giovedì 10 novembre 2011

I NUCLEI TEMATICI NELLA LIRICA DEL LEOPARDI


Rilevante è l’idea leopardiana della CLASSICITA', espressa nel modo più compiuto nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (1818) Il poeta ha un’immagine idealizzata della classicità, considerata l’età della “primavera del genere umano” in cui l’uomo, alla stregua degli animali e delle piante, si sentiva parte integrante di un sistema di fenomeni naturali dominato dal ciclo delle stagioni e dalle variazioni del clima. Gli antichi divengono per Leopardi il simbolo di una condizione armoniosa che è stata irrimediabilmente perduta nel momento in cui il legame tra individuo e natura è stato intaccato dall’avvento della religione cristiana e del razionalismo scientista che hanno rafforzato il senso di superiorità e alterità dell’uomo rispetto al resto del creato, inducendo negli individui una stolida superbia. Scomparse le dolci illusioni dell’antichità classica, occorre ora, secondo Leopardi, sgombrare il campo dalle superbe e vane illusioni antropocentriche, come l’immortalità dell’anima, il progresso, la felicità, la ricchezza, il potere e la gloria. L’atteggiamento polemico del poeta riguardo al desiderio di gloria da parte dell’uomo poggia su due essenziali premesse: da una parte la collocazione periferica e in fondo irrilevante dell’uomo nell’universo, dall’altra la sua incapacità di prenderne atto.
La proposta del Leopardi resa esplicita nella Ginestra, ma preparata da numerose riflessione nello Zibaldone, è in proposito piuttosto chiara: poiché è impossibile un ritorno alle “favole antiche”, l’uomo contemporaneo dovrebbe anzitutto rendersi pienamente consapevole del suo stato di vittima del sistema naturale e quindi liberarsi di tutti gli inganni perpetrati dall’intelletto per nascondere quell’unica e incontrovertibile verità. Soltanto dopo aver acquisito tale consapevolezza l’uomo potrà sviluppare quella solidarietà che nasce tra le vittime di una stessa tragedia, eliminando le lotte fra uomo e uomo e concentrando tutte le energie contro le avversità cui esso è fatalmente esposto.
Al contrario, la storia umana è caratterizzata, a giudizio del Leopardi, da un progressivo accumularsi di errori e di inganni, che hanno raggiunto il loro culmine nel secolo XIX. L’odio per la propria epoca è infatti in Leopardi vivissimo e profondamente radicato. Le correnti di pensiero del progressismo idealista di marca liberale e dello spiritualismo cattolico (ambedue ampiamente rappresentate all’interno del movimento romantico) furono violentemente attaccate dal poeta sia nelle sue opere satiriche ( Palinodia al marchese Gino Capponi, I nuovi credenti, Paralipomeni della batracomiomachia), sia in alcuni passi di poesia e prosa di varia natura: Il pensiero dominante, La ginestra, Il dialogo di Tristano e di un amico.

Riguardo all’atteggiamento negativo di Leopardi nei confronti della propria epoca e, più in generale, al suo pessimismo, si è soliti distinguere due fasi. Nella prima fase, che va all’incirca dal 1817 al 1821 ed è detta del “PESSIMISMO STORICO", la natura viene considerata una sorgente di energia vitale e di consolanti illusioni, mentre i mali della dell’umanità vengono ricondotti al processo di corruzione indotto dalla civilizzazione. Questa concezione è legata al periodo “idillico”, che ha ispirato a Leopardi alcune tra le più belle e toccanti figurazioni paesistiche della nostra letteratura: descrizioni da “età dell’oro”, pervase da una quasi mitica serenità, che attraverso la “gran varietà delle illusioni” consolano l’uomo celandogli benevolmente la “vanità delle cose”.

Nella seconda fase (che appare già definita nel 1824 con le "Operette morali"), sulla scorta degli studi degli illuministi francesi e in particolare di Voltaire e di D’Holbach, Leopardi perviene a una visione meccanicistica dell’universo naturale, visto ora come un sistema che tende all’autoperpetuazione,, in un ciclo di produzione e distruzione del tutto insensibile alle sofferenze umane. Questa concezione, detta del “PESSIMISMO COSMICO”, conduce Leopardi ad attribuire alla natura una intrinseca malignità, e viene espressa, nel modo più chiaro e definitivo, nell’operetta "Dialogo della Natura e di un Islandese". Tracce di una considerazione negativa della natura sono peraltro riscontrabili già in alcuni passi della "Sera del dì di festa", idillio scritto nel 1820-1821 (“e l’antica natura onnipossente / che mi fece all’affanno”) e in alcuni brani dello Zibaldone degli anni 1817-1820. Tuttavia, in questo caso, Leopardi avverte la crudeltà della natura soprattutto come causa di sofferenza individuale (simboleggiata, per esempio, dalla deformità di Saffo) e non come fonte di dolore universale.
Insofferente verso l’idealismo e lo spiritualismo, Leopardi riprende dalle concezioni sensiste di matrice illuministica non solo l’idea meccanicistica della natura, ma anche il concetto secondo cui la molla principale dell’attività umana è la ricerca del piacere (la “TEORIA DEL PIACERE” è messa a punto per la prima volta in unaventina di pagine dello Zibaldone). Secondo il poeta, però, il desiderio a cui l'uomo tende è impossibile da soddisfare, essendo per sua natura infinito; avrebbe bisogno infatti di un piacere altrettanto infinito. Ma poiché questo non esiste se non nell’immaginazione, la soddisfazione di un desiderio è qualcosa che pertiene non al reale, bensì all’immaginario: il piacere, dunque, non è che immaginazione del piacere stesso, attesa indefinita di un’acquisizione che non avverrà mai.
La mancata soddisfazione del desiderio nella realtà produce dolore e pena, che possono essere alleviati solo fuggendo dalla realtà stessa, attraverso le fantasticherie e il sonno. Piacere e realtà sono insomma per Leopardi due princìpi incompatibili. Dal momento che la sua formazione illuministica gli impediva di mettere in dubbio il principio di realtà, era inevitabilmente il piacere ad essere destituito di ogni sostanza autonoma: infatti, “il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario” (Zibaldone, 19 aprile 1824).
Ciò che noi chiamiamo piacere è dunque, in realtà, o l’attesa di un irraggiungibile piacere futuro, o la momentanea cessazione o attenuazione del dolore. Tale posizione risulta chiaramente espressa nei canti "La quiete dopo la tempesta" e "Il sabato del villaggio", oltre che in molte delle Operette morali (si veda soprattutto il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare).
Il dolore e l’attesa del piacere, in quanto poli su cui si concentra ogni moto dell’animo, sono comunque segno di energia vitale ; ben più temibile per Leopardi è la noia, che subentra ad occupare i “vuoti” causati dalla momentanea assenza di ambedue e che determina uno “stato d’indifferenza e senza passione”. La vita dell’uomo oscilla perciò tra il desiderio sempre deluso del piacere, il dolore che ne consegue e la noia. Si tratta di idee singolarmente vicine a quelle espresse dal filosofo tedesco Arthur Shopenhauer (1788-1860) nell’opera "Il mondo come volontà e rappresentazione" (1819), ma il nome di Shopenhauer non ricorre mai nello Zibaldone, ed è quindi assai probabile che Leopardi non lo conoscesse affatto. Il tema della noia è centrale nell’operetta morale Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez, nonché nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
A partire dal 1823 “la teoria del piacere” assume punte ancor più radicali: il piacere viene infatti identificato nello Zibaldone con “una privazione o una depressione di sentimento”, e giunge ad essere definito “quasi un’imitazione dell’insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita e alla privazione di essa, perché la vita per sua natura è dolore”; è questa l’ultima tappa di un itinerario di pensiero lucidamente negativo, che trova nel canto A se stesso la sua espressione poetica più sintetica e incisiva.
Un posto di rilievo nelle considerazioni leopardiane sul piacere è occupato dal motivo dei ricordi e della memoria, un terreno che, sfuggendo in apparenza alle leggi del desiderio, sembra proporsi, almeno in una prima fase, come una forma alternativa di piacere. È questa infatti la posizione espressa negli anni 1819-1820, e in particolare nel canto "Alla luna": il ricordo di una condizione trascorsa è di per sé piacevole, anche se la condizione ricordata è dolorosa. La memoria, in altri termini, produrrebbe uno stato d’animo contemplativo e malinconico, fatto di sensazioni il più delle volte indefinite e vaghe, che provoca nell’animo una forma particolare di “diletto”. Il diletto è poi tanto maggiore quanto più lontano (e quindi più indefinito) è il ricordo, sicché le memorie più piacevoli risultano quelle dell’infanzia e della prima adolescenza.
Più che un piacere puro, tuttavia, quella offerta della memoria è una sorta di provvisoria consolazione, che non intacca il predominio del dolore e della noia su cui si fonda l’esistenza. Tanto è vero che in un secondo momento, all’altezza dei “canti recanatesi” del 1829, anche tale consolazione sembra venir meno al poeta: nell’ultima strofa del canto "Le ricordanze" l’evocazione dell’innamoramento adolescenziale per Nerina non ha più nella di piacevole; al contrario essa si colora di un’acuta disperazione per il tempo irrimediabilmente trascorso, per cui il ricordo non può essere che “rimembranza acerba”. E su tale definitiva constatazione si consuma del tutto la disposizione “idillica” del poeta.

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