sabato 4 ottobre 2014

DEI SEPOLCRI, parafrasi




“Deorum Manium iura sancta sunto” Cicerone ; Leggi XII Tavole, V sec. a.C (= Siano sacri i diritti degli Dei Mani ).
Metro: Endecasillabi sciolti

(vv.1-90)
Il sonno della morte è forse meno doloroso all’ombra dei cipressi e nei sepolcri su cui i parenti possono piangere i loro morti?
Quando il Sole per me non feconderà più la terra con le belle specie piante e di animali, e quando il futuro per me non ci sarà più davanti, ricco di lusinghe, né potrò più udire, dolce amico, la tua poesia malinconica, né più sentirò nel cuore l’ispirazione poetica e il sentimento d’amore, unico alimento per la mia vita di esule, quale risarcimento per i giorni perduti potrà mai costruire una pietra tombale che distingua le mie ossa da tutte le altre che la morte dissemina in terra e in mare? E’ proprio vero, Pindemonte! Anche la Speranza, ultima Dea, abbandona i sepolcri; e la dimenticanza avvolge ogni cosa nelle tenebre della notte; il tempo muta l’uomo, i sepolcri, le spoglie e ciò che resta della terra e del cielo.
Ma perché l’uomo dovrà privarsi prima del tempo dell’illusione che seppur morto possa tuttavia soffermarsi sulla soglia del regno dei morti?
Non vive anche egli sotto terra, quando la bellezza del mondo sarà per lui cessata, se può destare l’illusione di sopravvivenza con il ricordo dei teneri affetti nella mente dei suoi cari?
Questa corrispondenza di affetti tra i defunti e i vivi è un dono celeste; e spesso attraverso di essa si continua a vivere con l’amico morto, e il morto continua a vivere con noi, a condizione che la terra pietosa che lo accolse e lo nutrì da bambino, offrendogli nel suo grembo materno l’ultimo rifugio, renda inviolabili i suoi resti dagli oltraggi degli agenti atmosferici e dal sacrilegio piede del volgo, e una lapide conservi il nome, e un albero amico, profumato di fiori consòli le ceneri con la dolce ombra. Solo chi non lascia affetti tra i vivi ha poco conforto nella tomba; e se pure immagina ciò che accadrà dopo i funerali, vede il suo spirito vagare nel pianto nelle regioni d’Acheronte, o rifugiarsi sotto le grandi ali del perdono di Dio; ma le sue ceneri lasciano alle ortiche in una deserta terra dove né una donna innamorata verrà a pregare, né un passante solitario potrà udire il sospiro che la natura manda dalla tomba.
Tuttavia una nuova legge oggi impone che i sepolcri siano posti fuori dagli sguardi pietosi, e toglie la possibilità di nomi sulle tombe. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talìa (poesia), il quale cantando per te nella sua povera casa fece crescere una pianta d’alloro con amore costante, e ti offriva serti di fiori; e tu rendevi bella con la tua ispirazione la poesia che criticava il nobile lombardo (Sardanapalo) per il quale è gradito solo il muggito dei buoi che, provenendo dalle rive dell’Adda e del Ticino, lo rendono beato di ozi e di cibi. Oh bella Musa, dove sei? Non sento il profumo dell’ambrosia, che indica la presenza della musa, fra questi tigli dove io sto seduto sospirando per la mia patria lontana. E tu venivi e gli sorridevi sotto quel tiglio che ora con le fronde intristite sembra fremere perché non ricopre, o Dea, la tomba del vecchio a cui già aveva profuso calma e ombra. Forse tu fra le tombe comuni stai vagando ansiosamente per cercare dove sia sepolto il capo sacro del tuo Parini? A lui la città corrotta compensatrice di cantanti evirati, non ha dedicato una tomba ombrosa, non una lapide, non un’epigrafe; e forse insanguina le ossa di Parini il capo mozzato di un ladro che è stato giustiziato sul patibolo per i suoi delitti. Senti raspare tra le tombe ridotte a macerie e gli sterpi la cagna randagia che vaga tra le fosse, latrando per la fame; e uscire dal teschio, dove si era rintanata per sfuggire la luna, l’upupa e svolazzare tra le croci sparse nel cimitero di campagna, e senti l’immondo uccello rimproverare con il suo verso lugubre i raggi che pietosamente le stelle inviano alle sepolture dimenticate. Invano sulla tomba del tuo poeta, o Dea, invochi gocce di rugiada dalla squallida notte. Ahi! Sui morti non sorgono fiori, se il morto non viene onorato dalle lodi umane e dal pianto amoroso (v.90).

(vv.91-150) Dal giorno in cui l’istituzione del matrimonio, delle leggi e della religione concessero agli uomini primitivi di essere pietosi verso sé stessi e verso altri, i vivi toglievano all’aria maligna e alle bestie feroci i resti corruttibili dei defunti che la Natura con vicende eterne destina ad altre forme di vita. Le tombe erano testimonianza dei fatti gloriosi ed erano altari per i figli; e uscivano quindi le risposte dei Lari domestici, e fu osservato con timore il giuramento fatto sulla tomba degli antenati: culto che in diverse forme rituali le virtù patriottiche e l’affetto per i parenti tramandarono per una lunga serie di anni.
Non sempre le pietre tombali facevano da pavimento alle chiese; non da sempre il puzzo dei cadaveri mescolato al profumo dell’incenso i fedeli che pregavano contaminò; non da sempre le città furono rattristate dalla vista di immagini di scheletri: le madri balzano nel sonno atterrite, e tendono le braccia nude sul capo amato del loro piccino, affinché non lo svegli il lungo gemito di un defunto che chiede agli eredi preghiere di suffragio dalla chiesa in cui è seppellito. Ma i cipressi e cedri impregnando l’aria di puri profumi protendevano i loro rami sempreverdi sulle tombe segno della memoria perenne, e preziosi vasi raccoglievano le lacrime offerte in voto. Gli amici del morto strappavano una favilla al Sole per rischiarare il buio del sepolcro perché gli occhi di un uomo che muore cercano la luce del sole: e tutti l’ultimo sospiro mandano alla luce che sfugge. Le fontane versando acque purificatrici facevano crescere amaranti e viole sul terreno della tomba; e chi sedeva a versare latte e a raccontare le proprie pene ai cari defunti, un profumo intorno sentiva simile all’aria dei campi Elisi. Pietosa pazzia che rende cari i giardini dei cimiteri alle inglesi giovani donne dove le conduce l’amore della madre perduta, dove, clementi, pregano i Geni affinché concedessero il ritorno dell’eroe che troncò l’albero maestro della nave nemica da lui sconfitta, e si scavò la bara.
Ma il paese in cui dorme l’ardente desiderio di compiere gesta gloriose e dove a governare la vita sociale sono la ricchezza improduttiva e sfarzosa e la viltà, segni di lusso esteriore e funesti simboli del regno dei morti sorgono lapidi e monumenti di marmo.
Già i letterati, i mercanti, e i proprietari di terre ornamento e classe dirigente del bel Regno d’Italia, hanno sepoltura nelle regge e nei palazzi da vivi e gli stemmi come unico titolo di gloria. A me la morte prepari un quieto rifugio quando finalmente la sorte cesserà di perseguitarmi e gli amici raccoglieranno un’eredità non di tesori, ma di affetti vivi e sinceri e l’esempio di una poesia degna d’uomo libero e che incita a libertà.

(vv.151-212)Le tombe dei grandi
uomini accendono gli animi nobili ad imprese memorabili, o Pindemonte; e rendono bella e sacra allo straniero la terra che le accoglie. Io quando vidi la tomba dove riposa il corpo di quel grande uomo (MACHIAVELLI), che insegnando ai regnanti come governare, ne toglie gli allori, e rivela ai popoli come il potere grondi di lacrime e di sangue; e quando vidi la tomba di colui che un nuovo Olimpo innalzò agli dei a Roma (MICHELANGELO); e quando vidi la tomba di chi vide più pianeti ruotare nella volta celeste, e il sole immobile illuminarli (GALILEI), per cui per primo aprì le strade del cielo all’inglese (NEWTON) che vi fece straordinari progressi; gridai, beata te (Firenze), per la tua aria salubre e ricca di vita, e per i fiumi che l’Appennino versa a te dai suoi gioghi! La luna lieta per la tua aria pura riveste di luce limpidissima i tuoi colli in festa per la vendemmia, e le valli popolate di case e di uliveti mandano al cielo mille profumi di fiori: e tu per prima, Firenze, udivi il poema che confortò la rabbia all’esule Ghibellino (DANTE), e tu desti i genitori (fiorentini) e la lingua a quel dolce labbro di Calliope (PETRARCA) che adornando Amore cantato in modo pagano in Grecia e a Roma di un leggero velo, lo restituì a Venere Celeste. Ma ancora più beata sei perché conservi in un tempio le glorie italiane, forse le uniche rimaste da quando le Alpi mal difese e l’alternarsi della potenza tra le diverse nazioni ti hanno privato delle armi, della ricchezza, della religione e della nazione e, tranne che del ricordo del passato, di tutto.
Nel giorno in cui la speranza di gloria risplenderà agli animi generosi e all’Italia, trarremo gli auspici per le azioni future. E a queste tombe venne spesso ad ispirarsi Vittorio (Alfieri). Adirato contro gli dei della patria, errava in silenzio nei luoghi più deserti introno all’Arno, desideroso guardando i campi e il cielo; e poiché nessun essere vivente gli addolciva l’affanno, si sedeva qui il severo; e aveva sul viso il pallore della morte e la speranza. Abita con questi eternamente: le sue ossa fremono per l’amor di patria. Ah sì! Da quella pace sacra una voce divina parla: quello stesso che alimentò il valore e l’impeto guerriero di Greci che batterono i Persiani a Maratona dove Atene consacrò tombe ai suoi guerrieri. Il navigante che solcava in quel mare sotto l’isola di Eubea, vedeva nella grande oscurità apparire scintille di elmi e spade che si urtavano, vedeva fumare i roghi di cadaveri, vedeva fantasmi di guerrieri luccicanti di armi di ferro cercare la battaglia; e nell’orrore dei notturni silenzi si diffondeva lungo nelle schiere di soldati un rumore e un suono di trombe, e un incalzare di cavalli che correvano scalpitando sugli elmi dei moribondi, e il pianto, gli inni e il canto delle Parche.


(vv. 213-295) Fortunato te, Ippolito, che hai percorso il mare durante i tuoi anni giovanili! E se il timoniere indirizzò la nave oltre le isole dell’Egeo, certamente hai udito le rive dell’Ellesponto risuonare di antiche gesta, e la marea muggire portando nel promontorio Reteo le armi di Achille sopra le ossa di Aiace: per gli animi generosi la morte è giusta dispensatrice di gloria; né l’astuzia, né il favore dei re consentirono ad Ulisse di conservare le armi contese, poiché il mare agitato dagli dei degli inferni le tolse alla nave errante.
Quanto a me che i tempi presenti e il desiderio di gloria mi costringono ad andare fuggitivo tra diverse genti, possano le Muse animatrici del pensiero umano chiamarmi a evocare gli eroi. Le Muse siedono sui Sepolcri per custodirli, e quando gli agenti atmosferici distruggono fino alle rovine, esse allietano i luoghi deserti con il loro canto, e l’armonia vince il silenzio di mille secoli. E oggi nella Triade disabitata risplende eternamente ai visitatori stranieri un luogo reso eterno dalla Ninfa a cui fu sposo Giove, e a Giove diede il figlio Dardano da cui ebbero origini Troia e Assaraco e i cinquanta figli di Priamo e l’Impero Romano. E ciò avvenne perché Elettra sentì la Parca che la chiamava dalla vita terrena alle danze festose dei Campi Elisi, mandò a Giove un ultimo desiderio: e se, diceva, ti furono cari i miei capelli e il mio viso e le dolci notti d’amore, e se la volontà del fato non mi concede sorte migliore, almeno dal cielo guarda la morte amica, affinché della tua Elettra resti immortale. Pregando con queste parole moriva. E se ne addolorava Giove, re dell’Olimpo: e scotendo il capo immortale faceva piovere dai capelli ambrosia sulla Ninfa e fece sacro il suo corpo e la sua tomba. L’ fu sepolto Erittonio e riposa il corpo del giusto avo; lì le donne troiane scioglievano i capelli, invano ahi! Supplicando di tener lontano la morte incombente sui loro mariti; lì venne Cassandra, quando il Nume le fece predire la caduta di Troia; e cantò alle anime un inno affettuoso, e guidava i nipoti insegnando loro il pietoso inno. E diceva sospirando: oh se mai ad Argo, pascolerete i cavalli per Diomede e per Ulisse, a voi il cielo permetta il ritorno, invano cercherete la vostra patria! Le mura di Troia, opera di Apollo fumeranno sotto le loro macerie. Ma gli dei della patria avranno dimora in queste tombe; perché è proprio degli dei conservare anche nella rovina la loro fama gloriosa. E voi palme e cipressi che le nuore di Priamo piantano e crescerete ahi presto innaffiati dalle lacrime delle vedove degli eroi caduti, proteggete i miei padri: echi non abbatterà pietosamente la scure sugli alberi sacri meno soffrirà di lutti consanguinei e toccherà con mani pure gli altari. Proteggete i miei padri. Un giorno vedrete un cieco mendicante vagare tra le vostre antichissime ombre, e brancolando penetrare nei sepolcri, e abbracciare e interrogare le urne. Faranno risuonare il lamento le parti più interne dei sepolcri, e tutta la tomba racconterà la storia di Troia due volte distrutta e due volte ricostruita più splendida sulle deserte rovine per rendere più bella l’ultima vittoria dei greci. Il sacro poeta, placando le anime sofferenti con il poema, renderà eterna fama ai principi greci per tutte le terre che circondano Oceano. E tu, Ettore, avrai l’onore di essere pianto ovunque sarà considerato santo e degno di lacrime il sangue versato per la patria, finché il sole continuerà a risplendere sulle sofferenze degli uomini.

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