicità e di illusioni agli uomini. Nell’Inno ai patriarchi, questo mitico periodo di felicità è portato al mondo biblico di Abramo e dei primi padri, quasi per dire che essa non è mai esistita e che gli uomini sono stati sempre e dovunque infelici. L’ultima canzone di questa fase, Alla sua donna, rispecchia nel contenuto il cosiddetto pessimismo cosmico col quale il Leopardi conclude la sua ideale esplorazione della storia umana, tracciata nelle canzoni civili e filosofiche. Il Leopardi vi esprime la vanità della più cara delle illusioni, quella dell’amore. Nella canzone non è rappresentata una donna reale,bensì l’immagine consolatrice della “donna che non si trova”, come scrisse il Leopardi: è la donna dell’immaginazione e della fantasia. Se una donna simile a quella sognata esistesse realmente, chi l’amasse sarebbe felice e si sentirebbe incitato a seguire la gloria e la virtù, e vivrebbe una vita divina, il che andrebbe contro le disposizioni del fato che ha destinato l’uomo all’infelicità.
A questo svolgimento di contenuto della lirica leopardiana – dal vagheggiamento del passato, nella ricerca della felicità, al riassorbimento di tutto il passato nel dolore universale – corrisponde un analogo svolgimento della forma. Se infatti, nel complesso, le canzoni civili e filosofiche sono letterariamente assai elaborate, appesantite da elementi retorici, intellettualistici, eruditi, da una sintassi complessa, da un linguaggio ricercato e classicheggiante – è questa la <
Questa purificazione della forma è già in atto in un gruppo di liriche, che i critici sogliono chiamare i primi idilli o I PICCOLI IDILLI, per distinguerli dai grandi idilli, scritti dal Leopardi nel periodo più felice della sua ispirazione poetica (dal 1828 al 1830).
Etimologicamente idillio significa in greco “piccola immagine”. In sede letteraria il termina venne usato per indicare un piccolo quadro di vita, un componimento breve, di argomento per lo più pastorale o agreste, ma anche cittadino, di intonazione realistica. Autorevoli rappresentanti di questo genere letterario, l’idillio furono i poeti greci Bione di Smirne, Mosco e soprattutto Teocrito. Ma l’idillio leopardiano è del tutto diverso dagli idilli della tradizione letteraria. Infatti, mentre l’idillio tradizionale ha carattere realistico ed oggettivo, perché ritrae la vita dei pastori o dialoghi fra cittadini, quello leopardiano assume anche un carattere soggettivo, personale, interiore. Il leopardi stesso definì i suoi idilli “situazioni, affezioni, avventure storiche (cioè sentimenti vissuti in un dato momento) dello spirito”, suscitate dalla contemplazione della natura, che così offre lo spunto o alla introspezione, e alla meditazione del poeta, o alla rievocazione del passato e delle illusioni giovanili.
I piccoli Idilli sono: 1)La sera del dì di festa; 2)L’infinito; 3)Alla luna; 4)Il sogno;5)La vita solitaria; 6)Il frammento Odi, Melisso, pubblicato col titolo Lo spavento notturno. Essi costituiscono il primo tentativo leopardiano di una poesia pura – immune cioè da elementi intellettualistici, eruditi, retorici, o da intenzioni didascaliche e oratorie- ed espressione ingenua, semplice, limpida ed essenziale del sentimento.
Dal 1823 ai primi mesi del 1828, il Leopardi non scrisse poesie, se si eccettua l’Epistola al conte Carlo Pepoli(1826), in endecasillabi sciolti che espone aridamente le sue convinzioni filosofiche. Durante questi anni egli scrive però, in prosa, le Operette morali, che hanno una grande importanza, come abbiamo detto, nello svolgimento del suo pensiero e della sua poesia in quanto segnano il passaggio dal pessimismo personale e soggettivo al pessimismo cosmico. Il Leopardi in esse medita non più sulle proprie dolorose vicende, ma sul dolore come patrimonio comune, eterno, irrimediabile di tutti gli esseri viventi, acquistando via via, attraverso questa certezza, una nuova condizione spirituale, più distaccata e quasi serena. In questa nuova condizione spirituale matura la poesia dei grandi idilli.
C. IL TERZO PERIODO (1828 -1830)
Fu nell’aprile del 1828, nel periodo felice del soggiorno a Pisa, che nel cuore del Leopardi si risvegliò la poesia. Lo stesso Leopardi fu così consapevole del suo nuovo stato di grazia poetica da annunziare subito alla sorella Paolina di aver scritto nei versi “con il cuore di una volta”. Egli descrive il nuovo stato d’animo nelle agili strofe metastasiane del Risorgimento, in cui parla del ritorno di quei sentimenti che giù un tempo lo avevano ispirato.
Il Risorgimento apre, dunque, il nuovo ciclo dell’attività poetica del Leopardi, che si conclude nel 1830 e che comprende la composizione dei GRANDI IDILLI: 1) A Silvia; 2) Le Ricordanze; 3) La quiete dopo la tempesta; 4) Il sabato del villaggio; 5)Il passero solitario; 6 )Il canto notturno di un pastore errante nell’Asia.
La struttura dei grandi idilli è analoga a quella dei piccoli idilli. Dal particolare realistico, con trapassi spontanei e naturali, la poesia si eleva alla rappresentazione del mistero e del dolore universale. Il contenuto universale dei grandi idilli è il risultato della meditazione filosofica delle Operette morali, che ha operato da filtro purificatore del sentimento leopardiano, liberandolo dagli elementi strettamente autobiografici, storici ed eruditi e trasformando il dramma individuale del poeta in dramma cosmico, coinvolgente l’universo intero.
Il confronto tra La Sera del dì di festa, che appartiene ai piccoli idilli, e il Canto notturno è particolarmente significativo: tra l’uno e l’altro è passato il travaglio filosofico delle Operette morali. Nella Sera del dì di festa la meditazione del poeta verte sul suo dramma individuale di innamorato ignorato; poi, stimolata dal canto solitario dell’artigiano, risale al ricordo storico dell’impero romano, travolto dall’infinito scorrere del tempo, il che suggerisce al Leopardi il senso della vanità delle cose umane.
Nel Canto notturno il Leopardi trascende del tutto le esperienze personali e i ricordi storici; egli contempla l’universo intero, di cui coglie con stupenda immediatezza il senso dell’infinito e del mistero.
L’importanza dei grandi idilli non consiste solo nel loro contenuto universale, ma soprattutto nella felice attuazione di quella lirica pura, intesa come voce del cuore, che il Leopardi era venuto elaborando nella sua poetica. Ad attuare tale lirica concorrono, oltre al contenuto tutto rievocativo e sentimentale, immune cioè da elementi allotri, filosofici, polemici, storici, eruditi e letterari, anche la varietà e la libertà delle forme metriche (la canzone leopardiana assume pertanto una struttura lontanissima da quella petrarchesca) ed il linguaggio vago, indefinito, suggestivo, vibrante di risonanze interiori, quale il Leopardi aveva teorizzato nella sua poetica.
Una caratteristica di questo linguaggio è che le forme lessicali e le strutture sintattiche sono assunte dal linguaggio colloquiale, impreziosite soltanto, qua e là, di qualche elemento della tradizione colta, fusi insieme nel ritmo libero e vario dei versi, creano un’armonia indimenticabile, vaga e suggestiva, tipicamente leopardiana.
D. IL QUARTO PERIODO (1831 al 1837)
Comprende le poesie del ciclo di Aspasia e quelle del periodo napoletano: va quindi dal 1831 al 1837, l’anno della morte del poeta. Esse sono generalmente svalutate dalla tradizionale critica letteraria per la loro eccessiva elaborazione letteraria o la presenza di elementi filosofici, polemici, sarcastici. Anche Francesco De Sanctis (Morra Irpina, 1817 – Napoli 1883; scrittore, critico letterario, politico, Ministro della Pubblica Istruzione) vi aveva notato “un filosofare troppo scoperto”, il segno del “morire della poesia nell’anima del Leopardi”. La critica storicistica, invece, per merito soprattutto di Walter Binni (Perugia, 1913 – Roma 1997 critico letterario, storico e antifascista italiano ) autore di un celebre saggio intitolato “La nuova poetica leopardiana”, la considera come l’espressione di una svolta della lirica leopardiana, l’espressione di una nuova poetica, la “poetica dell’anti-idillio”, diversa dalla più nota “poetica dell’idillio” . La poetica dell’idillio era incentrata sulle rimembranze, sulla rievocazione cioè del passato, della giovinezza perduta e della felicità sognata, fatta in tono sentimentale e malinconico, idillico, dandoci il profilo di un Leopardi assorto e nostalgico. Le liriche, invece, dell’ultimo periodo ci presentano un Leopardi diverso, aspro, ironico, energico e polemico, che non rievoca più malinconicamente il passato, ma si pone di fronte al destino in atteggiamento prometeico di sfida, fatto di fierezza e di dignità. Un Leopardi, insomma, che accetta titanicamente e stoicamente il proprio destino, che è quello di universale dolore e che torna ad essere, come nelle canzoni civili e filosofiche, maestro e apostolo di certezze e di verità. Un Leopardi che lancia agli uomini un invito alla fratellanza e alla solidarietà, per vincere il dolore e l’infelicità (nella Ginestra). Le poesie dell’ultimo comprendono innanzitutto cinque canti ispirati all’amore infelici di Leopardi per la signora Fanny Targioni-Tozzetti durante l’ultimo soggiorno fiorentino. Essi sono: Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia. I primi tre rappresentano l’ebbrezza del sentimento amoroso; A se stesso rappresenta la caduta dell’illusione; Aspasia, composta a Napoli, rappresenta la vendetta del poeta contro la donna che lo ha deluso. Aspasia era una cortigiana di Mileto che, giunta ad Atene, era divenuta amante e poi moglie di Pericle (metà del V sec. a.C.). Aspasia è la signora Fanny Targioni-Tozzetti, che il Leopardi chiama così, per essere stata adescatrice scaltra e maligna del poeta. Altre poesie dell’ultimo periodo sono: la Palinodìa (ritrattazione) diretta al marchese Gino Capponi, in cui Leopardi finge ironicamente di ritrattare i suoi principi pessimistici e di accettare la teoria del progresso; I nuovi credenti, in cui polemizza contro le nuove correnti spiritualistiche del secolo; i Paralipòmeni della Batracomiomachìa, ossia aggiunte al poemetto attribuito ad Omero intitolato Batracomiomachia, battaglia delle rane e dei topi. In essi Leopardi schernisce i moti liberali napoletani del ’20 e del ’21. Ma le migliori poesie del periodo napoletano sono La ginestra o il Fiore del deserto e Il tramonto della luna.
La Ginestra è variamente giudicata dai critici.
Walter Binni l’ha definita “una sinfonia eroica”: il capolavoro della poetica del cosiddetto anti-idillio, che ispirò l’ultimo periodo della lirica leopardiana. Anche la critica marxista la giudica positivamente, per il forte messaggio sociale in essa contenuto: Leopardi si rivolge agli uomini invitandoli alla costruzione di una catena umana di solidarietà, per la costruzione di un nuovo mondo. La critica di Benedetto Croce (Pescasseroli 1866 – Napoli 1952; filosofo, storico, scrittore e politico italiano) invece, e quella storicistica, pur apprezzando la novità del messaggio sociale, giudicano la ginestra notevole per l’abilità letteraria con cui è condotta, ma debole dal punto di vista strettamente poetico. In essa, infatti, coesistono confusamente elementi diversi – idillici, filosofici, storici, polemici, satirici, oratori – più giustapposti che fusi in armonica unità. Lo spinto iniziale, come negli Idilli, è dato da un particolare realistico, l’osservazione della ginestra che con i suoi cespi fioriti riveste il fianco del Vesuvio, simbolo della potenza distruttrice della natura. Dall’osservazione del particolare, il poeta passa alla meditazione dell’universale condizione di fragilità e di dolore della natura umana. La critica crociana e quella storicistica considerano Il tramonto della luna la migliore creazione dell’ultimo periodo della lirica leopardiana. Nuoce certamente al canto il lungo paragone iniziale che si distende per ben trentatré dei sessantotto versi che lo compongono: come nella notte la luna tramonta, lasciando il mondo nell’oscurità, così la giovinezza abbandona l’uomo, lasciandolo senza più illusioni e speranze. Ma, nonostante questo limite, il canto rinnova l’andamento lirico e la purezza dei migliori idilli leopardiani.
EI TEMATICI PRESENTI NELLA LIRICA DEL LEOPARDI ( BIBLIOGRAFIA : V. De Caprio- S.Giovanardi, Itesti della letteratura italiana, L’Ottocento, Einaudi Scuola; Appunti docente).
Rilevante è l’idea leopardiana della CLASSICITA, espressa nel modo più compiuto nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818) Il poeta ha un’immagine idealizzata della classicità, considerata l’età della “primavera del genere umano” in cui l’uomo alla stregua degli animali e delle piante, si sentiva parte integrante di un sistema di fenomeni naturali dominato dal ciclo delle stagioni e dalle variazioni del clima. Gli antichi divengono per Leopardi il simbolo di una condizione armoniosa che è stata irrimediabilmente perduta nel momento in cui il legame tra individuo e natura è stato intaccato dall’avvento della religione cristiana e del razionalismo scientista che hanno rafforzato il senso di superiorità e alterità dell’uomo rispetto al resto del creato, inducendo negli individui un a stolida superbia. Scomparse le dolci illusioni dell’antichità classica, occorre ora, secondo Leopardi, sgombrare il campo dalle superbe e vane illusioni antropocentriche, come l’immortalità dell’anima, il progresso, la felicità, la ricchezza, il potere e la gloria. L’atteggiamento polemico del poeta riguardo al desiderio di gloria da parte dell’uomo poggia su due essenziali premesse: da una parte la collocazione periferica e in fondo irrilevante dell’uomo nell’universo, dall’altra la sua incapacità di prenderne atto.
La proposta del Leopardi resa esplicita nella Ginestra, ma preparata da numerose riflessione nello Zibaldone, è in proposito piuttosto chiara: poiché è impossibile un ritorno alle “favole antiche”, l’uomo contemporaneo dovrebbe anzitutto rendersi pienamente consapevole del suo stato di vittima del sistema naturale e quindi liberarsi di tutti gli inganni perpetrati dall’intelletto per nascondere quell’unica e incontrovertibile verità. Soltanto dopo aver acquisito tale consapevolezza l’uomo potrà sviluppare quella solidarietà che nasce tra le vittime di una stessa tragedia, eliminando le lotte fra uomo e uomo e concentrando tutte le energie contro le avversità cui esso è fatalmente esposto.
Al contrario, la storia umana è caratterizzata, a giudizio del Leopardi, da un progressivo accumularsi di errori e di inganni, che hanno raggiunto il loro culmine nel secolo XIX. L’odio per la propria epoca è infatti in Leopardi vivissimo e profondamente radicato. Le correnti di pensiero del progressismo idealista di marca liberale e dello spiritualismo cattolico (ambedue ampiamente rappresentate all’interno del movimento romantico) furono violentemente attaccate dal poeta sia nelle sue opere satiriche ( Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti, Paralipomeni della batracomiomachia), sia in alcuni passi di poesia e prosa di varia natura: Il pensiero dominante, La ginestra, Il dialogo di Tristano e di un amico.
Riguardo all’atteggiamento negativo di Leopardi nei confronti della propria epoca e, più in generale, al suo pessimismo, si è soliti distinguere due fasi. Nella prima fase, che va all’incirca dal 1817 al 1821 ed è detta del “pessimismo storico”, la natura viene considerata una sorgente di energia vitale e di consolanti illusioni, mentre i mali della dell’umanità vengono ricondotti al processo di corruzione indotto dalla civilizzazione. Questa concezione è legata al periodo “idillico”, che ha ispirato a Leopardi alcune tra le più belle e toccanti figurazioni paesistiche della nostra letteratura: descrizioni da “età dell’oro”, pervase da una quasi mitica serenità, che attraverso la “gran varietà delle illusioni” consolano l’uomo celandogli benevolmente la “vanità delle cose”.
Nella seconda fase (che appare già definita nel 1824 con le Operette morali), sulla scorta degli studi degli illuministi francesi e in particolare di Voltaire e di D’Holbach, Leopardi perviene a una visione meccanicistica dell’universo naturale, visto ora come un sistema che tende all’autoperpetuazione,, in un ciclo di produzione e distruzione del tutto insensibile alle sofferenze umane. Questa concezione, detta del “pessimismo cosmico”, conduce Leopardi ad attribuire alla natura una intrinseca malignità, e viene espressa, nel modo più chiaro e definitivo, nell’operetta Dialogo della Natura e di un Islandese. Tracce di una considerazione negativa della natura sono peraltro riscontrabili già in alcuni passi della Sera del dì di festa, idillio scritto nel 1820-1821 (“e l’antica natura onnipossente / che mi fece all’affanno”) e in alcuni brani dello Zibaldone degli anni 1817-1820. Tuttavia, in questo caso, Leopardi avverte la crudeltà della natura soprattutto come causa di sofferenza individuale (simboleggiata per esempio dalla deformità di Saffo) e non come fonte di dolore universale.
Insofferente verso l’idealismo e lo spiritualismo, Leopardi riprende dalle concezioni sensiste di matrice illuministica non solo l’idea meccanicistica della natura, ma anche il concetto secondo cui la molla principale dell’attività umana è la ricerca del piacere (la “teoria del piacere” è messa a punto per la prima volta in una ventina di pagine dello Zibaldone datate 12-23 luglio). Secondo il poeta, però, quel desiderio è
impossibile da soddisfare essendo per sua natura infinito; avrebbe bisogno infatti di un piacere altrettanto infinito. Ma poiché questo non esiste se non nell’immaginazione, la soddisfazione di un desiderio è qualcosa che pertiene non al reale, bensì all’immaginario: il piacere, dunque, non è che immaginazione del piacere stesso, attesa indefinita di un’acquisizione che non avverrà mai.
La mancata soddisfazione del desiderio nella realtà produce dolore e pena, che possono essere alleviati solo fuggendo dalla realtà stessa, attraverso le fantasticherie e il sonno. Piacere e realtà sono insomma per leopardi due princìpi incompatibili. Dal momento che la sua formazione illuministica gli impediva di mettere in dubbio il principio di realtà, era inevitabilmente il piacere ad essere destituito di ogni sostanza autonoma: infatti, “il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario” (Zibaldone, 19 aprile 1824).
Ciò che noi chiamiamo piacere è dunque in realtà o l’attesa di un irraggiungibile piacere futuro, o la momentanea cessazione o attenuazione del dolore. Tale posizione risulta chiaramente espressa nei canti La quiete dopo la tempesta e Il sabato del villaggio, oltre che in molte delle Operette morali (si veda soprattutto il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare).
Il dolore e l’attesa del piacere, in quanto poli su cui si concentra ogni moto dell’animo, sono comunque segno di energia vitale ; ben più temibile per Leopardi è la noia, che subentra ad occupare i “vuoti” causati dalla momentanea assenza di ambedue e che determina uno “stato d’indifferenza e senza passione”. La vita dell’uomo oscilla perciò tra il desiderio sempre deluso del piacere, il dolore che ne consegue e la noia. Si tratta di idee singolarmente vicine a quelle espresse dal filosofo tedesco Arthur Shopenhauer (1788-1860) nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), ma il nome di Shopenhauer non ricorre mai nello Zibaldone, ed è quindi assai probabile che Leopardi non lo conoscesse affatto. Il tema della noia è centrale nell’operetta morale Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, nonché nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
A partire dal 1823 “la teoria del piacere” assume punte ancor più radicali: il piacere viene infatti identificato nello Zibaldone con “una privazione o una depressione di sentimento”, e giunge ad essere definito “quasi un’imitazione dell’insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita e alla privazione di essa, perché la vita per sua natura è dolore”; è questa l’ultima tappa di un itinerario di pensiero lucidamente negativo, che trova nel canto A se stesso la sua espressione poetica più sintetica e incisiva.
Un posto di rilievo nelle considerazioni leopardiane sul piacere è occupato dal motivo dei ricordi e della memoria, un terreno che, sfuggendo in apparenza alle leggi del desiderio, sembra proporsi, almeno in una prima fase, come una forma alternativa di piacere. È questa infatti la posizione espressa negli anni 1819-1820, e in particolare nel canto Alla luna: il ricordo di una condizione trascorsa è di per sé piacevole, anche se la condizione ricordata è dolorosa. La memoria, in altri termini, produrrebbe uno stato d’animo contemplativo e malinconico, fatto di sensazioni il più delle volte indefinite e vaghe, che provoca nell’animo una forma particolare di “diletto”. Il diletto è poi tanto maggiore quanto più lontano (e quindi più indefinito) è il ricordo, sicché le memorie più piacevoli risultano quelle dell’infanzia e della prima adolescenza.
La condizione umana oscilla all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA. Più che un piacere puro, tuttavia, quella offerta della memoria è una sorta di provvisoria consolazione, che non intacca il predominio del dolore e della noia su cui si fonda l’esistenza. Tanto è vero che in un secondo momento, all’altezza dei “canti recanatesi” del 1829, anche tale consolazione sembra venir meno al poeta: nell’ultima strofa del canto Le ricordanze l’evocazione dell’innamoramento adolescenziale per Nerina non ha più nulla di piacevole; al contrario essa si colora di un’acuta disperazione per il tempo irrimediabilmente trascorso, per cui il ricordo non può essere che “rimembranza acerba”. E su tale definitiva constatazione si consuma del tutto la disposizione “idillica” del poeta.
IL LEOPARDI PUÒ ESSERE DEFINITO IL PRIMO INTELLETTUALE “MODERNO” DELLA LETTERATURA ITALIANA
per il suo atteggiamento critico di fronte alla realtà, per il rifiuto di ogni facile consolazione di natura idealistica o spiritualistica, per la elaborazione di
• un concetto di “verità” negativa: il “vero” di A Silvia, l’”arido vero” che ricorre spesso nelle
Operette Morali, “acerbo vero” dell’epistola Al conte Carlo Pepoli si identifica con una realtà di morte
e di dolore, con i “ciechi destini” dell’universo, con tutto ciò che resta incompreso o viene rimosso dal senso comune e dal desiderio di felicità degli uomini: la verità è per il Leopardi una verità rigorosamente negativa, che funziona da deterrente nei confronti di qualsiasi valore positivo proposto dall’esistenza e dall’istinto di sopravvivenza del genere umano. La forza poetica della produzione leopardiana deriva proprio dalla presenza costante, ora esplicita, ora implicita , di questo mito negativo (la verità intesa come realtà negativa), che proietta su un piano assoluto ed estremo tutte le contraddittorie manifestazioni dell’esistenza.
Echi della poetica leopardiana, particolarmente in rapporto alla sua concezione essenzialmente e rigorosamente negativa del realtà, si colgono in “Meriggiare pallido e assorto” di Eugenio Montale (1916) inclusa nella raccolta “Ossi di Seppia” :
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia
In questa lirica, infatti il muro montaliano ha come illustre antecedente la siepe leopardiana de L'infinito: se quest’ultima, però, enfatizzava l'immaginazione di Leopardi nella misura in cui ne limitava lo sguardo, il muro del Montale lascia il poeta nell'ossessiva contemplazione della sua vana verticalità, del suo slancio verso l'alto, frustrato da quei cocci aguzzi di bottiglia in cui si riassume il senso dell'esistenza umana.
L’idea del “nulla” come principio e fine di tutte le cose è presente fin dalle prime pagine dello Zibaldone, anteriori addirittura al 1820 ( “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare, considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”).
• Accanto all’idea del “nulla”, altro tema dominante nella poetica leopardiana è quello della “morte”, valutata nei termini epicurei: ossia come un evento che pone fine a una vita attraversata dal dolore.
Nonostante la loro vicinanza logica, i concetti di “nulla” e di “morte” inducono il pensiero del Leopardi a differenti conclusioni: mentre la morte è concepita dal Leopardi come un evento essenzialmente privato ed individuale, all’interno di un triangolo esistenziale costituito dal DOLORE- PIACERE- NOIA, l’idea del nulla comporta invece una apertura universale, una proiezione cosmica: il “nulla” provoca perciò un sentimento di smarrimento e di sgomento, la contemplazione atterrita e allo stesso tempo affascinata di una dimensione indeterminata che l’intelletto non arriva a padroneggiare e che eguaglia per grandezza la “visione” mentale dl cosmo e degli spazi siderali.
Tuttavia L’idea di infinito in Leopardi mantiene sempre un ancoraggio al dato empirico del “vedere”; anche le proiezioni astratte della mente, le visioni cosmiche, come quelle dell’Infinito, partono sempre da un dato visivo fisicamente riscontrabile nella realtà.
• Lo Stoicismo leopardiano. Un elemento rilevante è l’atteggiamento “stoico”, la lucida e dignitosa fermezza con cui il poeta rifiutò sempre ogni facile consolazione, ogni “pietoso inganno” che potesse distoglierlo anche solo per un attimo dalla contemplazione del tragico destino dell’uomo. Nasce da qui, probabilmente, quella vena eroica che attraversa per intero la produzione del poeta, dalla canzone giovanile “ All’Italia” (1818) fino alla “Ginestra”. Se nel caso della canzone del 1818 la prospettiva eroica sembra limitata al sacrificio per la patria e per i propri ideali, nelle liriche successive la vena eroica assume caratteri complessi, tanto da essere all’origine, secondo molti critici, di una vera e propria svolta poetica. Il Leopardi in effetti nutriva un’alta considerazione di sé e un forte desiderio di gloria: egli era consapevole della propria geniale diversità (vedi “Lettera a Pietro Giordani”, “Lettera a Monaldo Leopardi”), ma anche della propria dolorosa ed estrema infelicità; pertanto si sentiva doppiamente isolato rispetto agli altri uomini e coltivava tale isolamento a volte con dolore, a volte con esaltazione virile di chi solo fra tutti va fieramente incontro al proprio destino.
A. MANZONI (1785-1873), Le Tragedie - Le Odi. Appunti del docente ( cfr. V.de Caprio- S.Giovanardi, I Testi della Letteratura italiana, L'Ottocento) )
LE ODI
Le odi testimoniano l’adesione del Manzoni alle tematiche del “vero”, la sua estrema attenzione agli avvenimenti politici che segnano la storia italiana del Risorgimento nella prima metà dell’Ottocento. L’ARTE DEL MANZONI , LUNGI DALL’ESSERE UNA STERILE E PEDANTESCA IMITAZIONE DI MODELLI CLASSICISTICI, VUOLE CONSEGUIRE PRINCIPALMENTE UNA FINALITÀ MORALISTICA ED EDUCATIVA (Dante Alighieri). Il poeta pur non avendo mai partecipato direttamente ai moti risorgimentali, contribuì con la letteratura alla costruzione di una coscienza nazionale ( concetto di “Rivoluzione incruenta”; vedi anche G. Verdi, Il Nabucco; G. Leopardi, All’Italia). Alcune delle sue opere divennero dei veri e propri manifesti risorgimentali, mirabili esempi di poesia civile. Tra queste ricordiamo le due Odi: MARZO 1821 e il 5 MAGGIO.
Le due liriche sono legate a particolari occasioni storiche: rispettivamente, le speranze in un intervento della monarchia sabauda nella persona di Carlo Alberto e di Carlo Felice in appoggio dei patrioti lombardi contro gli austriaci; l’improvvisa morte di Napoleone Bonaparte nell’esilio di Sant’Elena (1815).
Componimenti politici lasciati incompiuti sono, invece, le due canzoni civili: Aprile 1814, composta sull’onda delle speranze indipendentistiche suscitate dalla abdicazione di Napoleone e dalla ritirata dei francesi dall’Italia; il Proclama di Rimini, entusiastico plauso all’utopistica spedizione di Gioacchino Murat.
Oltre alle poesie espressamente civili, bisogna rilevare l carattere implicitamente politico di quasi tutta la produzione letteraria del Manzoni (le Tragedie, i Promessi sposi), volta sempre ad insegnare e ad esortare, a scuotere le coscienze.
Le due Odi fondono efficacemente l’invocazione al riscatto della patria con l’universalità del messaggio cristiano: in questa ottica la liberazione dell’Italia dallo straniero assume il significato di un evento voluto da Dio stesso (concezione provvidenzialistica della storia), in nome di valori cristiani di giustizia, uguaglianza e fraternità fra gli uomini.
La notizia della morte di Napoleone, pubblicata sulla “Gazzetta di Milano” il 16 dicembre 1821, fu appresa dal Manzoni nella sua villa di Brusuglio (avuta in eredità da Carlo Imbonati). Lo scrittore, che nel frammento di canzone Aprile 1814 aveva manifestato la propria ostilità politica all’Imperatore, fu colpito dalla sua improvvisa scomparsa, tanto più che, sempre secondo la “Gazzetta”, Napoleone era spirato con i conforti della religione cristiana. L’ode fu composta di getto in soli tre giorni, dal 18 al 20 luglio 1821..
La prima stampa italiana dell’ode uscì a Torino nel 1823, tuttavia già nel 1822 Goethe l’aveva pubblicata in versione tedesca e anche in Italia ne circolavano esemplari manoscritti. L’ode valuta la figura di Napoleone alla luce di valori eterni ed universali e non di criteri storico-politici: per questo essa appare essenzialmente come una lirica a carattere religioso. Il Cinque maggio è definibile un vero e proprio “inno sacro”, al di fuori delle circostanze del calendario liturgico. Significativo è il legame del Cinque maggio con il principale degli inni sacri, la Pentecoste, a partire dalla presenza in entrambi di un identico verso “dall’uno all’altro mar” v.30. Ancor più stretto è poi il legame dell’ode con l’Adelchi, soprattutto con il suo secondo coro (La morte di Ermengarda, vv.61-66). Manzoni stesso parla dell’immensa emozione che presiedette alla composizione della lirica, in una lettera all’amico Cesare Cantù: “Che volete? Era una uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare; il maggior tattico, il più infaticabile conquistatore, colla maggior qualità dell’uomo politico, il saper aspettare e il saper operare. La sua morte mi scosse, come se al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale […]” .
LE TRAGEDIE – La storia degli umili
Il Romanticismo cristiano del Manzoni indirizza il poeta verso l’indagine storica per ricostruire con nuovi criteri di interpretazione una storia mai scritta prima: una possibile storia degli umili e degli oppressi, in linea con le tendenze dello storico francese Augutin Thierry, che indagava la storia degli oppressi.
La ricerca condotta dal Manzoni rappresentazione degli oppressi inizia concretizzarsi nelle Tragedie: Il Conte di Carmagnola (composta tra il 1816-19 e pubblicata1820), l’Adelchi (scritta tra il 1820-21 e pubblicata nel 1822). I grandi personaggi consacrati dalla tradizione letteraria (nobili di alto lignaggio, re e principi) appaiono in esse, seppur presenti, certamente smitizzati, delineati crudamente nella loro sete di potere e di violenza fratricida, di dominio terreno, di arroganza, che li conduce fatalmente alla perdita della felicità ultraterrena. Conquistare il mondo, conquistare il potere equivale a macchiarsi inevitabilmente di crimini terribili. I vincitori sono quelli destinati dalla Provvidenza e dalla giustizia divina alle sofferenze future; si salvano, invece, gli “umili”, coloro che la “provvida sventura” destina inizialmente alla sofferenza rendendoli vittima della legge del più forte. Per gli “umili” l’unica speranza resta la fede in un Dio di giustizia. Così, ad esempio, Carlo Magno, che salva la Chiesa dall’oppressione longobarda, è un uomo dominato dalla sete di potere e dalla ragion di Stato. Le conclusioni del principe Adelchi, morente, sono emblematiche: non c’è posto nel mondo per opere gentili ed innocenti, non resta che operare violenza / o patirla e rimanerne vittima(Adelchi, Ermengarda). L’anima stanca dell’eroe romantico anela solo di salire al cielo e ricongiungersi al re dei re, a Dio, che ripaga amorevolmente e a piene mani gli oppressi, per il sangue versato. LA STORIA DELL’UOMO APPARE INTRISA DI SANGUE E DI MALE.
Tuttavia, la scoperta che è possibile una storia degli oppressi non conduce Manzoni ad una posizione di identificazione con essi e con i loro destini. Basti pensare alla figura di Renzo , nei Promessi Sposi: “Renzo è presentato dal Manzoni come un personaggio attivissimo, ma ha sempre bisogno di un direttore di coscienza che lo guidi, altrimenti sbaglia per ingenuità paesana, o per un’esigenza di farsi giustizia da sé, che per il Manzoni è una prova dell’immaturità della sua, pur fondamentalmente buona, coscienza etico-religiosa”. I limiti della formazione culturale di A. Manzoni, la sua estrazione sociale aristocratico - borghese, il suo cattolicesimo moderato trattengono il poeta sempre al di qua di una totale identificazione con i destini degli oppressi. Dunque la storia degli “umili”, che il Manzoni si propone di rappresentare colloca l’autore pur sempre in una posizione di pacato e lucido distacco da essi: sarà la divina Provvidenza, imperscrutabile e misteriosa forza - strumento della giustizia divina - , che provvederà a riscattare i tragici destini degli uomini e a guidare le azioni umane verso più elevati fini. Dunque nella ideologia manzoniana la “storia degli oppressi” non viene misurata dal poeta con la categoria dell’uguaglianza né già con la nozione di democrazia. Nella ideologia manzoniana gli “umili” appaiono come una massa ingenua e istintiva, talvolta perfino irrazionale e feroce (vedi i tumulti di S.Martino, nei Promessi Sposi) che necessita di una guida etico-politica superiore e che ispira al poeta a volte un amorevole sguardo paternalistico, altre sentimenti di diffidenza, di sfiducia, di amara rassegnazione.
Cfr. De Caprio-Giovanardi, I testi della letteratura italiana, vol. 3, ed. “Einaudi”; Antonelli – Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2b, “La Nuova Italia”;
Le odi testimoniano l’adesione del Manzoni alle tematiche del “vero”, la sua estrema attenzione agli avvenimenti politici che segnano la storia italiana del Risorgimento nella prima metà dell’Ottocento. L’ARTE DEL MANZONI , LUNGI DALL’ESSERE UNA STERILE E PEDANTESCA IMITAZIONE DI MODELLI CLASSICISTICI, VUOLE CONSEGUIRE PRINCIPALMENTE UNA FINALITÀ MORALISTICA ED EDUCATIVA (Dante Alighieri). Il poeta pur non avendo mai partecipato direttamente ai moti risorgimentali, contribuì con la letteratura alla costruzione di una coscienza nazionale ( concetto di “Rivoluzione incruenta”; vedi anche G. Verdi, Il Nabucco; G. Leopardi, All’Italia). Alcune delle sue opere divennero dei veri e propri manifesti risorgimentali, mirabili esempi di poesia civile. Tra queste ricordiamo le due Odi: MARZO 1821 e il 5 MAGGIO.
Le due liriche sono legate a particolari occasioni storiche: rispettivamente, le speranze in un intervento della monarchia sabauda nella persona di Carlo Alberto e di Carlo Felice in appoggio dei patrioti lombardi contro gli austriaci; l’improvvisa morte di Napoleone Bonaparte nell’esilio di Sant’Elena (1815).
Componimenti politici lasciati incompiuti sono, invece, le due canzoni civili: Aprile 1814, composta sull’onda delle speranze indipendentistiche suscitate dalla abdicazione di Napoleone e dalla ritirata dei francesi dall’Italia; il Proclama di Rimini, entusiastico plauso all’utopistica spedizione di Gioacchino Murat.
Oltre alle poesie espressamente civili, bisogna rilevare l carattere implicitamente politico di quasi tutta la produzione letteraria del Manzoni (le Tragedie, i Promessi sposi), volta sempre ad insegnare e ad esortare, a scuotere le coscienze.
Le due Odi fondono efficacemente l’invocazione al riscatto della patria con l’universalità del messaggio cristiano: in questa ottica la liberazione dell’Italia dallo straniero assume il significato di un evento voluto da Dio stesso (concezione provvidenzialistica della storia), in nome di valori cristiani di giustizia, uguaglianza e fraternità fra gli uomini.
La notizia della morte di Napoleone, pubblicata sulla “Gazzetta di Milano” il 16 dicembre 1821, fu appresa dal Manzoni nella sua villa di Brusuglio (avuta in eredità da Carlo Imbonati). Lo scrittore, che nel frammento di canzone Aprile 1814 aveva manifestato la propria ostilità politica all’Imperatore, fu colpito dalla sua improvvisa scomparsa, tanto più che, sempre secondo la “Gazzetta”, Napoleone era spirato con i conforti della religione cristiana. L’ode fu composta di getto in soli tre giorni, dal 18 al 20 luglio 1821..
La prima stampa italiana dell’ode uscì a Torino nel 1823, tuttavia già nel 1822 Goethe l’aveva pubblicata in versione tedesca e anche in Italia ne circolavano esemplari manoscritti. L’ode valuta la figura di Napoleone alla luce di valori eterni ed universali e non di criteri storico-politici: per questo essa appare essenzialmente come una lirica a carattere religioso. Il Cinque maggio è definibile un vero e proprio “inno sacro”, al di fuori delle circostanze del calendario liturgico. Significativo è il legame del Cinque maggio con il principale degli inni sacri, la Pentecoste, a partire dalla presenza in entrambi di un identico verso “dall’uno all’altro mar” v.30. Ancor più stretto è poi il legame dell’ode con l’Adelchi, soprattutto con il suo secondo coro (La morte di Ermengarda, vv.61-66). Manzoni stesso parla dell’immensa emozione che presiedette alla composizione della lirica, in una lettera all’amico Cesare Cantù: “Che volete? Era una uomo che bisognava ammirare senza poterlo amare; il maggior tattico, il più infaticabile conquistatore, colla maggior qualità dell’uomo politico, il saper aspettare e il saper operare. La sua morte mi scosse, come se al mondo venisse a mancare qualche elemento essenziale […]” .
LE TRAGEDIE – La storia degli umili
Il Romanticismo cristiano del Manzoni indirizza il poeta verso l’indagine storica per ricostruire con nuovi criteri di interpretazione una storia mai scritta prima: una possibile storia degli umili e degli oppressi, in linea con le tendenze dello storico francese Augutin Thierry, che indagava la storia degli oppressi.
La ricerca condotta dal Manzoni rappresentazione degli oppressi inizia concretizzarsi nelle Tragedie: Il Conte di Carmagnola (composta tra il 1816-19 e pubblicata1820), l’Adelchi (scritta tra il 1820-21 e pubblicata nel 1822). I grandi personaggi consacrati dalla tradizione letteraria (nobili di alto lignaggio, re e principi) appaiono in esse, seppur presenti, certamente smitizzati, delineati crudamente nella loro sete di potere e di violenza fratricida, di dominio terreno, di arroganza, che li conduce fatalmente alla perdita della felicità ultraterrena. Conquistare il mondo, conquistare il potere equivale a macchiarsi inevitabilmente di crimini terribili. I vincitori sono quelli destinati dalla Provvidenza e dalla giustizia divina alle sofferenze future; si salvano, invece, gli “umili”, coloro che la “provvida sventura” destina inizialmente alla sofferenza rendendoli vittima della legge del più forte. Per gli “umili” l’unica speranza resta la fede in un Dio di giustizia. Così, ad esempio, Carlo Magno, che salva la Chiesa dall’oppressione longobarda, è un uomo dominato dalla sete di potere e dalla ragion di Stato. Le conclusioni del principe Adelchi, morente, sono emblematiche: non c’è posto nel mondo per opere gentili ed innocenti, non resta che operare violenza / o patirla e rimanerne vittima(Adelchi, Ermengarda). L’anima stanca dell’eroe romantico anela solo di salire al cielo e ricongiungersi al re dei re, a Dio, che ripaga amorevolmente e a piene mani gli oppressi, per il sangue versato. LA STORIA DELL’UOMO APPARE INTRISA DI SANGUE E DI MALE.
Tuttavia, la scoperta che è possibile una storia degli oppressi non conduce Manzoni ad una posizione di identificazione con essi e con i loro destini. Basti pensare alla figura di Renzo , nei Promessi Sposi: “Renzo è presentato dal Manzoni come un personaggio attivissimo, ma ha sempre bisogno di un direttore di coscienza che lo guidi, altrimenti sbaglia per ingenuità paesana, o per un’esigenza di farsi giustizia da sé, che per il Manzoni è una prova dell’immaturità della sua, pur fondamentalmente buona, coscienza etico-religiosa”. I limiti della formazione culturale di A. Manzoni, la sua estrazione sociale aristocratico - borghese, il suo cattolicesimo moderato trattengono il poeta sempre al di qua di una totale identificazione con i destini degli oppressi. Dunque la storia degli “umili”, che il Manzoni si propone di rappresentare colloca l’autore pur sempre in una posizione di pacato e lucido distacco da essi: sarà la divina Provvidenza, imperscrutabile e misteriosa forza - strumento della giustizia divina - , che provvederà a riscattare i tragici destini degli uomini e a guidare le azioni umane verso più elevati fini. Dunque nella ideologia manzoniana la “storia degli oppressi” non viene misurata dal poeta con la categoria dell’uguaglianza né già con la nozione di democrazia. Nella ideologia manzoniana gli “umili” appaiono come una massa ingenua e istintiva, talvolta perfino irrazionale e feroce (vedi i tumulti di S.Martino, nei Promessi Sposi) che necessita di una guida etico-politica superiore e che ispira al poeta a volte un amorevole sguardo paternalistico, altre sentimenti di diffidenza, di sfiducia, di amara rassegnazione.
Cfr. De Caprio-Giovanardi, I testi della letteratura italiana, vol. 3, ed. “Einaudi”; Antonelli – Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2b, “La Nuova Italia”;
martedì 13 ottobre 2015
ALESSANDRO MANZONI, la produzione letteraria: INNI SACRI. (Cfr. De Caprio-Giovanardi, I testi della letteratura italiana, vol. 3, ed. “Einaudi”; Antonelli – Sapegno, L’Europa degli scrittori, vol. 2b, “La Nuova Italia”; appunti del docente)
LA PRIMA FASE DELLA SUA PRODUZIONE LETTERARIA – PRECEDENTE ALLA CONVERSIONE , 1810-appare caratterizzata da una sostanziale adesione alla poetica e al gusto del Neoclassicismo , dal prevalere dell’ influenza di V. Monti e di G. Parini, ma soprattutto da un radicalismo giacobino (ideali libertari, ateismo anticleriacale), cioè da un atteggiamento di contestazione rispetto ad una realtà sociale contraddittoria, nella quale il poeta non si ritrova.
A questa prima fase fanno riferimento le opere giovanili: Il trionfo della libertà (1801), una macchinosa celebrazione del valore della libertà contro ogni forma di superstizione e di tirannide; Urania , un poemetto mitologico dedicato alla funzione civilizzatrice della poesia; un sonetto-autoritratto di imitazione alfieriana; I Sermoni, quattro aggressive satire sul modello oraziano, contro il malcostume della società milanese, contrassegnata da false ipocrisie e da pseudo poeti . Questa fase culmina nel carme in endecasillabi sciolti, In morte di Carlo Imbonati (1806), nel quale rifacendosi a Parini, celebra il ruolo dell’intellettuale impegnato nel progresso civile.
Una svolta radicale nell’opera del Manzoni è generata dalla CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO (1810) , conversione che si configurerà anche come conversione letteraria, segnando un’ evoluzione sia sul piano etico che sul piano estetico. Il Manzoni abbandona la mitologia e le tematiche consuete della poetica neoclassica (repertorio culturale greco-romano) per sostanziare la propria lirica di contenuti religiosi, assumendo come repertorio di immagini e di metafore quello offerto dai testi sacri ( in particolare la Bibbia). Il nuovo patrimonio di cultura cristiano, tuttavia, non sostituisce, bensì affianca il consueto retroterra offerto dagli studi classici. La conversione- il ritorno alla fede e ai riti- operò in Manzoni su due piani.
Sul piano personale e biografico non riuscì a sanare la sua nevrosi, anzi la ingigantì e la approfondì, contribuendo a formare in lui l’immagine di un Dio come forza tremenda, che opera in modo imperscrutabile negli avvenimenti umani. Il solo senso degli avvenimenti è fornito dalla presenza della DIVINA PROVVIDENZA , che corregge le ingiustizie e le storture della storia con un ritmo che trascende la comprensione umana.
Intanto, il matrimonio con la giovane moglie appena sedicenne, Enrichetta Blondel “angelo di ingenuità e di semplicità”, già celebrato con rito calvinista, fu ricelebrato con rito cattolico e la famiglia Manzoni abbandonò definitivamente Parigi per stabilirsi definitivamente in Italia nella villa di Brusuglio, vicino Milano, dove lo scrittore trascorse gran parte della sua vita.
Sul piano letterario la conversione produsse in Manzoni la convinzione che era necessaria una nuova poesia, svuotata da contenuti legati alla mitologia classica e volta a diffondere messaggi cristiani. La conversione produce conseguenze immediate essenzialmente sul piano tematico, mentre su quello formale, la poesia manzoniana continua ad essere legata alla tradizione classicistica. La conversione al cattolicesimo segna l’inizio del periodo di più intensa attività creativa del Manzoni.
INNI SACRI
La conversione al Cattolicesimo segna l’inizio del periodo di più intensa attività creativa del Manzoni. IL CATTOLICESIMO DEL MANZONI, maturato al termine di un lungo percorso di studi e meditazioni filosofico - morali, non è un sentimento dogmatico, né fondato su astrazioni filosofiche; esso è un sentimento vivo, intenso e autentico, volto a cogliere il senso consolatorio dell’eterna presenza di Dio nella dolorosa vita degli uomini; un cattolicesimo che nasce dalla sintesi dialettica delle pregresse esperienze culturali e umane del poeta: progressismo illuminista, idealismo romantico, calvinismo, giansenismo, la filosofia morale di S. Agostino e di Blaise Pascal .
Gli anni immediatamente successivi alla conversione risalgono gli Inni Sacri composti a partire dal 1812. Manzoni ne aveva progettato 12, ciascuno dei quali avrebbe dovuto celebrare le principale feste del calendario liturgico, ma riuscì a comporne solo cinque. Nel 1815 il Manzoni pubblicò i primi quattro Inni , La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale. Complessa la vicenda compositiva del quinto inno sacro : iniziata nel 1816, La Pentecoste subì ulteriori revisioni e fu data alle stampe solo 1822.
Negli Inni sacri il poeta si rifà alla tradizione della poesia religiosa antica e medievale (Cantico delle creature; le laude di Jacopone da Todi; la Commedia dantesca; la Canzone alla Vergine del Petrarca), nella quale gli Inni erano destinati alla declamazione corale da parte dei credenti di fondamentali verità di fede, in un linguaggio piano e comprensibile a tutti (il sermo humilis). Anche il Manzoni intende esprimere il proprio concetto di fede secondo un punto di vista corale, rendendosi interprete del rapporto tra Dio e il suo popolo. Tuttavia sul piano formale il risultato al quale giunge il Manzoni è altalenante: non sempre l’autore riesce a rendere la solennità del contenuto, ricco di immagini bibliche, mediante una forma agevole; spesso la sintassi appare complessa e involuta, il lessico appare legato a una obsoleta tradizione letteraria.
LA PENTECOSTE, ULTIMO INNO SACRO, È LA PIÙ VALIDA OPERA A LIVELLO POETICO: il contenuto tematico agisce prepotentemente sulla fantasia, che funge da filtro, e dona forma al contenuto poetico. Mentre negli altri inni sacri l’entusiasmo del neofita uccide la forma, nella Pentecoste il poeta realizza un perfetto equilibrio tra contenuto e forma: il contenuto – la discesa dello Spirito Santo e la nascita della Chiesa; la presenza del divino nelle cose umane; la divina Provvidenza .
La Pentecoste (in greco, 50° giorno), celebra la legittimazione della Chiesa alla predicazione e alla divulgazione del messaggio evangelico, partendo dalla descrizione di “quel sacro dì” in cui avvenne la discesa dello Spirito santo sugli apostoli sotto forma di lingue di fuoco, infondendo in loro la forza d’animo necessaria a superare le persecuzioni e il dono della glossolalia, cioè la conoscenza delle lingue. Nella Pentecoste il Manzoni rappresenta un Dio pieno d’amore che partecipa costantemente alle vicende umane; UN DIO CALATO TRA GLI UOMINI che si manifesta sia attraverso i doni dello Spirito Santo, sia attraverso i segni della Divina Provvidenza. La divina Provvidenza è concepita dal Manzoni come una delle forze fondamentali che agiscono nella Storia determinandone il corso: l’uomo che ha ricevuto la forza e il dono dello Spirito Santo può trovare nella Divina Provvidenza una guida superiore, e affidarsi completamente alla volontà di Dio. Nella Pentecoste il Manzoni sottolinea, inoltre, l’uguaglianza degli uomini dinanzi a Dio: in essa si traducono poeticamente gli ideali manzoniani di libertà e fraternità in Dio e nel sacrificio di Cristo. Sotto questo punto di vista non è evidente alcuna frattura tra il Manzoni della prima esperienza e il Manzoni rinnovato, dopo la conversione. LA FEDE SI FA ACCOMUNATRICE DI TUTTI GLI UOMINI ATTRAVERSO I VALORI ILLUMINISTICI DI LIBERTÀ, UGUAGLIANZA, FRATERNITÀ.
Il Manzoni, anche negli Inni sacri, testimonia di essere un autore calato perfettamente nella realtà del suo tempo. Egli analizza il dato reale con spirito analitico: ne evidenzia le contraddizioni, le ingiustizie, le sopraffazioni, le molteplici disarmonie. IL MANZONI AVVERTE IN MANIERA LUCIDA E DISINCANTATA IL PROFONDO CONTRASTO, TIPICAMENTE ROMANTICO, TRA REALE E IDEALE. LUNGI DAL RITENERE SUFFICIENTE L’APPORTO DELLA RAGIONE (la ragione da sola non garantisce più la felicità dell’uomo), EGLI DIMOSTRA COME LA SOFFERENZA UMANA PUÒ ESSERE SUPERATA MEDIANTE LA FEDE IN DIO, mediante la certezza che anche il dolore rientra in un disegno superiore e imperscrutabile (la provvida sventura), pertanto le pene di oggi troveranno una giusta ricompensa nella salvezza ultraterrena.
Già negli Inni Sacri si manifesta la CONCEZIONE PROVVIDENZIALISTICA DELLA STORIA che troverà ampio riscontro nei Promessi Sposi: Dio guida le vicende della storia, partecipa alle sofferenze degli uomini, vive in tutti coloro che soffrono per diffondere ideali di giustizia.
PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE , Giovanni Pascoli , Novembre - Miyricae (1891). Dall'elaborato di A. Greco II A (a.s. 2014-15).
Gemmea l'aria, il sole così chiaro
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate
fredda, dei morti.
La lirica “Novembre”, inclusa nella raccolta “Myricae” (1891), è una delle più suggestive di Giovanni Pascoli ed esprime il gusto del poeta per le sensazioni sfuggenti, per la visione di un reale ambiguo e non nettamente definito.
Il componimento può essere suddiviso in tre quadretti descrittivi netti e ben distinguibili, e allo stesso tempo coesi e coerenti : la strofa iniziale presenta una giornata di apparente primavera, con un sole “così chiaro” e “gli albicocchi in fiore”; ma ecco che , osservando più attentamente, l'io lirico si accorge che le piante sono “stecchite”, il biancospino è “secco” ed il suono cupo dei passi riecheggia come se il terreno fosse vuoto: "cavo al piè sonante sembra il terreno”. Alla vivida sensazione di un’atmosfera primaverile (Gemmea l’aria, il sole così chiaro) fa dunque riscontro una realtà diversa (ma secco è il pruno): è autunno, il biancospino non è in fiore, ma secco; i rami degli alberi ormai spogli segnano nere trame; il terreno non è fecondo, ma indurito dal freddo e riecheggia sotto il passo degli uomini, come se fosse cavo. Infine l'ultimo “periodo” costituisce una riflessione sull'inganno ordito dalla natura: l'illusione della primavera in una particolare giornata di novembre evoca la precarietà dell'esistenza. La primavera era soltanto un’illusione e nella giovinezza è già preannunciata la morte. Nella terza strofa, infatti, l’atmosfera si delinea in tutta la sua naturale tristezza: il silenzio del paesaggio autunnale è appena interrotto dal vento che fa cadere dagli alberi le fragili foglie, metafora della precarietà e della finitezza umana. All’illusione della primavera, immagine e simbolo della giovinezza e più in generale della vita, si sostituisce un’atmosfera di morte: l’estate di San Martino “E’ l’estate fredda dei morti”.
Con la poesia, Pascoli vuole evidenziare la fragilità umana rispetto alla inesorabilità alla natura: sebbene nella giovinezza ci possa sembrare di avere tutta una vita davanti, un giorno ogni uomo diverrà “secco” e “stecchito” come il “pruno”. Il tema della precarietà della vita umana è sottolineato dall'espressione “di foglie un cader fragile”. L'immagine metaforica mette in relazione la vita umana e le foglie secche autunnali: la precarietà dell'uomo è come una foglia debolmente attaccata ad un ramo, che continua a resistere e a lottare contro la forza di gravità, ma prima o poi sarà vinta; allo stesso modo la morte incombe inevitabilmente sull'uomo.
Nella lirica il poeta inserisce una lunga antitesi, che si estende per le prime due intere strofe. La figura semantica svolge un ruolo di particolare incidenza: allude metaforicamente alla vita, la gioia e la bellezza di una luminosa giornata primaverile, che è troncata bruscamente dalla morte e dall'aridità dell'inverno. Pascoli ricorre all'artificio per evidenziare una realtà bifacciale, tema portante del componimento, assieme alla riflessione sulla fragilità umana.
Il tema della contrapposizione vita-morte è sottolineato dall'ossimoro in conclusione del brano: “estate / fredda”. L'espressione, non meno rilevante e suggestiva dell'antitesi, è evidenziata da un enjambement.
I campi semantici intorno ai quali ruota la lirica sono dunque la vita e la morte. Le espressioni che concorrono all'individuazione del primo campo semantico sono concentrate nella prima strofa: “gemmea”, “sole chiaro”, “albicocchi in fiore” ed è presente un topos letterario ben consolidato dalla tradizione: l'immagine del “cuore”, da sempre centro propulsore della vita. Al secondo campo, invece, fanno riferimento le espressioni “secco”, “stecchite”, “nere trame”, “vuoto” e “cavo”.
Il componimento è ben ritmato, sono presenti cesure ed enjambement. La terza strofa, ad esempio, è caratterizzata dai segni d'interpunzione, che aumentano notevolmente rispetto alle strofe precedenti, alternandosi quasi con le parole, in modo da creare -mediante le cesure- un senso di solenne solitudine e di vuoto, collegati alla morte.
A conferire musicalità alla lirica si aggiungono le figure metriche, come i molteplici esempi si sinalefe.
Il registro stilistico solenne ed autorevole conferisce gravità ed intensità alla lirica, accrescescendo la sensazione di impotenza dell'uomo dinanzi alla morte e alla natura.
A livello strutturale la lirica è composta da tre quartine di tre versi endecasillabi ed un quinario, che rimano secondo lo schema ABAb CDCd EFEf.
che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l'odorino amaro
senti nel cuore...
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano, da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E' l'estate
fredda, dei morti.
La lirica “Novembre”, inclusa nella raccolta “Myricae” (1891), è una delle più suggestive di Giovanni Pascoli ed esprime il gusto del poeta per le sensazioni sfuggenti, per la visione di un reale ambiguo e non nettamente definito.
Il componimento può essere suddiviso in tre quadretti descrittivi netti e ben distinguibili, e allo stesso tempo coesi e coerenti : la strofa iniziale presenta una giornata di apparente primavera, con un sole “così chiaro” e “gli albicocchi in fiore”; ma ecco che , osservando più attentamente, l'io lirico si accorge che le piante sono “stecchite”, il biancospino è “secco” ed il suono cupo dei passi riecheggia come se il terreno fosse vuoto: "cavo al piè sonante sembra il terreno”. Alla vivida sensazione di un’atmosfera primaverile (Gemmea l’aria, il sole così chiaro) fa dunque riscontro una realtà diversa (ma secco è il pruno): è autunno, il biancospino non è in fiore, ma secco; i rami degli alberi ormai spogli segnano nere trame; il terreno non è fecondo, ma indurito dal freddo e riecheggia sotto il passo degli uomini, come se fosse cavo. Infine l'ultimo “periodo” costituisce una riflessione sull'inganno ordito dalla natura: l'illusione della primavera in una particolare giornata di novembre evoca la precarietà dell'esistenza. La primavera era soltanto un’illusione e nella giovinezza è già preannunciata la morte. Nella terza strofa, infatti, l’atmosfera si delinea in tutta la sua naturale tristezza: il silenzio del paesaggio autunnale è appena interrotto dal vento che fa cadere dagli alberi le fragili foglie, metafora della precarietà e della finitezza umana. All’illusione della primavera, immagine e simbolo della giovinezza e più in generale della vita, si sostituisce un’atmosfera di morte: l’estate di San Martino “E’ l’estate fredda dei morti”.
Con la poesia, Pascoli vuole evidenziare la fragilità umana rispetto alla inesorabilità alla natura: sebbene nella giovinezza ci possa sembrare di avere tutta una vita davanti, un giorno ogni uomo diverrà “secco” e “stecchito” come il “pruno”. Il tema della precarietà della vita umana è sottolineato dall'espressione “di foglie un cader fragile”. L'immagine metaforica mette in relazione la vita umana e le foglie secche autunnali: la precarietà dell'uomo è come una foglia debolmente attaccata ad un ramo, che continua a resistere e a lottare contro la forza di gravità, ma prima o poi sarà vinta; allo stesso modo la morte incombe inevitabilmente sull'uomo.
Nella lirica il poeta inserisce una lunga antitesi, che si estende per le prime due intere strofe. La figura semantica svolge un ruolo di particolare incidenza: allude metaforicamente alla vita, la gioia e la bellezza di una luminosa giornata primaverile, che è troncata bruscamente dalla morte e dall'aridità dell'inverno. Pascoli ricorre all'artificio per evidenziare una realtà bifacciale, tema portante del componimento, assieme alla riflessione sulla fragilità umana.
Il tema della contrapposizione vita-morte è sottolineato dall'ossimoro in conclusione del brano: “estate / fredda”. L'espressione, non meno rilevante e suggestiva dell'antitesi, è evidenziata da un enjambement.
I campi semantici intorno ai quali ruota la lirica sono dunque la vita e la morte. Le espressioni che concorrono all'individuazione del primo campo semantico sono concentrate nella prima strofa: “gemmea”, “sole chiaro”, “albicocchi in fiore” ed è presente un topos letterario ben consolidato dalla tradizione: l'immagine del “cuore”, da sempre centro propulsore della vita. Al secondo campo, invece, fanno riferimento le espressioni “secco”, “stecchite”, “nere trame”, “vuoto” e “cavo”.
Il componimento è ben ritmato, sono presenti cesure ed enjambement. La terza strofa, ad esempio, è caratterizzata dai segni d'interpunzione, che aumentano notevolmente rispetto alle strofe precedenti, alternandosi quasi con le parole, in modo da creare -mediante le cesure- un senso di solenne solitudine e di vuoto, collegati alla morte.
A conferire musicalità alla lirica si aggiungono le figure metriche, come i molteplici esempi si sinalefe.
Il registro stilistico solenne ed autorevole conferisce gravità ed intensità alla lirica, accrescescendo la sensazione di impotenza dell'uomo dinanzi alla morte e alla natura.
A livello strutturale la lirica è composta da tre quartine di tre versi endecasillabi ed un quinario, che rimano secondo lo schema ABAb CDCd EFEf.
PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE - I CANTO DELL' INFERNO Marika Caruso III D (A.S.2013-14)
Con il primo canto dell' inferno ha inizio il viaggio ultramondano che Dante afferma di aver compiuto nella sua opera maggiore, la Commedia, composta a partire dal 1303-1304 fino agli ultimi anni di vita dell'autore (1321). L'inizio è in medias res: nella notte tra il 7 e l '8 aprile Dante erra, tormentato dalla paura in una selva oscura senza sapere come ci sia giunto. Al mattino vede però un dilettoso colle davanti a sé, illuminato dai primi raggi del sole. Attratto da quella luce e sperando in essa la salvezza si avvia dunque per conquistarne la cima ma invano poiché tre fiere gli sbarrano la strada: sono una lonza prima, poi un leone e infine una lupa che gli fanno perdere la speranza di salire sul colle. La lupa, orrida a vedersi, spinge anzi di nuovo Dante verso il basso e lo riporta nell' angoscia del peccato, nell' esperienza buia della paura. Appare però al poeta un' ombra: è Virgilio che gli indica la strada per cui potrà salvarsi. Dante dovrà attraversare il regno della perdizione eterna e quello della penitenza poiché solo così potrà salire nel regno della luce. Inoltre Virgilio annuncia a Dante l'avvento di un Veltro che libererà la terra dalle tre fiere che dominano il mondo e in particolare saprà cacciare la lupa ingorda. Intanto Virgilio si offre di guidare Dante nel viaggio attraverso i regni ultramondani dell' inferno e del Purgatorio, poi lo affiderà a Beatrice, che accompagnerà il poeta in Paradiso. Il primo canto dell' inferno, ma in generale l' intera opera dantesca, è costituito da strofe di tre versi endecasillabi a rima incatenata. Talvolva l'unità metrica non coincide con l'unità sintattica, ossia il verso non corrisponde alla frase di senso compiuto, quindi in tale caso le strofe vengono ad essere legate l'una all'altra accelerando così il ritmo (esempi sono le strofe 5-6,8-9,13-14,14-15,17-18,19-20,44-45)La paranomasia presente al verso 36 "più volte volto" rimanda allo smarrimento di Dante alla prospettiva di ritornare nella selva oscura. Le caratteristiche della lupa vengono espresse attraverso un' allitterazione della r (versi 49-51) mentre quella della l nei versi descrittivi della lonza e della sua leggerezza creano quasi un effetto onomatopeico. Il poeta utilizza anche un' altra allitterazione con una sequenza degli stessi suoni duri per rendere l'idea dell'asprezza della selva. A ciò contribuisce anche il lessico che si conforma alla materia trattata, infatti come la sequenza degli aggettivi "esta selva selvaggia e aspra e forte" e la presenza della figura etimologica trasmettono l'idea della difficoltà del luogo così l' espressione "spalle vestite già de' raggi del sole" riferita al colle, lo rende cordiale, umanizzato. La lingua poetica del primo canto dell'inferno però oltre ad essere densa di realismo è anche carica di allegorie. Infatti nelle immagini della lonza, del leone e della lupa, tratte dai bestiari medievali, sono visibili le allegorie della lussuria o della frode, della superbia o della violenza e dell' avarizia come cupidigia. La verità di questi vizi è espressa attraverso il lessico e in particolare nella leggerezza rapida della lonza, nella fierezza spaventosa del leone e nella magrezza famelica e insaziabile della lupa. La natura crudele di quest' ultima viene delineata dalla dittologia "sì malvagia e rìa" (verso 97). Le stesse parole di Virgilio confermano il rapporto figurato che sussiste tra lupa e avidità, un vizio che esattamente come l'animale descritto dal poeta non si sazia mai di accumulare beni e dopo ogni successo è più affamato di prima. Inoltre il fatto che le tre bestie impediscano il cammino di Dante verso il colle inducendolo a tornare indietro è la rappresentazione allegorica di come le inclinazioni peccaminose impediscano la via dell' uomo verso la salvezza inducendolo a restare nel peccato. Sono rilevanti le metafore del "dilettoso colle", ossia la speranza della salvezza, e della "selva oscura" che rappresenta il peccato e quindi, lo smarrimento in essa indica la presa di coscienza dell' io narrante di trovarsi in uno stato di errore. Lo stesso sonno va inteso non come bisogno fisico ma come sonno della ragione, stordimento e ottenebramento della mente, figure tipiche del peccato nella Bibbia la cui influenza è evidente anche nell' espressione "Miserere di me" che è anche un latinismo, insieme al termine "pelago".
Il primo canto dell'inferno è denso di simbolismo e allegorie: prima fra tutte l'immagine di Virgilio, simbolo della ragione e del pensiero umani. Ciò è evidente nel suo discorrere pacato, nel suo trepido consigliare, nel suo paterno correggere e nel suo bonario decidere per l' allievo. Essendo Virgilio simbolo della ragione, il suo essere senza voce è metafora di come la voce della ragione abbia a lungo taciuto nell' uomo che viveva nel peccato. Anche l'avvicendamento delle due figure di Virgilio e Beatrice ha un significato simbolico cioè la sola ragione umana rappresentata dal poeta non è sufficiente per condurre l' uomo fino in Paradiso ma deve essere soccorsa dalla fede, rappresentata da Beatrice, che è superiore anche se complementare alla razionalità. Inoltre contribuiscono a trasmettere l'idea della difficoltà del luogo la similitudine tra il naufrago che si volge a rimirare le onde pericolose e il poeta che, ancora tutto inorridito, si volge a guardare la selva (versi 22-27) e la similitudine tra la disposizione d' animo di Dante che viene ricacciato nella selva dalla lupa e quella dell' avaro che perde tutto(versi 55-60). Inoltre la condizione di Dante che si volge indietro a rimirare la selva è a sua volta metafora dell' uomo che prende coscienza dei suoi errori e guarda alla vita passata con spavento. Numerosissime sono le perifrasi: "Nel mezzo del cammin di nostra vita" che apre l' opera, "Nel tempo de li dei falsi e bugiardi " (verso 72) ovvero in periodo pagano, la perifrasi astronomica "Temp' era dal principio del mattino" ed altre ai versi 30 e 60. Altre figure retoriche semantiche possono essere rilevate nel lungo discorrere tra Dante e Virgilio. Quest'ultimo, quando prende per la prima volta la parola, apre il suo discorso con un chiasmo e allo stesso tempo un' antitesi: "Non omo, omo già fui". Dante invece con le sue parole mette in evidenza la grandezza morale, intellettuale e in ambito retorico di Virgilio tramite l' endiadi "de li altri poeti onore e lume"(verso 82), la metafora ai versi 79-80 e l'apostrofe "famoso saggio" che sottolineano tutte la sua riverenza nei confronti di Virgilio. Altre figure retoriche, utilizzate frequentemente da Dante nella sua opera ed anche in questo canto, sono la sinestesia (" 'l sol tace" al verso 60), la metonimia (verso 109) e la personificazione ("animo mio ch' ancor fuggiva" al verso 25). A livello sintattico sono molto numerose le anastrofi (versi 12,15,33,49-50,80,95-96) ed è presente un'anafora ai versi 85 e 86 ("Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore, tu se' solo colui...") con la quale Dante sottolinea ciò che Virgilio è stato per lui. Senso di angoscia e speranza, peccato e desiderio di salvezza sono i temi dominanti di questo primo canto introduttivo della Commedia: tali temi vengono interpretati con le immagini metaforiche del buio e della luce e, ancor meglio, mediante i quadri simbolici della "selva oscura" e del "dilettoso monte". Virgilio mostrando a Dante l'altra strada, il viaggio attraverso i tre mondi, rende chiaro il messaggio: all'uomo la via diretta al Paradiso è preclusa e per raggiungere il cielo gli è necessario un percorso che comprende la coscienza razionale del peccato, il distacco da esso e la deliberata purificazione. Il viaggio attraverso i tre mondi è perciò metafora del percorso introspettivo di conoscenza razionale del peccato e pentimento, il solo che può condurre l' uomo alla salvezza.
Marika Caruso IIID
MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F (A.S.2012-13)
MERAVIGLIOSAMENTE" - JACOPO DA LENTINI. PROPOSTA DI ANALISI TESTUALE di VALENTINA RICCARDELLI, MATTEO MARCACCIO III F (A.S.2012-13)
Iacopo da Lentini, Meravigliosamente
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn'ora.
Com'om che pone mente
in altro exemplo pinge 5
la simile pintura,
così, bella, facc'eo,
che 'nfra lo core meo
porto la tua figura.
In cor par ch'eo vi porti, 1 0
pinta como parete,
e non pare di fore.
O Deo, co' mi par forte.
Non so se lo sapete,
con' v'amo di bon core: 15
ch'eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio,
dipinsi una pintura, 20
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo 'n quella figura,
e par ch'eo v'aggia avante:
come quello che crede 25
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.
Al cor m'arde una doglia
com'om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso, 30
e quando più lo 'nvoglia,
allora arde più loco
e non pò stare incluso:
similemente eo ardo
quando pass'e non guardo 35
a voi, vis'amoroso.
S'eo guardo, quando passo,
inver voi, no mi giro,
bella, per risguardare.
Andando, ad ogni passo 40
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c'a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.
Assai v'aggio laudato,
madonna, in tutte parti
di bellezze ch'avete.
Non so se v'è contato
ch'eo lo faccia per arti, 50
che voi pur v'ascondete.
Sacciatelo per singa,
zo ch'eo no dico a linga,
quando voi mi vedrite.
Canzonetta novella, 55
va' canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d'ogni amorosa,
bionda più c'auro fino:60
«Lo vostro amor, ch'è caro,
donatelo al Notaro
ch'è nato da Lentino».
PRESENTAZIONE DEL TESTO
"Meravigliosamente" è una lirica composta da Jacopo Da Lentini (Siracusa, 1210 – 1260), notaio alla corte di Federico II di Svevia. Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio, vv. 55-57,come autorevole rappresentazione della Scuola Siciliana: "O frate, issa vegg'io, diss' egli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me riten ne di qua dal dolce stil novo ch'i odo !" Codificò le forme metriche della canzone, e fu probabilmente l'inventore del sonetto. La lirica "Meravigliosamente" affronta il tema, tipicamente provenzale, dell'innamorato timido che non osa esprimere all'amata i propri sentimenti. Questi, però, si rivelano egualmente attraverso gli sguardi, i sospiri e i pianti. Per placare la passione struggente che lo avvolge, il poeta dice di aver riprodotto dentro di sé l’immagine della sua donna , dal cui vagheggiamento deriva un’emozione di gioia pari a quella che uno spirito credente trae dalla fede. La figura interiore è così nitida e ben presente che il poeta incontrando la reale persona dell’amata, può anche fare a meno di guardarla, per eccesso di timidezza : la bellezza di lei è tanto grande che il cuore quasi non può sostenerla, e un tremore assale il poeta, il tremore che si prova di fronte alle cose che sembrano appartenere ad una realtà più grande di quella che comunemente viviamo. L'avverbio " meravigliosamente", che occupa per esteso il primo verso, per la sua posizione isolata che accentra vivamente su di sé l’attenzione e per il suo ritmo lentamente modulato, introduce un'atmosfera di eccezione, di fuor dell’usato, che corrisponde alla " nova cosa" del v. 56, nel congedo. Meravigliosamente rappresenta una delle liriche migliori di Giacomo da Lentini: un’intima e accorata confessione d’amore sotto forma di monologo interiore che si risolve nel dolce e malinconico vagheggiamento della donna amata.
ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE (livello metrico - ritmico/ stilistico-retorico)
Meravigliosamente è una “canzonetta” apparentemente leggera , sia per la leggerezza del ritmo,
che per l’ umana verità del sentimento ; essa rappresenta, tuttavia, il nuovo modo di cantare l’amore, in cui i precedenti trobadorici sono rielaborati con raffinata leggerezza e spinti ad analizzare la questione amorosa principalmente in termini di indagine interiore e di affinamento spirituale: il poeta tende ad esprimere i risvolti psicologici e interiori dell’esperienza amorosa, il momento in cui essa è pura contemplazione e non osa manifestarsi. La lirica, una canzonetta di settenari ( schema ritmico "abc abc" nella fronte, "ddc" nella sirima; l'ultimo verso della fronte rima con l'ultimo della sirima) , si articola in tre principali nuclei tematici. Nella prima parte( vv. 1-45), il poeta svolge il motivo della contemplazione intima e sofferta della donna amata : attraverso un processo di interiorizzazione, il poeta “dipinge “ nel proprio cuore l’immagine della donna amata (“ così, bella, facc’eo, che ‘nfra lo core meo porto la tua figura”, vv.7-9) la cui bellezza gli appare come un miracolo, che suscita nell'animo un sentimento di stupefazione, come se il poeta si trovasse al cospetto di una creatura ultraterrena. Alla gioia della contemplazione, si alterna poi il dolore, la pena di non riuscire ad esprimere, per timidezza e per pudore, il proprio sentimento di ammirazione e di dolcezza, e di doverlo perciò tenere segreto e nascosto quando egli le passa accanto e non osa guardarla. Nella seconda parte della lirica, ( vv. 46-54), il poeta manifesta la sincerità del suo sentimento d'amore contro le insinuazioni dei calunniatori. Nella terza parte della lirica ( vv. 55-63), costituita dal "congedo", il poeta rivolge alla donna amata una preghiera franca, decisa, nella speranza che ella gli faccia dono del suo caro amore.
La penultima strofa dichiara l'intento della canzone e riassume nel motivo della lode la ragione
profonda che l'ha ispirata. Il "congedo", segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica: la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che " firma" così la sua composizione.
La struttura della lirica si rivela semplice grazie all’uso del verso settenario e alla presenza di un lessico non particolarmente difficile o tecnicistico. Pur nella complessiva semplicità del tessuto retorico, sono presenti studiate simmetrie tematiche e strutturali, basti pensare al motivo guida della straordinarietà dell’esperienza amorosa, cui corrispondono il desiderio del poeta di immortalare l’intensità del suo sentimento mediante versi d’amore e il riferimento alla raffigurazione dell’oggetto amato. Nel componimento non mancano, tuttavia, artifici stilistici ben individuabili, come l’uso della tecnica coblas capfinidas che si manifesta nel legame tra la prima e la seconda stanza (“ ‘nfra lo cor meo porto la tua figura”, vv.8-9; ”In cor par ch’eo vi porti pinta como parete”vv.10-11 ) e tra le stanze quarta e quinta ( “quando pass’ e non guardo a voi vis’amoroso”, vv.35-36 ; ”S’eo guardo, quando passo, in ver’voi , non mi giro” vv.36-38 ). Con la ripetizione del verbo "parere" ai versi 10 e 13, la canzone ribadisce il concetto della donna amata impressa nel cuore, tema che avrà molta fortuna nella evoluzione della lirica d’amore, fino allo Stilnovo. ll riferimento alla fede "come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante" (vv 25-27) prelude alla splendida metafora del fuoco del v.29 (“com'om che ten lo foco") , simbolo di una passione amorosa incontrastabile, che arde e consuma l’animo. E’ questa la tematica, tipicamente provenzale, della sofferenza d'amore, sviluppata in un senso più propriamente "psicologico" nella quinta strofa e mediata dal motivo dello "sguardo”, motivo che si arricchirà, nella poetica del Dolce Stil Novo, di nuovi intrinseci sviluppi.
Ancora, nella quarta e quinta strofa emergono i motivi della segretezza dell’amore e della timidezza dell’amante : il poeta è incapace di comunicare il suo amore e si limita ad ammirare l’oggetto del desiderio di nascosto, fingendo di essere indifferente ("pare che io vi porti dipinta proprio come realmente siete, e di fuori non si vede nulla") .
CONTESTUALIZZAZIONE - APPROFONDIMENTO
“ Meravigliosamente” rappresenta una canzone di “transizione” in quanto contiene ancora elementi della tradizione provenzale rivisti e rielaborati alla luce della nuova sensibilità poetica. Nei provenzali il rituale d’amore è modellato sull’omaggio feudale, e s’incentra sul rapporto tra il servizio d’amore e l’attesa di una ricompensa, investendo sessualmente anche il corpo della donna. Nella poesia della scuola siciliana il corpo della donna scompare del tutto: si realizza un'assoluta separazione tra la “figura”, ovvero l’immagine che il poeta porta nel cuore, e la persona della dama che egli rinuncia a guardare. Sul piano linguistico, la Scuola Siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico fatto di volgare locale mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del Trobar Clus e del Trobar Leu. Più tardi, nell’ambito del Dolce Stil Novo, Dante criticherà l’eccessivo riferimento da parte dei rimatori della Scuola Siciliana alla produzione lirica francese Valentina Riccardelli, Matteo Marcaccio III F
Iacopo da Lentini, Meravigliosamente
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn'ora.
Com'om che pone mente
in altro exemplo pinge 5
la simile pintura,
così, bella, facc'eo,
che 'nfra lo core meo
porto la tua figura.
In cor par ch'eo vi porti, 1 0
pinta como parete,
e non pare di fore.
O Deo, co' mi par forte.
Non so se lo sapete,
con' v'amo di bon core: 15
ch'eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso
e non vi mostro amore.
Avendo gran disio,
dipinsi una pintura, 20
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo 'n quella figura,
e par ch'eo v'aggia avante:
come quello che crede 25
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.
Al cor m'arde una doglia
com'om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso, 30
e quando più lo 'nvoglia,
allora arde più loco
e non pò stare incluso:
similemente eo ardo
quando pass'e non guardo 35
a voi, vis'amoroso.
S'eo guardo, quando passo,
inver voi, no mi giro,
bella, per risguardare.
Andando, ad ogni passo 40
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c'a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.
Assai v'aggio laudato,
madonna, in tutte parti
di bellezze ch'avete.
Non so se v'è contato
ch'eo lo faccia per arti, 50
che voi pur v'ascondete.
Sacciatelo per singa,
zo ch'eo no dico a linga,
quando voi mi vedrite.
Canzonetta novella, 55
va' canta nova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d'ogni amorosa,
bionda più c'auro fino:60
«Lo vostro amor, ch'è caro,
donatelo al Notaro
ch'è nato da Lentino».
PRESENTAZIONE DEL TESTO
"Meravigliosamente" è una lirica composta da Jacopo Da Lentini (Siracusa, 1210 – 1260), notaio alla corte di Federico II di Svevia. Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio, vv. 55-57,come autorevole rappresentazione della Scuola Siciliana: "O frate, issa vegg'io, diss' egli, il nodo che 'l Notaro e Guittone e me riten ne di qua dal dolce stil novo ch'i odo !" Codificò le forme metriche della canzone, e fu probabilmente l'inventore del sonetto. La lirica "Meravigliosamente" affronta il tema, tipicamente provenzale, dell'innamorato timido che non osa esprimere all'amata i propri sentimenti. Questi, però, si rivelano egualmente attraverso gli sguardi, i sospiri e i pianti. Per placare la passione struggente che lo avvolge, il poeta dice di aver riprodotto dentro di sé l’immagine della sua donna , dal cui vagheggiamento deriva un’emozione di gioia pari a quella che uno spirito credente trae dalla fede. La figura interiore è così nitida e ben presente che il poeta incontrando la reale persona dell’amata, può anche fare a meno di guardarla, per eccesso di timidezza : la bellezza di lei è tanto grande che il cuore quasi non può sostenerla, e un tremore assale il poeta, il tremore che si prova di fronte alle cose che sembrano appartenere ad una realtà più grande di quella che comunemente viviamo. L'avverbio " meravigliosamente", che occupa per esteso il primo verso, per la sua posizione isolata che accentra vivamente su di sé l’attenzione e per il suo ritmo lentamente modulato, introduce un'atmosfera di eccezione, di fuor dell’usato, che corrisponde alla " nova cosa" del v. 56, nel congedo. Meravigliosamente rappresenta una delle liriche migliori di Giacomo da Lentini: un’intima e accorata confessione d’amore sotto forma di monologo interiore che si risolve nel dolce e malinconico vagheggiamento della donna amata.
ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE (livello metrico - ritmico/ stilistico-retorico)
Meravigliosamente è una “canzonetta” apparentemente leggera , sia per la leggerezza del ritmo,
che per l’ umana verità del sentimento ; essa rappresenta, tuttavia, il nuovo modo di cantare l’amore, in cui i precedenti trobadorici sono rielaborati con raffinata leggerezza e spinti ad analizzare la questione amorosa principalmente in termini di indagine interiore e di affinamento spirituale: il poeta tende ad esprimere i risvolti psicologici e interiori dell’esperienza amorosa, il momento in cui essa è pura contemplazione e non osa manifestarsi. La lirica, una canzonetta di settenari ( schema ritmico "abc abc" nella fronte, "ddc" nella sirima; l'ultimo verso della fronte rima con l'ultimo della sirima) , si articola in tre principali nuclei tematici. Nella prima parte( vv. 1-45), il poeta svolge il motivo della contemplazione intima e sofferta della donna amata : attraverso un processo di interiorizzazione, il poeta “dipinge “ nel proprio cuore l’immagine della donna amata (“ così, bella, facc’eo, che ‘nfra lo core meo porto la tua figura”, vv.7-9) la cui bellezza gli appare come un miracolo, che suscita nell'animo un sentimento di stupefazione, come se il poeta si trovasse al cospetto di una creatura ultraterrena. Alla gioia della contemplazione, si alterna poi il dolore, la pena di non riuscire ad esprimere, per timidezza e per pudore, il proprio sentimento di ammirazione e di dolcezza, e di doverlo perciò tenere segreto e nascosto quando egli le passa accanto e non osa guardarla. Nella seconda parte della lirica, ( vv. 46-54), il poeta manifesta la sincerità del suo sentimento d'amore contro le insinuazioni dei calunniatori. Nella terza parte della lirica ( vv. 55-63), costituita dal "congedo", il poeta rivolge alla donna amata una preghiera franca, decisa, nella speranza che ella gli faccia dono del suo caro amore.
La penultima strofa dichiara l'intento della canzone e riassume nel motivo della lode la ragione
profonda che l'ha ispirata. Il "congedo", segue una consuetudine già provenzale e poi stilnovistica: la poesia, personificata, è pregata di rivolgersi direttamente alla donna amata e di intercedere per il poeta, che " firma" così la sua composizione.
La struttura della lirica si rivela semplice grazie all’uso del verso settenario e alla presenza di un lessico non particolarmente difficile o tecnicistico. Pur nella complessiva semplicità del tessuto retorico, sono presenti studiate simmetrie tematiche e strutturali, basti pensare al motivo guida della straordinarietà dell’esperienza amorosa, cui corrispondono il desiderio del poeta di immortalare l’intensità del suo sentimento mediante versi d’amore e il riferimento alla raffigurazione dell’oggetto amato. Nel componimento non mancano, tuttavia, artifici stilistici ben individuabili, come l’uso della tecnica coblas capfinidas che si manifesta nel legame tra la prima e la seconda stanza (“ ‘nfra lo cor meo porto la tua figura”, vv.8-9; ”In cor par ch’eo vi porti pinta como parete”vv.10-11 ) e tra le stanze quarta e quinta ( “quando pass’ e non guardo a voi vis’amoroso”, vv.35-36 ; ”S’eo guardo, quando passo, in ver’voi , non mi giro” vv.36-38 ). Con la ripetizione del verbo "parere" ai versi 10 e 13, la canzone ribadisce il concetto della donna amata impressa nel cuore, tema che avrà molta fortuna nella evoluzione della lirica d’amore, fino allo Stilnovo. ll riferimento alla fede "come quello che crede salvarsi per sua fede, ancor non veggia inante" (vv 25-27) prelude alla splendida metafora del fuoco del v.29 (“com'om che ten lo foco") , simbolo di una passione amorosa incontrastabile, che arde e consuma l’animo. E’ questa la tematica, tipicamente provenzale, della sofferenza d'amore, sviluppata in un senso più propriamente "psicologico" nella quinta strofa e mediata dal motivo dello "sguardo”, motivo che si arricchirà, nella poetica del Dolce Stil Novo, di nuovi intrinseci sviluppi.
Ancora, nella quarta e quinta strofa emergono i motivi della segretezza dell’amore e della timidezza dell’amante : il poeta è incapace di comunicare il suo amore e si limita ad ammirare l’oggetto del desiderio di nascosto, fingendo di essere indifferente ("pare che io vi porti dipinta proprio come realmente siete, e di fuori non si vede nulla") .
CONTESTUALIZZAZIONE - APPROFONDIMENTO
“ Meravigliosamente” rappresenta una canzone di “transizione” in quanto contiene ancora elementi della tradizione provenzale rivisti e rielaborati alla luce della nuova sensibilità poetica. Nei provenzali il rituale d’amore è modellato sull’omaggio feudale, e s’incentra sul rapporto tra il servizio d’amore e l’attesa di una ricompensa, investendo sessualmente anche il corpo della donna. Nella poesia della scuola siciliana il corpo della donna scompare del tutto: si realizza un'assoluta separazione tra la “figura”, ovvero l’immagine che il poeta porta nel cuore, e la persona della dama che egli rinuncia a guardare. Sul piano linguistico, la Scuola Siciliana ricorre spesso ad una sorta di impasto linguistico fatto di volgare locale mescolato a latinismi e a francesismi, in particolare si tratta di francesismi del Trobar Clus e del Trobar Leu. Più tardi, nell’ambito del Dolce Stil Novo, Dante criticherà l’eccessivo riferimento da parte dei rimatori della Scuola Siciliana alla produzione lirica francese Valentina Riccardelli, Matteo Marcaccio III F
TIPOLOGIA A : analisi testuale. G. Da Lentini "Amor è un[o] desio", dagli elaborati di Serena Capodiferro, Mario Massimo Cappuccia III E (A.S.2012-13)
PRESENTAZIONE DEL TESTO- COMPRENSIONE
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’amore, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei tòpoi presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della “pintura”: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’amor de lonh, afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso.
B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il topos della “pintura”, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne.
C – CONTESTUALIZZAZIONE- APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il servitium amoris (servizio d'amore), tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta.
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’amore, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei tòpoi presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della “pintura”: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’amor de lonh, afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso.
B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il topos della “pintura”, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne.
C – CONTESTUALIZZAZIONE- APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il servitium amoris (servizio d'amore), tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta.
TIPOLOGIA A : analisi testuale. G. Da Lentini "Amor è un[o] desio", dagli elaborati di Serena Capodiferro, Valerio Massimo Cappuccia III E (A.S.2012-13)
PRESENTAZIONE DEL TESTO- COMPRENSIONE
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’amore, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei tòpoi presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della “pintura”: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’amor de lonh, afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso.
B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il topos della “pintura”, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne.
C – CONTESTUALIZZAZIONE- APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il servitium amoris (servizio d'amore), tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta.
In Italia si ha l’affermarsi della lirica cortese con l’ascesa al trono, prima del Regno di Sicilia e poi dell’Impero, di Federico II di Svevia. Alla sua corte, localizzata principalmente in Sicilia, nascerà un indirizzo poetico che prende il nome di Scuola siciliana. Essa comprendeva un gruppo di circa venticinque poeti attivi tra il 1230 e 1250 (nel 1266 con la sconfitta di Benevento si avrà il tramonto della dinastia degli Svevi e l’affermarsi di quella degli Angioini). Se si esclude la presenza della poesia a carattere morale e didascalico, fondata sul sentimento religioso in Umbria, è con la Scuola siciliana che si hanno le prime forme letterarie italiane. Tra queste, naturalmente, è anche la lirica “Amore è un[o] desio” di Giacomo da Lentini, che fu proprio il capostipite della scuola. Egli era noto in Toscana, e anche Dante lo citerà nella sua Commedia come il “Notaro” (Purgatorio, XXIV). L’attività notarile di Giacomo da Lentini è documentata tra il 1233 e il 1240: con essa coincide la sua produzione poetica. Nella lirica “Amor è un[o] desio che ven da core” il poeta si sofferma sulla fenomenologia dell’amore, e ne illustra i modi del suo nascere e manifestarsi. All’interno del sonetto sono presenti alcuni temi tipici e immagini ricorrenti della Scuola Siciliana che fanno riferimento quasi esclusivamente all’amore, concepito come un desiderio travolgente, un impulso vitale che nasce dallo sguardo e si insinua nel cuore dell’uomo, divenendo il principale nutrimento dell’animo. Questo genere di sentimento è vissuto spesso nella mente del poeta come un’esperienza di natura intellettualistica. Uno dei tòpoi presenti, (seppur non in maniera manifesta), è quello della “pintura”: gli occhi trasmettono al cuore l’immagine della donna nella sua manifestazione esteriore; il cuore mette in atto la sua “cogitatio imaginativa” (come teorizza già Andrea Cappellano nel suo trattato “De Amore” sec. XII), cioè la sua facoltà di elaborare immagini ricevute, e costruisce una figura della donna amata. Il piacere del cuore consiste proprio nel contemplare in ogni momento tale rappresentazione che unisce al dato sensoriale la rielaborazione mentale. La figura dell’amata, quindi, si discosta dalla persona reale della dama, che non è più descritta nelle sue caratteristiche esteriori, ma è vagheggiata attraverso le sensazioni e le emozioni che ella stessa suscita nella mente e nell’animo del poeta. Il verso finale suggella la concezione erotica di Giacomo da Lentini “ e questo amore regna tra la gente” G. da Lentini, contrapponendosi a quanto sostenuto dal trovatore provenzale Jaufrè Rudel, teorico dell’amor de lonh, afferma che l’amore non può essere vissuto in lontananza, e sottolinea il ruolo fondamentale ricoperto dalla presenza dell’oggetto amoroso.
B –ANALISI DEL SIGNIFICATO E DEL SIGNIFICANTE
Il componimento, tratto da una tenzone a cui partecipano Iacopo Mastacci e Pier della Vigna, si presenta nella forma del sonetto, di cui con ogni probabilità Giacomo da Lentini fu l’inventore. I quattordici endecasillabi si raccolgono in un ottetto e in una sestina. L’ottetto si divide in due quartine legate da rime alternate (schema ABAB), mentre le due terzine della sestina presentano la rima ripetuta (schema CDECDE). La seconda quartina e la prima terzina sono legate dalla ripresa del termine “occhi”, presente sia al v.8 che al v.9. Questa tecnica, già ampiamente utilizzata dai rimatori provenzali, prende il nome di “clobas capfinidas” ed è ricorrente al fine di conferire maggiore musicalità e armonia. Il lessico è semplice, ricco di termine che appartengono all’area semantica dell’amore (amore/core/nnamoramento/desio); La lirica presenta poche figure retoriche. Dal punto di vista metrico, riscontriamo l’uso frequente del troncamento (Amor,gran,cor), dell’apocope ( al v.1 da') e dell’aferesi (al v.6 ’namoramento), figure stilistiche che sottolineano l’interesse dell’autore per l’accuratezza formale. Sintatticamente il componimento presenta l’enumerazione per polisindeto (ai vv 3-4; 12 e 14) che si manifesta attraverso la ripresa anaforica della congiunzione “e”. Notiamo, ancora, l’ uso della personificazione con cui l’amore, vero protagonista del componimento è descritto come un qualcosa che nutre (v.4), stringe (v.7) e regna (v.14). Nella lirica ricorre il topos della “pintura”, già presente in “Meravigliosamente” dello stesso G. da lentini e nela canzone “Madonna dir vo voglio “ di Guido delle Colonne.
C – CONTESTUALIZZAZIONE- APPROFONDIMENTO Il testo di G. da Lentini si colloca nell’ambito dello sviluppo della lirica d’amore nella corte di Federico II di Svevia (1220-1250), il principale catalizzatore di tale attività, che inserì lo sviluppo della Scuola siciliana nel proprio mecenatismo e in un proprio organico progetto politico. A questa scuola poetica presero parte circa trenta rimatori che poetavano per desiderio di sperimentazione linguistica, confrontandosi in ardite competizioni poetiche. Essi erano di solito funzionari regi, dilettanti colti inclini a considerare la poesia come elegante e aristocratico esercizio intellettuale.Componevano prevalentemente sonetti, canzoni e canzonette, rifacendosi all’esperienza lirica provenzale diffusasi a partire dall’XII secolo nella Francia Meridionale e giunta in Italia ad opera di trovatori francesi migrati nelle corti dell’Italia centro settentrionale (è opportuno ricordare che anche la corte di Federico II tra il 1235-40 ebbe sede in alcuni luoghi dell’Italia settentrionale). Naturalmente le differenze politiche, ideologiche e istituzionali che caratterizzavano la corte di Federico II determinarono all’interno della lirica siciliana lo sviluppo di alcuni caratteri peculiari rispetto al modello provenzale. Alla frammentazione feudale della Francia meridionale e alla complessa articolazione gerarchica imperniata sul rapporto di omaggio vassallatico, corrisponde invece in Sicilia un organismo fortemente accentrato che fa capo all’imperatore. Vengono a cadere i temi politico – sociali tipici del sirventese, componimento espressione di una realtà politico sociale fortemente conflittuale, e forse scompare l’accompagnamento musicale del testo poetico. Sopravvive la tematica d’amore inteso come servizio e dedizione alla donna lontana e spesso inaccessibile, il servitium amoris (servizio d'amore), tipico della società feudale. La letteratura provenzale e la Scuola siciliana esprimono entrambe gli ideali di magnanimità, liberalità, riproponendo gli schemi vassallatici del mondo feudale, tuttavia la figura del poeta-innamorato non coincide più con quella del vassallo, tenuto a porgere rispettoso e referente omaggio al suo signore e alla sua consorte. Lo stesso amore non è più concepito in rapporto esclusivo con la dama, ma come sentimento in quanto tale. L’amore è rappresentato come un sentimento astratto e rarefatto e l’attenzione si focalizza su di esso in quanto forza naturale e travolgente che induce all’affinamento spirituale e all’analisi introspettiva del poeta. L’epicentro della lirica provenzale è la donna, depositaria di ogni virtù, generatrice di ogni piacere sensuale e morale, fine ultimo del canto poetico. La poesia siciliana vede invece la donna come spunto per avviare un complesso percorso di introspezione interiore; l’epicentro di questa lirica è infatti ciò che l’amore per la donna suscita nell’animo del poeta.
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