lunedì 8 dicembre 2014

LA LETTERATURA DELL'UNITA' : LE COORDINATE STORICHE

1. L’UNITA' IMPERFETTA
Il conseguimento dell’unità nazionale, sancito il 17 marzo 1861 con la proclamazione del Regno d’Italia, costituiva certamente il coronamento di un programma risorgimentale gestito per gran parte dalla borghesia moderata dei vari Stati italiani, e tuttavia aggiungeva nuovi problemi a quelli, già di per sé assai gravi, rimasti aperti. L’alta borghesia settentrionale, presto alleatasi con un’ aristocrazia a sua volta imborghesita e rapidamente convertita alla linea unitaria e costituzionale, era l’unica forza italiana ad avere espresso un programma di sviluppo politico e sociale complessivo e coerente, e ciò le valse la leadership incontrastata all'interno del movimento moderato, cui si contrapponeva un movimento democratico diviso e spesso contraddittorio tanto negli obiettivi proposti quanto nei progetti per la loro realizzazione. Il programma dei moderati, ispirato ai principi del liberalismo di primo Ottocento, prevedeva un armonico sviluppo industriale delle singole regioni italiane, favorito da un ampia autonomia amministrativa e basato sulla libertà d’impresa. Tale progetto si scontrava con le condizioni di estrema arretratezza dell’Italia meridionale e con la fragilità dell’egemonia politica appena realizzata, insidiata dall'aperta ostilità della Chiesa e dal dissenso di una piccola borghesia che non vedeva corrispondere al proprio accresciuto peso sociale un analogo incremento della partecipazione alle sorti politiche del nuovo Stato. Fu così giocoforza, per la borghesia imprenditoriale del Nord, stringere un’alleanza con la borghesia agraria e latifondista del Meridione, che garantì il proprio sostegno al programma unitario a patto che non venisse intaccato il proprio dominio sulle plebi contadine: a patto cioè che i contadini del Sud rimanessero nelle condizioni di miseria, analfabetismo e ghettizzazione che risultavano le più idonee per il loro sistematico sfruttamento. Ciò determinò un grave scompenso nella crescita complessiva del paese, che influì molto negativamente sulla modernizzazione dell’agricoltura e sullo sviluppo sociale del Mezzogiorno, con effetti che si avvertono ancora oggi. Anche il piano di decentramento amministrativo e di autonomie regionali, che avrebbe potuto incentivare le risorse locali, rimase lettera morta di fronte alla necessità per il partito moderato di compensare la sua esigua base sociale con un ferreo controllo centrale delle risorse e degli investimenti: ciò conferiva necessariamente al Piemonte e alla capitale Torino un ruolo di assoluto privilegio nella nuova compagine statale, rendendo il processo unitario più simile a un’ operazione di tipo coloniale da parte dell’ex Regno di Sardegna, che non al solidale convergere di iniziative locali verso obiettivi da tutti voluti e interpretati allo stesso modo. Non ultimo per importanza, fra i problemi che il nuovo Stato si trovò ad affrontare, era il completamento dell’unità nazionale con l’annessione del Veneto e di Roma. Punto irrinunciabile della propaganda democratica, che vi coglieva l’ultima occasione per rilanciare il movimento insurrezionale, la questione influenzò profondamente la politica interna ed estera del Regno d’Italia nel suo primo decennio di vita, rivelò la scarsa autonomia dei Savoia rispetto alle potenze europee e soprattutto mise in luce la vocazione repressiva dei governi post-unitari, assai preoccupati dalle eventuali rivendicazioni popolari che la liberazione di Venezia o Roma per via di insurrezione democratica avrebbe potuto stimolare. Le difficoltà dell’Italia unitaria, insomma, appaiono legate- né poteva essere altrimenti - al modo in cui il Risorgimento si era realizzato e all'impronta sostanzialmente moderata e conservatrice che esso aveva storicamente ricevuto: il ferimento di Garibaldi all'Aspromonte da parte dell’esercito regio può costituire l’episodio emblematico della definitiva abdicazione dell’iniziativa popolare e democratica a favore della ragion di stato e del contesto politico internazionale.

2. LA DINAMICA POLITICA E SOCIALE
I primi governi della Destra storica, che deteneva una larga maggioranza in un parlamento eletto in poco più di quattrocentomila elettori selezionati in base al censo, si trovarono divisi tra le sempre più pressanti richieste dei democratici che pretendevano la liberazione del Veneto dal dominio austriaco e di Roma da quello pontificio, e le esigenze del concerto internazionale, soprattutto di Napoleone III, rivolte ad una conservazione dello status quo e alla protezione anche militare, da parte francese, della sovranità temporale del papa.
L’ambiguità del governo italiano apparve chiara fin dal 1862, quando Giuseppe Garibaldi organizzò un corpo di volontari che risalendo dalla Sicilia attraverso l’Italia meridionale sarebbe dovuto giungere fino a Roma. L’atteggiamento di Vittorio Emanuele II e del presidente del consiglio Urbano Rattazzi, che all'inizio poteva essere interpretato come un tacito incoraggiamento all'impresa, mutò radicalmente in seguito alla reazione di Napoleone III e al pericolo che il passaggio dei garibaldini provocasse un insurrezione democratica nelle popolazioni meridionali: un corpo di spedizione dell’esercito regio fu inviato in tutta fretta ad intercettare i volontari in Aspromonte, e nel breve scontro a fuoco che ne seguì lo stesso Garibaldi fu ferito ad un piede. L’impressione sull'opinione pubblica fu enorme, e costrinse Rattazzi alle dimissioni; ma non determinò cambiamenti nella politica italiana, sempre più orientata ad affidare al mutevole gioco degli equilibri internazionali la soluzione della questione.
Nel quadro europeo l’elemento dinamico a partire dal 1862 era costituito dalla Prussia di Birsmarck, votata ad un consolidamento del dominio prussiano sulla Confederazione germanica anche attraverso consistenti espansioni territoriali; e in questa fase il ruolo della Prussia si rilevò determinante. L’Austria e la Francia era i due maggiori rivali dell’espansionismo prussiano; gli stessi paesi costituivano un insormontabile ostacolo per il compimento dell’unità nazionale italiana: il Veneto faceva parte dell’Impero Asburgico, mentre lo stato Pontificio era sotto la protezione di Napoleone III, che nel 1864 aveva imposto a Vittorio Emanuele II lo spostamento della capitale da Torino a Firenze, come segno della definitiva rinuncia a Roma dello stato Italiano.
Garantitosi un secondo fronte grazie ad un alleanza offensiva con l’Italia nel 1866 Birsmarck attaccò e sconfisse in breve tempo l’Austria, nonostante le conquiste subite dall'esercito italiano a Lissa e a Custoza (terza guerra di indipendenza); in seguito alla pace di Praga il Veneto fu definitivamente annesso all'Italia. Quattro anni più tardi nel 1870, i colpi d’ariete dell’esercito prussiano sgretolavano a Sedan la potenza militare e determinavano la caduta del Secondo impero, lasciando all'Italia campo libero per la liberazione di Roma che avvenne quasi senza colpo ferire il 20 Settembre dello stesso anno.
Si risollevavano così le più due gravi questioni territoriali rimaste aperte per lo stato unitario. In ambedue i casi la soluzione non fu determinata da un iniziativa autonoma ne tantomeno popolare, bensì solo dal favorevole decorso dei conflitti fra le potenze europee. Si perse in questo modo l’occasione di cementare sotto una bandiera ideale la precaria compagine sociale e morale della nuova Italia.
Represso fra il 1861 e il 1865 il brigantaggio meridionale, che era la spia più evidente del disagio e dell’arretratezza di quelle popolazioni, i vari governi della destra si dedicarono a un difficile risanamento del bilancio statale perseguito attraverso una fortissima repressione fiscale che colpiva soprattutto l’agricoltura impoverendo ulteriormente le già miserrime plebi contadine. Anche il patto sociale stabilito fra moderati settentrionali e latifondisti meridionali fece si che la riforma agraria ben avviata al nord con positive conseguenze sullo sviluppo dell’agricoltura rimanesse al sud quasi del tutto inefficace lasciando intatti anzi incrementando tanto il latifondo quanto il regime di odioso sfruttamento bracciantile. Lo stesso fenomeno migratorio fu ostacolato con leggi restrittive allo scopo di non diminuire l’offerta di braccia e mantenere quindi bassissimo il prezzo della manodopera, e solo intorno al 1890 si provvide a liberalizzare l’emigrazione.
Neanche la cosiddetta “rivoluzione parlamentare” del 1876 che portò al potere la sinistra di Agostino De Pretis valse a mutare gli indirizzi generali della politica italiana. La riforma elettorale del 1882 cominciò a escludere dal voto gli analfabeti e i nullatenenti privando di fatto dei diritti politici la stragrande maggioranza meridionale; anche l’obbligatorietà di un biennio di istruzione elementare introdotta dalla legge Coppino del 1877 rimase largamente inoperante soprattutto al sud: la cosiddetta “questione meridionale” si aggravò così sempre di più divenendo il principale ostacolo sulla via di uno sviluppo industriale e tecnologico del paese.
D’altra parte la classe imprenditoriale italiana aveva assoluto bisogno di un sostegno statale per una politica di industrializzazione diffusa; i costi delle iniziative che il governo italiano prese in tal senso si riversarono inevitabilmente sull'agricoltura attraverso il progressivo aumento della pressione fiscale e l’abbandono a se stesso del latifondo meridionale, che risultava coltivato sempre peggio e con una sempre più ingiusta ripartizione dei guadagni che ne derivano.
Il decennio 1880-1890 fu così segnato da uno sviluppo industriale piuttosto modesto i cui costi si scaricarono su un tessuto sociale gravemente compromesso, con la spaccatura tra nord e sud molto approfondita e con dei diffusi fermenti di protesta non solo contadina che nel decennio successivo avrebbero avuto drammatici sviluppi.

3. I MOVIMENTI IDEOLOGICI
Dal punto di vista delle ideologie, il dato più rilevante del trentennio compreso fra il 1860 e il 1890 è la nascita e il consolidamento del movimento comunista internazionale, in stretta dipendenza dal marxismo e dai suoi sviluppi teorici. Al rapidissimo sviluppo del capitalismo, che nei maggiori paesi europei entra già a partire dal 1870 nella sua fase monopolistica - fatta di grandi concentrazioni industriali libere da problemi di concorrenza, e quindi padrone incontrastate tanto del mercato quanto dei rapporti di lavoro con la classe operaia -, corrispose un'organizzazione altrettanto rapida dei lavoratori, le cui associazioni spontanee trovarono nelle dottrine di Karl Marx (1818-1883) e nella prassi politica comunista il connettivo più efficacie e duraturo. Nel 1864 nasceva così la prima Associazione Internazionale degli Operai, meglio nota come <>, nella quale lo stesso Marx, che tre anni dopo avrebbe pubblicato il volume del Capitale, svolse un ruolo organizzativo di grande rilievo.
L'ideologia comunista, ancorata alla prospettive del <> di Marx, conteneva in sé una carica palingenetica che andava ben al di là dell'obiettivo di migliorare le condizioni di vita degli operai o trasformare a favore del proletariato la dinamica dei rapporti di produzione: la <>, coronamento di un'attività rivoluzionaria che doveva basarsi sulla <> per poi superarla, si configurava in fondo come l'utopia di un Mondo totalmente nuovo, fondato su principi di uguaglianza e giustizia sociale ben più profondi ed efficaci di quelli che governano il presente. Fu proprio tale apertura utopistica a determinare l'adesione alla causa marxista di un gran numero di intellettuali che vi ravvisarono un potente strumento di opposizione alla società borghese.
Del resto vari fermenti di socialismo utopistico circolavano in Europa da prima del 1848, anno di pubblicazione del Manifesto del Partito comunista; e anche se l'adesione alla prassi rivoluzionaria risultava spesso variamente sfumata in senso riformistico, non c'è dubbio che quelle forze preesistenti contribuirono non poco alla diffusione capillare del marxismo tanto fra le masse operaie quanto nei ceti intellettuali.
I punti-cardine della strategia comunista erano l'abbattimento violento del sistema capitalistico, l'abolizione della proprietà privata e la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Anche le strutture dello Stato borghese andavano abbattute e sostituite da uno Stato che fosse emanazione diretta della <>, necessaria fase intermedia verso quella società senza classi e senza Stato che costituiva l'obiettivo finale del processo storico.
Il marxismo si qualificava in tal senso come la risposta più compatta e radicale del movimento operaio allo sviluppo del capitalismo; ma il problema del riscatto sociale delle classi più povere trova in questo periodo anche le altre soluzioni.
Più moderata era ad esempio la posizione del francese Pierre Joseph Proudhon (1809-1865), decisamente contrario a ogni forma di collettivizzazione dei mezzi di produzione e sostenitore di libere associazioni di lavoratori capaci di produrre in totale autonomia ripartendo in modo egualitario i profitti del loro lavoro: un'organizzazione del genere avrebbe portato, secondo Proudhon, alla naturale scomparsa dello Stato in quanto garante del dominio della classe egemone. A differenza di Marx, inoltre, Proudhon non riteneva la classe operaia l'unico propulsore del movimento rivoluzionario e anzi guardava alla società contadina come al terreno ideale per l'applicazione di un modello cooperativistico che poteva prefigurare l'associazionismo globale da lui auspicato.
Soprattutto ai contadini guardava anche l'anarchismo di Michail Bakunin (1814-1876), insofferente di qualsiasi forma di autorità e di organizzazione sociale e propugnatore di una società di stampo proudhoniano fondata sul libero sviluppo di gruppi associati o individui. Per gli anarchici tale società doveva essere perseguita attraverso una tattica insurrezionale affidata all'azione diretta dai singoli, che poteva esprimersi anche attraverso gesti dimostrativi come l'assassinio di regnanti e governanti o l'attentato terroristico rivolto a seminare il panico e a destabilizzare gli equilibri statuali.
Dall'altra parte della barricata le ideologie ispirate allo sviluppo del capitalismo, come il liberalismo di primo Ottocento, subivano dopo il 1860 una sensibile battuta d'arresto nella ricerca teorica e speculativa, anche perché impreparate di fronte alla repentina trasformazione in senso monopolistico e finanziario del capitale d'impresa, con conseguenze che sembravano contraddire, almeno sul piano economico, i fondamenti stessi delle teorie liberali. Ne derivò una certa debolezza che lasciò campo libero alla forze avversarie, le quali a partire dal 1875 presero a organizzarsi in partiti socialisti nazionali, di impronta ora riformista ora rivoluzionaria: essi confluiranno nel 1889 nella Seconda Internazionale, ben più ampia e potente della Prima (che si era sciolta nel 1876), anche se più permeata da cosiddetto “revisionismo” di primo Novecento. se il quadro ideologico europeo di secondo ottocento appare polarizzato sul problema della lotta di classe e dello scontro sempre più aspro fra proprietari e manodopera,
in ITALIA la situazione si presenta sensibilmente diversa. Abbiamo già visto infatti come lo sviluppo capitalistico fosse nel nostro Paese molto più arretrato e difficoltoso che nel resto dell’Europa occidentale. Tale condizione rendeva più problematico il sorgere di una coscienza operaia e quindi più lenta e tortuosa la diffusione delle idee socialiste. Del resto Giuseppe Mazzini, che continuava a costituire il punto di riferimento per lo schieramento repubblicano e progressista italiano, era un fermo oppositore del marxismo e del socialismo (netta per esempio era stata la sua condanna dell’esperienza della Comune di Parigi); e la forte penetrazione degli ideali repubblicani presso gli strati urbani più poveri agì da diga nei confronti delle indicazione della Prima Internazionale. Solo nel 1882 si formò in Italia, sotto la direzione di Andrea Costa (1851-1910), un piccolo partito operaio indipendente di ispirazione socialista, che dieci anni più tardi (1892) Filippo Turati (1857-1932) avrebbe trasformato nel Partito socialista italiano.
Ben più rilevante, per il periodo in esame, fu la diffusione dell’anarchismo bakuniniano, che trovava terreno fertile tanto nella popolazione contadina, quanto in alcuni settori della classe operaia e del sempre crescente sottoproletariato urbano. Nelle parole d’ordine dell’anarchia, con il loro ribellismo spesso generico e con l’esaltazione dell’atto individuale svincolato da qualsiasi strategia complessiva, poteva però riconoscersi anche l’insofferenza antiborghese di numerosi intellettuali soprattutto settentrionali, nutriti di idealismo di matrice romantica e pronti a trasferire nei comportamenti e nei costumi la carica trasgressiva nei confronti del valori riconosciuti. Pur se privi di un programma politico in positivo, tali intellettuali –per gran parte artisti e scrittori come ad esempio gli scapigliati- contribuirono comunque, anche attraverso lo “scandalo” destato presso i benpensanti, a rendere problematica la cultura espressa dalla classe al potere, innervandola di dubbi e contestazione, e inaugurando un’arte “di opposizione” che si può considerare per molti versi all’origine della prassi novecentesca delle avanguardie storiche.
Un discorso a parte va fatto, almeno in Italia, per le ideologie di matrice cattolica. Il “non expedit” con cui Pio IX, nel 1874, vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica di uno Stato resosi “colpevole” della breccia di Porta Pia determinò di fatto un isolamento del mondo cattolico dai più impellenti problemi di gestione economica e organizzazione sociale che si ponevano all’Italia unita; e quindi lo tagliò fuori, almeno per i primi tempi, dal dibattito spesso violento sulle condizioni dei lavoratori, sulla natura del capitalismo, sul socialismo. Dall’ambito cattolico erano pur partite indicazioni riguardanti la questione sociale: grande rilievo avevano avuto, per esempio, le posizione del vescovo di Magonza Wilhelm Emmanuel von Ketteler (1811-1877), che risalivano ai primi anni Sessanta e condannavano sia il capitalismo sia il socialismo, propugnando un’economia basata sulla morale cattolica e su un forte assistenzialismo da parte dello Stato e della Chiesa. Da tali principi si sviluppò un movimento cristiano-sociale che soprattutto in Austria, Francia e Belgio agì in concorrenza e in polemica con le organizzazioni socialiste, pur avanzando talvolta richieste di riforme sostanzialmente identiche.
Circoli e associazioni cristiano-sociali si formarono dopo il 1870 anche in Italia e si caratterizzarono per un’intensa propaganda antisocialista che agiva su operai e contadini attraverso forme associative e organizzative legate alle diocesi o alle parrocchie. Ma la vicinanza al soglio pontificio e le particolari condizioni politiche indotte dal “non expedit” non solo conferirono una particolare virulenza alla predicazione antisocialista, ma spesso arrivarono a coinvolgere, sotto la comune accusa di <>, anche le strutture dello Stato italiano (del resto figlie di quel liberalismo economico che la dottrina cristiano-sociale condannava). Solo nel 1891, l’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII potè mettere un po’ d’ordine nel movimento cattolico, attenuando le punte antistatali ed eversive e promuovendo una più mirata attività dei cattolici presso le masse lavoratrici, che a poco a poco spostò di fatto la Chiesa su posizioni meno conservatrici e più aperte ai problemi sociali.

4. INTELLETTUALI E ISTITUZIONI CULTURALI
Abbiamo visto nell'introduzione alla sezione precedente come nella prima metà dell'Ottocento fosse emersa una nuova figura di intellettuale,vincolato dalle corti e dalle gerarchie ecclesiastiche e sostenuto da un'industria elettorale che cominciava a giovarsi sempre più dell'allargamento del pubblico e della crescente alfabetizzazione. Tale fenomeno era però limitato quasi esclusivamente al Lombardo-Veneto e al Piemonte,la cui qualità di Stati autonomi,dotati di una classe imprenditoriale particolarmente vivaci e di un'amministrazione complessivamente assai accorta favoriva di fatto nuovi sbocchi sociali del ceto intellettuale.
Una volta unificata l'Italia,le proporzioni del fenomeno,riportate su scala nazionale, mutarono bruscamente:il modello settentrionale non poteva infatti essere esteso a un paese in cui nel 1861 il 78% della popolazione era analfabeta,con punte del 95% nel Meridione. Il ceto intellettuale dell'Italia unitaria si trovò perciò ad agire su" uno strato sociale estremamente ristretto che non poteva a sua volta non condizionarlo,sia nel senso di realizzare un ricambio pressoché obbligato al proprio interno, sia nel senso di un oggettiva difficoltà a uscire dagli orizzonte ideali e politici che caratterizzavano la classe dominante" (A. ASOR ROSA ).
Gli sforzi dello Stato unitario nel campo culturale ci concentrarono soprattutto sulla riorganizzazione della scuola,che presentava caratteristiche assai diverse nelle varie regioni e che aveva innanzi tutto bisogno di un profondo ricambio di docenti,con l'ingresso di intellettuali omogenei alle idee unitarie e liberali da cui nasceva il Regno D'Italia.Sia pure con molte disuguaglianze fra Nord e Sud e con numerose contraddizioni interne,il lavoro organizzativo diede buoni frutti,elevando complessivamente il livello culturale medio della popolazione italiana e consentendo a partire dal decennio Ottanta una forte ripresa dell'attività editoriale e giornalistica,che fino a quel momento aveva dovuto segnare il passo.
Le ripercussioni negative della situazione in generale all'indomani dell'unità d'Italia si fecero sentire soprattutto su artisti e letterati:mentre infatti gli intellettuali con competenze tecniche-scientifiche o economiche potevano provare senza troppe difficoltà un ruolo nel lavoro necessario per la costruzione del nuovo Stato,i depositari della creatività artistica si trovarono invece a fronteggiare una grave crisi di committenza. L'austera politica economica della Destra destinava poco o nulla alle attività culturale e i nuovi ricchi borghesi si dimostravano molto più insensibili degli aristocratici alla protezione delle arti liberali. Dall'altra parte l'editoria tutta accentrata fra Lombardia e Piemonte vide aumentare a dismisura i propri costi di gestione per l'improvviso allargarsi della sua base territoriale senza che ciò corrispondesse un apprezzabile incremento del mercato,visto la pressoché totale assenza di pubblico alfabetizzato in quasi tutte le regioni appena entrate a far parte del regno d'Italia.
In conseguenza di ciò i letterati italiani,la cui provenienza di classe era ormai in maggioranza medio-piccolo borghese, e quindi tale da non consentire cospicui appoggi finanziari di origine familiare,si trovarono spesso in condizioni economiche assai difficili:se la " bohème" fu per alcuni una scelta di vita,per altri costituì una vera e propria necessità. Si verificò,in altri termini,una parziale "proletarizzazione" del letterato,con conseguenze talvolta non trascurabili sulla natura stessa e sulla destinazione dell'attività creativa.
La situazione cominciò a mutare in meglio intorno al 1880, grazie all'enorme favore incontrato nel pubblico dei cosiddetti "romanzi di appendice",che venivano pubblicati a puntate da quotidiani e periodici, e al rilancio dell'attività editoriale che trovò in Firenze e Roma i nuovi centri di diffusione e di iniziativa:basti pensare al caso di Giovanni Verga,che riuscì a vivere sempre del suo escluso lavoro di scrittore, e che realizzò lauti guadagni grazie ai diritti di autore di una sua novella, Cavalleria Rusticana, divenuto nel 1890 un melodramma di grande successo per la musica di Pietro Mascagni.
In ogni caso la condizione di intellettuali e istituzioni culturali nel primo trentennio dell'unità d'Italia si presentava alquanto difficile,in relazione alle condizioni di grave arretratezza del paese alle fortissime differenziazioni locali e alla scarsissima base sociale su cui la cultura poteva contare.



LE COORDINATE GEOGRAFICHE

1.La geografia letteraria
La cultura letteraria dell’ Italia unita non poteva non risultare somma delle singole culture espresse dagli Stati precedentemente divisi. é comunque indubbio che grazie alle maggiori possibilità di comunicazione e di circolazione delle idee conseguenti alla caduta dei confini interni,nel periodo 1860-1890 si verificò un sostanziale mutamento negli equilibri geografici della produzione letteraria. Praticamente assente dalla ribalta della letteratura internazionale per tutto il Settecento e per la prima metà dell’Ottocento,il Sud fa ora improvvisamente sentire la sua voce: il VERISMO,che è senza dubbio il più importante fenomeno narrativo di questa fase,reca tratti spiccatamente meridionali, e in particolar modo siciliani, grazie alle personalità di Giovanni Verga, Luigi Capuana e Federico De Roberto. E’ però molto significativo che i tre maggiori rappresentanti del Verismo siciliano abbiano trascorso a Milano lunghi periodi della loro esistenza: i loro strumenti espressivi, nutriti dalla realtà isolana in cui erano nati e cresciuti, avevano comunque bisogno del contatto con una civiltà letteraria più avanzata e complessa, oltre che con strutture culturali infinitamente più efficienti e ramificate. Certo non furono estranee al perfezionamento della poetica verista le influenze della scapigliatura,fenomeno esclusivamente lombardo e piemontese, anzi largamente tributario di esperienze francesi,che tuttavia elaborò una visione del mondo capace di agire sulle sensibilità tanto lontane e appartate di quel manipolo di intellettuali siciliani saliti al Nord. Da questo punto di vista si può dire che il verismo è stata la prima manifestazione autenticamente nazionale della letteratura italiana,per la quale sarà sempre più difficile,d’ora in poi,individuare delle coordinate geografiche di particolare rilievo e significato. Si può però rilevare che il risveglio del Meridione, purtroppo solo letterario, non si limita alla sola Sicilia: è molto attiva Napoli, dominata dalla figura di Francesco De Sanctis e ricca di esperienze autoctone solo tangenzialmente riconducibili al verismo,come quelle di Salvatore Di Giacomo o di Matilde Serao; e si comincia a produrre letteratura anche in regioni rimaste lungamente silenti,come la Calabria di Vincenzo Padula e Nicola Misasi. L’eredità dell’egemonia lombardo-piemontese di primo Ottocento viene raccolta dalla scapigliatura,che fa di Milano un centro di elaborazione culturale molto attivo, fondando svariate riviste letterarie e soprattutto contribuendo alla nascita di un’immagine di metropoli senza uguali nel panorama italiano del tempo:una metropoli con le sue borgate e il suo proletariato,la sua piccola borghesia impiegatizia e i suoi industriali,che ispirerà nelle opere di Emilio De Marchi e Paolo Valera un realismo assai diverso da quello meridionale. Più appartata e legata ai vecchi modi romantici, seppure percorsa da fermenti innovativi e da una specifica attenzione per il positivismo,appare la cultura letteraria veneta, che trova nel vicentino Antonio Fogazzaro,il maggior narratore del periodo e in poeti come Aleandro Aleardi, Giacomo Zanella e Vittorio Betteloni gli esponenti di un cauto e faticoso rinnovamento della letteratura in versi. Ancor più appartato e se possibile ancor meno ricco di risultati significativi si rivela il profilo letterario della Toscana:nonostante la sopravvivenza del mito culturale di Firenze,del resto alimentato nel periodo granducale dal Visseux e dagli intellettuali che intorno a lui si riunivano,la produzione della cultura toscana risulta in questo periodo alquanto scarsa:a parte carducci,che mieterà però gran parte delle sue glorie letterarie a Bologna(e bolognese del resto era anche il suo editore Zanichelli),si possono segnalare soltanto alcuni spunti di verismo bozzettistico e campagnolo nell’opera di Mario Pratesi e Renato Fucini,mentre gli unici momenti di autentica originalità vanno ravvisati nella produzione per l’infanzia di Carlo Collodi.Un discorso a parte va fatto per Roma,che diviene capitale d’Italia nel momento di più grave degrado della sua cultura e delle sue forze intellettuali:tramortita dall’immobilismo pontificio,ridotta a poco più di borgo popolato per la stragrande maggioranza da artigiani e proletari analfabeti,Roma sconta pesantemente il suo isolamento,che già Leopardi negli anni Venti stigmatizzava. Ma l’indotto creato dai ministeri e dal suo essere divenuta improvvisamente il centro della vita politica del paese rivitalizzerà in breve tempo la città, che già nel decennio Ottanta dimostra sul piano culturali forti spinte di ripresa,soprattutto grazie all’attività dell’editore Angelo Sommaruga e alla presenza di immigrati di spicco come gli abruzzesi Gabriele d’Annunzio ed Edoardo Scarfoglio.Anche se la produzione letteraria autoctona lascia ancora a desiderare(l’unico nome di rilievo è il poeta dialettale Cesare Pascarella),la capitale diviene comunque un punto per i letterati di tutta Italia,attirati da riviste come”Cronaca bizantina”o”Nuova Antologia”,la cui risonanza era divenuta addirittura internazionale.

2. La geografia nell’ immaginario letterario.
La vocazione sostanzialmente realista del periodo preso in esame fa sì che i luoghi prediletti dall’ immaginario letterario si discostino ben poco da quelli nei quali si svolse l’ esistenza dei vari scrittori. L’ esotismo anzi – un esotismo, beninteso, tutto di cartapesta, costruito sui peggiori luoghi comuni e sulla più facile oleografia – sembra appannaggio esclusivo della letteratura d’ appendice, che non esita ad ambientare improbabili storie di amore e morte nei siti più stravaganti del pianeta; per gli scrittori migliori, invece, il dato reale sembra dominare su qualsiasi volo fantastico o mitologia letteraria.
Anche un poeta imbevuto di miti classici, come Giosuè Carducci, quando si trova di fronte alle rovine dell’ antica Roma (in Dinanzi alle terme di Caracalla), non sa sottrarsi all’ osservazione del presente, evocando nei versi non tanto il fascino dei ruderi quanto il triste paesaggio che li circonda con le figure ( un turista inglese, un contadino ciociaro) che vi compaiono in quel momento. Solo raramente, come per esempio in Primavere elleniche, l’ immaginazione di Carducci si libra di luoghi e tempi remoti, i luoghi appunto della classicità greca. Ma anche in questo caso l’ autore sente il bisogno di premettere al trittico di poesie un’ apostrofe a “Lina” che obbliga comunque il lettore a partire da una condizione presente, e a considerare effetto di un sogno, di una visione, le immagini successive: “Lina, brumaio torbido inclina, |ne l’aer gelido monta la sera: | e a me ne l’anima fiorisce, o Lina | la primavera”.
Coerentemente con la loro poetica, i veristi descrivono con precisione assoluta i luoghi in cui ambientano le loro narrative: anche i più minuscoli borghi e frazioni vengono chiamati con il loro nome e dipinti nel loro assetto reale: la Sicilia di Verga e Capuana ci balza incontro dalla pagina con un’evidenza impressionante, per nulla trasfigurata dal benché minimo intervento emotivo; e anche la Milano impiegatizia di De Marchi, o quella degli appartamenti in affitto o i cortili dei palazzoni di periferia. Maggiore varietà viene offerta dalla vena fantastica degli scapigliati, che spesso amano ambientare le vicende da loro inventate in luoghi pur sempre italiani, ma piuttosto remoti e misteriosi per la loro sensibilità come l’interno della Calabria o l’Italia meridionale in genere. In ogni caso la letteratura del periodo è sostanzialmente refrattaria all’ immaginazione geografica: neanche città-mito come Venezia, Firenze o Roma, che ancora nel primo Ottocento agivano come luoghi ideali della fantasia creatrice, sembrano ora aver diritto di cittadinanza nel contesto di verità “sperimentale” strenuamente perseguito. Da quella verità nasceranno comunque “miti”, ma la loro carica fantastica esploderà solo a Novecento inoltrato.


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